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Capitolo 1. Razza e razzismo Un approccio teorico

2.3 Sguardi, agency e subalternità

2.3.2 Fotografia e migrazioni Note metodologiche

Nel saggio Lo spettacolo del naufragio. Migrazioni, luoghi visuali e politica delle emozioni Chiara Giubilaro conduce una riflessione circa la fotografia delle migrazioni a partire dall’analisi di tre eventi visuali strutturati attorno a tre immagini fotografiche. Nell’individuare il rapporto tra i tre poli all’interno del quale si situano le immagini in questione – estetica, politica e affettività – Giubilaro sottolinea la predominanza, nello studio delle immagini della migrazione, dell’analisi del contenuto, cioè una focalizzazione su ciò che si trova all’interno della cornice dell’immagine, che non permette di considerare i rapporti che la fotografia intrattiene con i soggetti che si trovano al di qua e al di là di essa. L’autrice suggerisce, quindi, di «forzare i confini dell’immagine»253 e «far

slittare così i nostri discorsi dall’immagine allo sguardo»254 in modo da far emergere i dispositivi,

gli spazi, i contesti e i soggetti coinvolti nella produzione e nella fruizione di specifiche fotografie. Spostare lo sguardo consente di rilevare la relazione tra immagini e spettatori, ciò che esse suscitano in termini di maggiore o minore coinvolgimento, con quali conseguenze si inseriscono in uno specifico contesto socio-politico e geografico e quali tipi di immaginari alimentano.

Fotografare migranti, tanto nel momento preciso della migrazione quanto nella cornice temporale e spaziale successiva all’arrivo nel Paese di destinazione, vuol dire produrre una rappresentazione, necessariamente mediata dal punto di vista del fotografo, di soggetti che possono trovarsi in una condizione di vulnerabilità e/o di subalternità all’interno della società di arrivo per quanto concerne la cittadinanza, la razza, lo status sociale, la classe, il genere e, nei casi dei naufragi nel Mediterraneo, in concreto pericolo di vita. Oltre a ciò, fotografare “l’alterità” razziale porta con sé una lunga tradizione strettamente legata al colonialismo e all’imperialismo, in quanto la fotografia coloniale ha svolto un ruolo centrale nella costruzione in madrepatria dell’immaginario relativo alle popolazioni conquistate, alle gerarchie razziali e ai rapporti tra colonizzatori e

253 Chiara Giubilaro, Lo spettacolo del naufragio. Migrazioni, luoghi visuali e politica delle emozioni in InterGrace (a cura di), Visualità e (anti)razzismo, Padova University Press, Padova 2018, p. 12.

colonizzati255. Questo comporta che fotografare soggetti migranti dal Sud verso il Nord Globale

implica il presentarsi di alcuni nodi problematici, come ad esempio i rapporti di potere tra chi fotografa e chi viene fotografata/o o la riproposizione di processi di razzializzazione e stereotipizzazione. Nel presente paragrafo, dunque, si vuole dar conto di alcuni elementi critici che emergono nel rapportarsi con fotografie delle migrazioni, sia in termini di contenuto – quindi di ciò che è raffigurato – sia in termini di tecniche – cioè il modo in cui il contenuto viene rappresentato. Naturalmente l’obiettivo non è quello di sciogliere tali nodi ma solo di far emergere le criticità in termini di potere e rappresentazione, così da tenerne conto nella successiva analisi delle fotografie selezionate, considerando anche il costante conflitto e la sottile linea di separazione tra la funzione di denuncia e/o di narrazione delle fotografie e la loro capacità di creare e diffondere, in modo più o meno consensuale, l’immagine di un altro essere umano, aumentando potenzialmente il divario tra identità e rappresentazione.

