• Non ci sono risultati.

F 1*

1 Eustath. ad Il. 695, 9-11: ἕτεροι δὲ τοὺς κύκλους τῶν πλανωµένων νοοῦσι χρυσέαν σειράν, ὧν ἀνωτάτω µὲν ὁ τοῦ Κρόνου, πρόσγειος δὲ ὁ τῆς σελήνης, ἐν οἷς κύκλοις ἄλλοτε ἄλλως τῶν πλανητῶν συνιόντων πολλαὶ περὶ τὸ πᾶν γίνονται µεταβολαί.

Altri invece concepiscono la catena d’oro come simbolo delle orbite circolari lungo cui si muovono i pianeti, la più esterna delle quali è quella di pertinenza del pianeta Saturno, mentre quella più vicina alla Terra lo è della Luna. Dal momento che ciascuno dei pianeti si muove lungo queste orbite secondo un proprio moto, si verificano numerose, di volta in volta differenti, configurazioni nel cosmo/sfera celeste.

F 2*

1 Eustath. ad Il. 697, 9-12: ἰστέον δὲ ὅτι οἱ ἐκ µαθηµάτων ἀνήκειν φασὶν Ἡλίῳ τὸν χρυσόν, ὡς τῇ Σελήνῃ ἄργυρον, Κρόνῳ δὲ µόλιβδον, καὶ ἄλλῳ τῶν πλανωµένων ἕτερόν τι τῶν µετάλλων. [διὸ χαίρειν χρυσῷ λέγεται καὶ ὁ Ζεύς, καθότι καὶ εἰς ἥλιον ἀλληγορεῖταί ποτε κατὰ τὸν εἰπόντα «ὁ µὲν δὴ µέγας ἐν οὐρανῷ Ζεὺς πτηνὸν ἅρµα ἐλαύνων»].

Si deve poi considerare che gli specialisti della scienza astronomico-matematica affermano che l’oro corrisponde al Sole, come alla Luna l’argento, in relazione con Crono (pianeta Saturno) poi è il piombo e così via, a ciascun pianeta corrisponde uno dei metalli. [Perciò si dice anche che Zeus ama l’oro, per il fatto che in alcuni casi egli rappresenta allegoricamente il sole, secondo colui che dice: “il grande Zeus nel cielo guidando un carro alato”].

F 3* 1 5 Eustath. ad Il. 1003, 8-12: σηµείωσαι δὲ καὶ ὅτι ὁ δεσµὸς τῆς Ἥρας, ὁ ἀλληγορηθεὶς εἰς πλάτος τοῖς παλαιοῖς, τὴν ἄλυτον δηλοῖ τῶν στοιχείων συνάφειαν, ἧς τῶν ὡσανεὶ ποδῶν ἄκµονες οἷον ἀπῃώρηνται τὰ ὑπὸ τὸν ἀέρα βαρέα δύο στοιχεῖα, ὕδωρ, φασί, καὶ γῆ, περὶ δὲ τὰς χεῖρας πολυτελὴς δεσµός, ἡ πρὸς τὸν αἰθέρα συνάφεια, καθαρὸν ὄντα καὶ ἀµιγῆ παθῶν. ἃ δὴ τὸν περὶ γῆν ἀέρα ἐπιθολοῖ τὸν λιµνάζοντα καὶ ἀµαυροῖ ὡς τὸ ἴωµα τὸν σίδηρον, ὃς ὕλη ἐστὶ τοῖς ἄκµοσι, καὶ οὐκ ἀφίησιν εἶναι ἀνέφελον καὶ στιλπνὸν οἷα χρύσεον.

