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Formazione volontaria e formazione obbligatoria

Le considerazioni appena svolte contengono già la risposta alla domanda in ordine alla opportunità di mantenere l’attuale sistema, che lascia alla scelta ed alla buona volontà del singolo magistrato

par-tecipare o meno ai programmi della formazione. Oggi, di fatto, la for-mazione è obbligatoria soltanto per l’uditore giudiziario, nel periodo di tirocinio. Già la Relazione del 1994 prendeva però posizione sul punto, auspicando, in concomitanza con la istituzione di una strut-tura permanente dedicata alla formazione, l’introduzione di forme dirette a vincolare, almeno in determinati casi, la partecipazione ai corsi. La premessa di questa indicazione partiva da una considera-zione empirica difficilmente controvertibile, che vale a dire la facol-tatività della partecipazione spinge di fatto ad usufruire del servizio i magistrati più motivati, vale a dire più attenti e desiderosi di una cre-scita professionale, senza coinvolgere invece i soggetti che più ne avrebbero bisogno. L’esperienza fatta sembra dimostrare, inoltre, che la facoltatività della partecipazione ai corsi costituisce un limite intrinseco alla stessa efficacia della attività formativa, limitando in misura sensibile la sua capacità di elaborare programmi specifica-mente destinati a determinati settori della magistratura. Essa contri-buisce infatti in misura determinante a fare della formazione un mero ed episodico momento di aggiornamento, e non già, come inve-ce dovrebbe essere, un proinve-cesso continuo e mirato di accrescimento professionale.

Su questo punto, che è nodale all’idea stessa di formazione, occorre pertanto innovare nel profondo. La formazione deve indiriz-zarsi a tutti i magistrati e va considerata alla stregua del lavoro di uffi-cio, come impegno che appartiene integralmente, con una sua speci-fica rilevanza, ai doveri del magistrato. Non si tratta di disconoscere la possibilità che la crescita professionale possa avvenire, come nor-malmente avviene, in altre forme, prima fra tutte la stessa applica-zione nel lavoro quotidiano. Il problema va posto in termini diversi, nella consapevolezza che ciò che è realmente in questione è la stessa partecipazione del magistrato nel circuito costituzionale che affida alla sua preparazione e capacità professionale l’espletamento di una funzione essenziale per la comunità e che fa del singolo non una monade, ma una parte di una organizzazione che trova nei valori della giurisdizione la sua ragion d’essere e la legittimazione del pro-prio operare. La formazione, intesa come diffusione ed assimilazione della cultura della giurisdizione, diventa quindi un momento di cre-scita professionale indispensabile e, nel contempo, uno degli stru-menti più efficaci per garantire standards professionali adeguati al servizio giustizia.

La necessità della formazione deve pertanto essere affermata, innanzitutto, nel periodo di tirocinio (c.d. formazione iniziale) e nei

primi anni della carriera (c.d. formazione complementare), in cui occorre investire sulla creazione di professionalità elevate, sfruttando appieno la propensione naturale che si riscontra normalmente in que-sto periodo ad incrementare le proprie conoscenze e capacità.

Occorre inoltre qualificare necessaria la formazione in tutta una serie di situazioni. Si pensi al caso di mutamento di funzioni, da giu-dicanti a requirenti e viceversa, in cui il giudizio di idoneità oggi pre-visto dall’art. 190 trova dei limiti intrinseci nelle ipotesi frequenti in cui il magistrato non abbia mai esercitato le nuove funzioni ovvero le abbia esercitate in epoca remota. Questa evenienza è invero emble-matica, in quanto il transito da una funzione all’altra deve essere accompagnato da un sostegno formativo in grado di orientare il magi-strato non soltanto verso un sapere diverso, ma anche verso un ruolo diverso, che si connota di proprie attitudini, qualità ed anche valori (si pensi al principio di terzietà, valido per il giudice ma non certo per il p.m.). Si riscontrano pertanto ragioni evidenti per richiedere che il magistrato, già prima dell’atto di tramutamento, partecipi ad un corso specificamente diretto alla conversione di funzioni, capace di porlo in grado di affrontare da subito i diversi problemi normativi e di com-portamento professionale che la nuova attività gli impone. In ciò, è appena il caso di sottolineare, non vi è alcuna sfiducia nelle capacità del singolo, ma soltanto la consapevolezza della necessità di appron-tare gli strumenti culturali ed operativi per garantire al meglio prepa-razione e capacità professionali.

