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Se il mondo ha la struttura del linguaggio e il linguaggio ha la forma della mente la mente con i suoi pieni e i suoi vuoti è niente o quasi e non ci rassicura. Così parlò Papirio. Era già scuro e pioveva. Mettiamoci al sicuro disse e affrettò il passo senza accorgersi che il suo era il linguaggio del delirio. E. Montale, La forma del Mondo.

Primo Levi

Sbagliano i filosofi a voler capire tutto. Il mondo sfugge quando si cerca di volerlo comprendere in un colpo solo. È un tentativo tanto orgoglioso quanto vano. Meglio non perdere tempo a ragionare sui problemi dell’essere e del conoscere l’infinito quando ciò che abbiamo davanti è così bello e sconosciuto. «Era snervante, nauseante, ascoltare discorsi sul problema dell’essere e del conoscere, quando tutto intorno a noi era mistero che premeva per svelarsi : il legno vetusto dei banchi, la sfera del sole di là dai vetri e dai tetti, il volo vano dei pappi nell’aria di giugno. Ecco : tutti i filosofi e tutti gli eserciti del mondo sarebbero stati capaci di costruire questo moscerino ? No, e neppure di comprenderlo»39. E neppure potremmo comprendere

il Sole e le altre stelle, senza sapere che al loro interno brucia l’idrogeno. È con questo spirito che Primo Levi approccia la letteratura. Viviamo in un mondo fatto di molecole e particelle, come possiamo sperare di comprenderlo ignorandone le componenti che lo costituiscono? È proprio a partire dall’incontro delle particelle che scaturisce il mistero della vita e della natura. «È già difficile per il chimico antivedere, all’infuori dell’esperienza, l’interazione fra due molecole semplici; - scrive Levi nella Chiave a

stella – del tutto impossibile predire cosa avverrà all’incontro di due molecole

moderatamente complesse. Che predire sull’incontro di due esseri umani? O delle reazioni di un individuo davanti ad una situazione nuova? Nulla: nulla di sicuro, nulla

di probabile, nulla di onesto» 40. Così procede l’indagine nel mondo di Levi. Se

l’universo fosse un vaso, per poterlo comprendere dovremmo prima lanciarlo contro un muro e poi cercare di ricostruirlo pezzo dopo pezzo, mettendo in ordine tutti i piccoli segmenti d’esistenza. E il frammento minimo da cui partire, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, non può che essere l’uomo nella sua personale intimità. Nemmeno in un ipotetico futuro in cui le macchine parleranno e scriveranno in perfetta autonomia, come racconta nel Versificatore, si potrà fare a meno dell’uomo. La sua è una visione umanistica della realtà e non potrebbe non essere così. Levi era un chimico ma la sua storia lo ha portato ad essere un esperto di uomini. «Ho scritto Se questo è un uomo sforzandomi di spiegare agli altri e a me stesso, i fatti, in cui ero stato coinvolto, ma senza precisi intenti letterari»41, ha raccontato Levi intervistato da

Philip Roth. È a partire dai racconti che questa sua voglia di dare senso alla realtà è emersa con più forza. Dopo lo stile da reportage simile a quello dei giornali che aveva utilizzato in Se questo è un uomo e La tregua, Primo Levi può finalmente inventare le sue storie. La raccolta intitolata Storie Naturali fu pubblicata indossando la maschera di Malabalia (cattiva balia). Un nome di finzione per storie di finzione, ma le atrocità permanevano nel suo sottosuolo narrativo, nascondendosi in piena luce dietro ogni parola.