Si noti inoltre che l’episodio in cui Era viene legata, che è stato diffusamente interpretato in chiave allegorica dagli antichi, si riferisce all’indissolubile connessione fra gli elementi, di cui le incudini, che in qualche modo pendono dai piedi (della dea), dicono corrispondere (sul piano allegorico) ai due elementi pesanti che si trovano al di sotto dell’aria, ossia all’acqua e alla terra, mentre la catena preziosa che le cinge i polsi alla porzione di universo aderente all’etere (si tratta infatti di materia priva di impurità ed esente da “perturbazioni”). Gli elementi che si trovano intorno alla Terra infatti intorbidano l’aria che vi ristagna e la privano di luminosità come fa la ruggine con il ferro, materiale di cui sono (normalmente) costituite le incudini, e impediscono che (questa porzione dell’aria) sia priva di nuvolosità e lucente come se fosse dorata. F 4* 1 5 Eustath. ad Il. 828, 44-49: οἱ δὲ κύκλοι δηλοῦσι τούς τε παραλλήλους, τὸν ἀρκτικόν, τὸν θερινὸν τροπικόν, τὸν ἰσηµερινόν, τὸν χειµερινὸν τροπικὸν καὶ τὸν ἀνταρκτικόν, καὶ τοὺς ἀνακεκραµένους κολούρους, καὶ τοὺς δύο λοξούς, τὸν γαλαξίαν καὶ τὸν ζῳδιακόν, ναὶ µὴν καὶ τὸν ὁρίζοντα, οὓς καὶ χαλκοῦς λέγει, ὡς καὶ τὸν οὐρανὸν χάλκεον. [οἱ ὀµφαλοὶ δέ, φασί, τοὺς ἀστέρας αἰνίττονται. καὶ τοιαῦτα µὲν οἱ Ἀλληγορηταί, λέγοντες καὶ ὅτι καλῶς οὐρανοῦ φέρει µίµηµα ἡ τοῦ βασιλέως ἀσπίς, ὃν φθάσας Ὅµηρος ὄµµατα καὶ κεφαλὴν ἴκελον ἔφη τῷ Ὀλυµπίῳ Διΐ].

I cerchi (che corrono intorno allo scudo), invece, rappresentano i paralleli: il circolo artico, il tropico estivo (Cancro), l’equatore, il tropico invernale (Capricorno) e il circolo antartico, poi i due coluri che s’intersecano perpendicolarmente l’uno con l’altro, le due fasce circolari oblique (rispetto al piano equatoriale), cioè la Via Lattea e lo zodiaco, e infine certo anche l’orizzonte, cerchi che il poeta definisce “bronzei”, allo stesso modo in cui definisce “bronzeo” anche il cielo. [Dicono poi che gli umboni alludono nascostamente agli astri. Così dunque interpretano questo passo gli allegoristi, dicendo inoltre che lo scudo del re (Agamennone) costituisce un’appropriata rappresentazione del cielo, dal momento che lo stesso sovrano viene definito già da Omero somigliante, nella testa e nello sguardo, a Zeus Olimpio].

T 1

Bauò/Babò/Baubò è un personaggio del mito: ad essa sono riconosciute prerogative diverse, connesse alla magia, alla fertilità e al culto di Demetra, in particolare al complesso dei misteri eleusini1. Ella compare nelle fonti letterarie come la donna, abitante della campagna intorno

ad Eleusi, che ospitò presso la propria casa Demetra, durante le sue peregrinazioni alla ricerca della figlia Persefone. Baubò accoglie la dea con ospitalità e le offre il ciceone, ma questa, in lutto per la perdita della figlia, si rifiuta di concedersi alcun piacere, compreso quello di bere la saporita bevanda: Baubò allora, addolorata per il rifiuto, tenta di risollevare l’animo di Demetra scoprendo le proprie parti intime e mostrandole alla dea. Questa, divertita dal gesto, accetta di bere il ciceone.