Nel testo Metodi visuali di ricerca sociale Gaia Giuliani e Annalisa Frisina riprendono il concetto di «razzismo visuale» di Theo Van Leeuwen, che ha analizzato le rappresentazioni dell’alterità in vari media occidentali256. Lo studioso ha condotto l’analisi focalizzandosi su alcuni

elementi che emergono nella relazione tra osservatore e osservato – come ad esempio la distanza, la prospettiva e lo sguardo – ma anche processi che intervengono nel rappresentare l’alterità, come il distanziamento simbolico, con cui viene rafforzato il senso di estraneità di corpi considerati “altri”; il disempowerment simbolico, che costruisce l’inferiorità degli “altri” e l’oggettivazione simbolica, attraverso la quale “gli altri” divengono oggetti dell’osservazione e non soggetti che guardano. Oltre al rapporto tra osservatore e osservato, Van Leeuwen rileva ulteriori elementi che concorrono a produrre un’immagine razzializzante, come ad esempio il ruolo in cui vengono ritratti soggetti al di fuori della norma cromatica, l’omogeneizzazione, che annulla e appiattisce le singole

255 Cfr. Alessandro Triulzi, Fotografia coloniale e storia dell’Africa, «AFT Rivista di storia e fotografia», Anno IV, n. 8, Dicembre 1988, pp. 39-41.

256 Cfr. Annalisa Frisina (a cura di), Metodi visuali di ricerca sociale, Il Mulino, Bologna 2016, p. 63 e Theo Van Leeuwen, The Visual Representation of Social Actors in Theo Van Leeuwen, Discourse and Practice. New Tools for

specificità all’interno di una categoria uniforme o la riproposizione visuale di stereotipi razziali. La razzializzazione e la definizione di rapporti di potere attraverso le fotografie avvengono dunque non soltanto per mezzo di cosa viene rappresentato, quindi del contenuto dell’immagine, ma anche attraverso i dispositivi e le tecniche mobilitati nella produzione di una specifica immagine. Questo aspetto appare chiaro nella distinzione operata da Andrea Pogliano tra due differenti stili tipici del fotogiornalismo dell’immigrazione, lo stile del ritratto e quello dello scatto rubato257. Tali stili

corrispondo a specifiche categorie di migranti e a specifici media su cui vengono pubblicati: tanto i fotografi quanto gli editor sanno che lo stile del ritratto è adatto solo a determinate tipologie di soggetti e che il suo spazio di pubblicazione non è quello dei settimanali di attualità ma i magazine. Lo stile del ritratto, spiega Pogliani, si basa sulla costruzione di un’immagine positiva e intimista di soggetti migranti in qualche modo “virtuosi” o noti, come ad esempio gli imprenditori di successo, le lavoratrici domestiche o le seconde generazioni. In questi casi la narrazione si articola attraverso un processo di personalizzazione – che si ha quando un fenomeno o un evento, come quello migratorio, viene raccontato attraverso la storia individuale di un soggetto specifico – che facilita l’immedesimazione da parte di chi osserva. Si ricorre allo stile dello scatto rubato, invece, per rappresentare la maggior parte dei migranti e può coinvolgere soggetti singoli ma anche gruppi omogenei (o resi tali) da un punto di vista di genere, razza o altro, inglobati in una narrazione che esclude ogni tipo di riferimento alla specificità delle storie e degli individui coinvolti. Ma la principale differenza tra le due tecniche è determinata dal rapporto di potere che intercorre tra fotografi e soggetti fotografati. Nel caso del ritratto il soggetto sceglie volontariamente di essere fotografato, a volte restituisce lo sguardo e può discutere con il fotografo di ciò che vuole o non vuole sia catturato dall’immagine. La presenza del fotografo, dunque, è accettata positivamente e tra i due individui è possibile uno scambio e una conoscenza propedeutica alla realizzazione delle fotografie. Nel caso dello scatto rubato, invece, il soggetto immortalato non ha la possibilità di

257 Per la distinzione tra i due stili del ritratto e dello scatto rubato si veda Andrea Pogliano e Marco Solaroli, L’analisi

dei frame visuali dell’informazione: il caso del fotogiornalismo sull’immigrazione in Italia in Annalisa Frisina (a cura