Ho scritto una ventina di racconti e non so se ne scriverò altri. Li ho scritti per lo più di getto, cercando di dare forma narrativa ad una intuizione puntiforme, cercando di raccontare in altri termini (se sono simbolici lo sono inconsapevolmente) una intuizione oggi non rara: la percezione di una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un “vizio di forma” che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale42

Levi aveva guardato nell’animo umano e aveva visto una spaccatura nella morale. Ma aveva guardato anche dentro se stesso. Anche lui viveva a cavallo tra due mondi. Si definiva un “centauro”, un dilettante della scrittura che stava cercando di rubare il mestiere d’altri. Continuava a sentirsi diviso tra la sua metà di operaio in fabbrica e quella dello scrittore. Ma questa divisione tra le due anime è, ancora una volta, un concetto più raffinato, che Levi maturerà nel corso del tempo e che non si risolve nella

40 S.Radaelli, Nel varco tra le due culture, Bulzoni, Roma, 2016, p. 59. 41 Cit. Levi (2014), p. 226.

semplice dicotomia scrittore/scienziato. Esisteva sì una “spaccatura paranoica” tra il chimico e il narratore ma non era la stessa descritta da Snow nelle Due culture, almeno non nel periodo più maturo. «Ho vissuto in fabbrica per quasi trent’anni, e devo ammettere che non c’è contraddizione fra l’essere un chimico e l’essere uno scrittore: c’è anzi un reciproco rinforzo. Ma stare in fabbrica, anzi, dirigere una fabbrica, significa molte altre cose diverse e lontane dalla chimica […]. Tutti questi affari sono brutalmente incompatibili con lo scrivere che esige una certa pace nell’anima»43.

Quella pace Levi la trova soprattutto nei racconti, dove la scienza e l’umanità possono ricongiungersi e mescolarsi. I suoi sono brevi racconti, come fossero frammenti sparsi che devono essere ordinati e ricomposti. Il loro compito non era altro che condensare in poche pagine «e trasmettere al lettore un ricordo puntuale, uno stato d’animo, o anche solo una trovata»44. In queste opere Levi può divertirsi a ipotizzare futuri o

mescolare le carte del presente stando attento, ogni volta, a non perdere la rotta. Anche se i toni sono ben diversi dal passato, il Primo Levi dei racconti è sempre lo stesso che scrisse Se questo è un uomo e anche le storie più brevi si inseriscono in un’atmosfera amara in cui però, a volte, si può ancora intravedere la scintilla di qualche persistenza di umanità.

Nel racconto, Visto da lontano, ad esempio, immagina che gli alieni abbiano osservato la Terra dallo spazio e abbiano stilato un documento che riassume le principali caratteristiche del pianeta. A fine documento annotano anche due esplosioni “assai vivaci” avvenute entrambe in Giappone a due giorni di distanza, nel periodo tra il 1939 e il 1945. Oppure ne Il fabbro di me stesso, dedicato a Italo Calvino, immagina un uomo con la straordinaria capacità di ricordare ogni attimo di vita di ogni suo predecessore, risalendo i fiumi dell’evoluzione arrivando all’origine della vita. Dopo aver ripercorso i principali stadi evolutivi, fino all’origine del linguaggio, il diario si interrompe perché, «da allora, nulla di essenziale mi è più successo, né penso mi debba più succedere in avvenire»45. La chiusura ironica ha due interpretazioni

principali, la prima è che, agli occhi della storia della vita, tutto sommato il nazismo e la deportazione sono fenomeni trascurabili. La seconda è che l’insensatezza di quegli

43 Intervista con Roth, in Levi (2014). 44 Cit. Ferrero p. XIV.

eventi è tale che nemmeno il più saggio degli individui abbia potuto ipotizzarla. Levi non lo dice e lascia a noi il compito di capire cosa intendesse dire. «Ma la letteratura è proprio questo, cercare di far passare il mare in un imbuto, come diceva Calvino. E Primo Levi altro non ha fatto, sin da quando ha forzato la gabbia mortale del lager opponendogli anzitutto il paziente esercizio di una ragione che cercava di capir, di stabilire un reticolo di cause ed effetti, di far passare una tragedia senza nome nello stretto imbuto di una esperienza raccontabile»46.