Nella variante più antica dell’episodio, narrata nell’Inno omerico a Demetra2 e ambientata nella reggia del sovrano di Eleusi Celeo, il nome della donna al servizio del re3, che

mostrando le proprie pudenda rallegra la dea, è Iambe; la prima attestazione della variante con il nome di Baubò, arricchita di ulteriori particolari e la cui elaborazione va forse inserita in un contesto orfico4, è trasmessa da Clemente Alessandrino, il quale propone l’episodio come

esemplificativo dei κρύφια τῶν Ἀθηναίων µυστήρια, quasi a voler presentare l’essenza del culto misterico eleusino come l’esecuzione di “atti osceni”: Clem. Al. Protr. II 20, 3-21, 1: καὶ δὴ (οὐ γὰρ ἀνήσω µὴ οὐχὶ εἰπεῖν) ξενίσασα ἡ Βαυβὼ τὴν Δηὼ ὀρέγει κυκεῶνα αὐτῇ· τῆς δὲ ἀναινοµένης λαβεῖν καὶ πιεῖν οὐκ ἐθελούσης (πενθήρης γὰρ ἦν) περιαλγὴς ἡ Βαυβὼ γενοµένη, ὡς ὑπεροραθεῖσα δῆθεν, ἀναστέλλεται τὰ αἰδοῖα καὶ ἐπιδεικνύει τῇ θεῷ· ἣ δὲ τέρπεται τῇ ὄψει ἡ Δηὼ καὶ µόλις ποτὲ δέχεται τὸ ποτόν, ἡσθεῖσα τῷ θεάµατι. ταῦτ’ ἔστι τὰ 1 Vd. Schultz 1884-1886, 752-753; Bonafin 2005, 36-43. 2 Hom. Hymn. Dem. 191-210:

ἀλλ’ οὐ Δηµήτηρ ὡρηφόρος ἀγλαόδωρος ἤθελεν ἑδριάασθαι ἐπὶ κλισµοῖο φαεινοῦ, ἀλλ’ ἀκέουσα ἔµιµνε κατ’ ὄµµατα καλὰ βαλοῦσα, πρίν γ’ ὅτε δή οἱ ἔθηκεν Ἰάµβη κέδν’ εἰδυῖα πηκτὸν ἕδος, καθύπερθε δ’ ἐπ’ ἀργύφεον βάλε κῶας. ἔνθα καθεζοµένη προκατέσχετο χερσὶ καλύπτρην· δηρὸν δ’ ἄφθογγος τετιηµένη ἧστ’ ἐπὶ δίφρου, οὐδέ τιν’ οὔτ’ ἔπεϊ προσπτύσσετο οὔτε τι ἔργῳ, ἀλλ’ ἀγέλαστος ἄπαστος ἐδητύος ἠδὲ ποτῆτος ἧστο πόθῳ µινύθουσα βαθυζώνοιο θυγατρός, πρίν γ’ ὅτε δὴ χλεύῃς µιν Ἰάµβη κέδν’ εἰδυῖα πολλὰ παρασκώπτουσ’ ἐτρέψατο πότνιαν ἁγνὴν µειδῆσαι γελάσαι τε καὶ ἵλαον σχεῖν θυµόν· ἣ δή οἱ καὶ ἔπειτα µεθύστερον εὔαδεν ὀργαῖς. τῇ δὲ δέπας Μετάνειρα δίδου µελιηδέος οἴνου πλήσασ’, ἡ δ’ ἀνένευσ’· οὐ γὰρ θεµιτόν οἱ ἔφασκε πίνειν οἶνον ἐρυθρόν, ἄνωγε δ’ ἄρ’ ἄλφι καὶ ὕδωρ δοῦναι µίξασαν πιέµεν γλήχωνι τερείνῃ. ἡ δὲ κυκεῶ τεύξασα θεᾷ πόρεν ὡς ἐκέλευε· 3 Vd. Weizsäcker 1890-1897, 12.

κρύφια τῶν Ἀθηναίων µυστήρια. La stessa variante del mito è riproposta, in una forma ancor più ricca di dettagli, anche da Arnobio5.