La constatazione dei molti mestieri che compongono la profes-sione del magistrato porta altresì ad affermare la necessità della for-mazione, in generale, nei casi di mero trasferimento in uffici diver-si, per grado o competenze, o di mero spostamento tabellare, nell’i-potesi di mutamento di settore delle controversie. Ciò in particolare, per i settori c.d. specialistici, come quello minorile, della sorveglian-za o delle controversie di lavoro, ovvero per le sezioni specializsorveglian-zate, come quelle che si occupano del diritto fallimentare, societario o della famiglia, che impongono conoscenze approfondite e sensibilità particolari. La formazione, nella sostanza, deve costituire un ausilio necessario in tutti i casi in cui il magistrato cambi ufficio o settori di intervento. In questa prospettiva non vi è dubbio che una efficace attività formativa diventa altresì preziosa per una politica generale di amministrazione della giurisdizione capace di combinare l’esi-genza di capacità specialistiche con la pluralità delle esperienze, quale valore fondamentale della professionalità del magistrato, a fronte di un sistema attuale che, in assenza di significativi indici

valutativi, tende ad affidare le scelte in ordine ai tramutamenti del magistrato pressoché esclusivamente alla ricorrenza di pregresse esperienze omologhe, favorendo di fatto la continuità dello sviluppo della carriera in settori determinati di giurisdizione, chiusi ad ulte-riori e diverse esperienze.

Un altro campo in cui la formazione può costituire un ausilio prezioso e, probabilmente, indispensabile a servizio della qualità della funzione giurisdizionale è quello della dirigenza. Alla figura del capo dell’ufficio va infatti riconosciuta, per effetto della riforma che ha introdotto il giudice unico di primo grado, ed in virtù di una consapevolezza sempre più diffusa verso i valori della efficienza, una posizione centrale ai fini dell’attuazione di una efficace politica della giurisdizione. Basta riflettere in ordine ai poteri di sorveglian-za sui magistrati che la legge gli attribuisce e, soprattutto, al proce-dimento tabellare, in cui i singoli dirigenti assumono un ruolo rile-vante, che si traduce nella predisposizione di un progetto organiz-zativo dell’ufficio che, oltre a garantire il rispetto del principio costi-tuzionale del giudice naturale, ha come scopo quello di assicurare qualità ed efficienza del servizio giustizia. In proposito il Consiglio è intervenuto di recente, con la delibera del 20 aprile 2002, per sot-tolineare che le proposte tabellari debbono muoversi secondo una logica per obiettivi e risultati, senza limitarsi a governare statica-mente l’emergenza ma predisponendo assetti organizzativi specifici per la definizione degli arretrati, per assicurare la trattazione degli affari urgenti, per il riallineamento dei tempi di trattazione dei pro-cedimenti. Ciò comporta l’acquisizione, da parte dei dirigenti, di una specifica professionalità, che si connota per capacità organiz-zative e gestionali. È necessario, pertanto, che il mestiere di diri-gente non sia appreso solo sul campo, da parte di chi, come qua-lunque magistrato, è stato a suo tempo selezionato per l’esercizio di compiti diversi, ma sia affiancato, preparato da una formazione specificamente orientata a sviluppare capacità organizzative e di gestione del personale.

Le prospettive della formazione trovano al riguardo spazi interes-santi anche nei confronti della semi-dirigenza, figura che è stata par-ticolarmente rivitalizzata dal D.Lgs. n. 51 del 1998, che, nell’introdur-re l’art. 47 quater ord. giud., ha investito i pnell’introdur-residenti di sezione di tri-bunale di specifiche responsabilità e attribuzioni, ma che, all’atto pra-tico, soffre ancora di un certo sottodimensionamento, per la mancan-za di una diffusa consapevolezmancan-za in ordine alle potenzialità del ruolo che pure la legge riconosce alle funzioni semidirettive.