acconsentire alla realizzazione della fotografia, non c’è reciprocità né scambio o possibilità di concordare i contenuti: il fotografo, quindi, può beneficiare di una posizione di potere a discapito di un altro individuo che non viene messo nelle condizioni di poter dare il consenso alla propria rappresentazione. Questo nodo conduce a un ulteriore elemento di criticità, costituito dalla pubblicazione e diffusione di tali fotografie: se nel caso del ritratto il soggetto immortalato è cosciente del fatto che la sua immagine verrà pubblicata e vista da molte persone, con lo scatto rubato il livello di consapevolezza viene annullato. Susan Sontag afferma che, nel corso delle guerre che hanno martoriato molti territori e popolazioni del globo durante il Novecento, negli Stati Uniti le fotografie di persone morte o sofferenti venivano censurate quando si trattava di occidentali, in quanto venivano considerate nella loro soggettività di esseri umani ma anche di figli, mariti, fratelli o amici di altre persone, che venivano a loro volta tutelati dal rischio e dal dolore di trovare l’immagine di un proprio caro stampata sul giornale. Lo stesso rispetto non veniva però applicato quando a morire o a soffrire erano “gli altri” non occidentali, dei cui corpi martoriati, agonizzanti e sofferenti venivano scattate e diffuse fotografie senza sensibilità alcuna né verso i soggetti immortalati né nei confronti delle loro persone care258. Senza voler entrare in questa sede

nel dibattito circa la funzione più o meno legittima delle fotografie di mostrare le atrocità e di testimoniare l’orrore delle guerre, ciò che si vuole sottolineare è che se da un lato le fotografie hanno l’indubbia capacità di lasciare traccia indelebile di ciò che è accaduto e di rendere visibile il «dolore degli altri»259, con tutta la forza che la fotografia è in grado di mobilitare in termini di

sentimenti e coinvolgimento emotivo, dall’altro lato ritengo sia necessario considerare fin dove arriva tale necessità di vedere per sentire la realtà e dove invece inizi la considerazione del fatto che, all’altro polo dell’osservazione, c’è un altro essere umano che soffre. Questo discorso è valido, a mio avviso, anche nel caso delle centinaia di fotografie dei naufragi nel Mar Mediterraneo, che mostrano costantemente corpi annegati o immortalati nel momento del salvataggio, in condizioni

258 Cfr. Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003. 259 Ibidem.

di estrema sofferenza. Se da un lato tali testimonianze sono necessarie per rendere reali e tangibili, agli occhi delle società occidentali, le conseguenze di un ordine globale che ha reso il Mediterraneo un cimitero d’acqua, dall’altro lato c’è da interrogarsi circa il livello di legittimità di tali fotografie, raffiguranti persone che stanno letteralmente lottando per sopravvivere, e circa il confine tra testimonianza e soggettività.

Infine, Francesca Decimo e Cristina Demaria rilevano che, nella fotografia della migrazione, la rappresentazione delle donne viene utilizzata come cartina di tornasole per monitorare i cambiamenti della sfera privata della società italiana, così da evidenziare il modo in cui le donne migranti modificano e spostano i confini della sessualità, della cura familiare, della maternità nella società di arrivo. Questo comporta, secondo le studiose, che le immagini in questione non restituiscono la specificità dei soggetti immortalati né la dimensione dell’agency. Nel saggio Che genere di straniere? Immagini, costrutti e sperimentazioni sul soggetto femminile altro Decimo e Demaria individuano, dunque, tre macro-figure all’interno delle quali le rappresentazioni delle donne migranti vengono canalizzate: la madre, che racchiude le donne impiegate nel lavoro di cura e dunque ricondotte alla sfera domestica e familiare, l’esotica, che comprende le rappresentazioni erotizzanti ed esotizzanti delle donne nere e non bianche e infine la prostituta, oggetto sessuale e mercificato260. In tale analisi manca, a mio avviso, una quarta figura,

ovvero quella della “subalterna passiva”, che comprende le donne migranti, in condizione di maggiore o minore vulnerabilità, le rappresentazioni delle quali non ne riconoscono le espressioni di agency ma, al contrario, ne costruiscono un’immagine inattiva e vittimizzante. È questo il caso delle due fotografie analizzate nei paragrafi successivi. Tenendo presenti i nodi problematici precedentemente illustrati, nelle prossime pagine verranno analizzate due fotografie considerando al contempo sia la raffigurazione di un fatto – l’attraversamento di frontiere spaziali e geografiche e di confini di razza, genere, status sociale, cittadinanza – sia la narrazione e l’immaginario in cui

260 Cfr. Francesca Decimo e Cristina Demaria, Che genere di straniere? Immagini, costrutti e sperimentazioni sul

soggetto femminile altro in Luigi Gariglio, Andrea Pogliano, Riccardo Zanini (a cura di), Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2010, pp. 211-233.

tali fotografie sono state inserite, il divario tra rappresentazione e identità e, dunque, la mappa del potere che tali immagini contribuiscono a disegnare.