Il testo della nostra testimonianza (T 1) costituisce uno dei lemmi che A. Adler definisce “glossae ad Suidam ipsum revocantes”6: nella categoria sono annoverate le glosse

contraddistinte dalla presenza del termine ζήτει e quelle per cui non si può individuare una fonte precisa da cui la glossa sia stata semplicemente compilata. Tali glosse potrebbero, almeno in parte, essere il frutto di aggiunte/annotazioni “dotte” apposte in una delle fasi di composizione del lessico: in particolare, il nostro caso rientra nel novero dei lemmi reiterati come glosse marginali7. Non si tratta di un lavoro meccanico, poiché chi ha riproposto il lemma ha aggiunto delle informazioni: si può pertanto riconoscere all’operazione un certo grado di “autorialità”, individuandovi un atteggiamento non del tutto passivo nell’attività di trasmissione del testo del lessico. Tale operazione potrebbe pertanto essere il frutto di un copista colto o di un erudito.

La nostra glossa si trova ancora a margine (vergata sul margine destro del f. 114r.) in A8, mentre si legge inserita a testo, anche se in posizioni diverse, in M9 e I10.

11

5 Arn. Adv. nat. V 25: igitur Baubo illa, quam incolam diximus Eleusinii fuisse pagi, malis

multiformibus fatigatam accipit hospitio Cererem, adulatur obsequiis mitibus, reficiendi corporis

rogat curam ut habeat, sitientis ardori oggerit potionem cinni, cyceonem quam nuncupat Graecia: aversatur et respuit humanitatibus officia maerens dea nec eam fortuna perpetitur valetudinis meminisse communis. (...) Vertit Baubo artes et quam serio non quibat allicere ludibriorum statuit exhilarare miraculis (...). Redit ad deam tristem et inter illa communia quibus moris est frangere ac temperare maerores retegit se ipsam atque omnia illa pudoris loca revelatis monstrat inguinibus. 6 Vd. Adler 1928-1938, I 1, XVI.

7 Vd. Adler 1928-1938, I 1, XVI: “glossae iteratae”. Nel nostro caso specifico parte di δ 473 è stata

“riproposta” in una glossa posta a margine della sezione dei lemmi “β” (vd. infra).

8 “Vetus manus” del ms. Paris, BNF, gr. 2625, XIII sec. (vd. Adler 1928-1938, I 5, 218-219).

9 Ms. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, gr. 448, in carta araba orientale; la datazione al XIII

sec. (proposta dalla Adler [1928-1938, I 1, X-XI]) si deve probabilmente superare a favore di una datazione più antica, al XII sec., sulla base dell’individuazione del ms. come autografo di Eustazio di Tessalonica (vd. Peppink 1933; Formentin, 1983; Cullhed 2012, 445-446; infra). In M il nostro lemma si trova inserito fra le voci βαῦνος e βάψας.

10 Ms. Roma, Biblioteca Angelica, gr. 75, cartaceo, XV sec.; ms. tardo, poco rilevante ai fini della

costituzione testuale del lessico. Vi si riconoscono molte mani, non è lasciato alcuno spazio bianco fra un lemma e il successivo, ma l’individuazione di ciascun lemma è facilitata dalla rubricazione della sua lettera iniziale; qui il nostro lemma si legge fra βαΰζων e βαυκαλᾶν.

11 La riproduzione del ms. è disponibile on line nella sezione dedicata del sito della Bibliothèque

Se, come risulta ormai comunemente accettato, M è stato vergato da, o sotto la supervisione di, Eustazio12, la qual cosa sarebbe coerente con il tipo di operazione che già la Adler aveva individuato dietro la produzione del ms.13, si deve immaginare che la prima annotazione della glossa sia avvenuta in una fase della tradizione precedente alla produzione di M (XII sec.), e pertanto alla realizzazione di A (XIII sec.). Si dovrà inoltre ipotizzare che l’inserimento a testo sia avvenuto nella tradizione confluita in M, magari proprio nel processo di copiatura/compilazione di questo ms.; mentre nel processo di trasmissione confluito in A la posizione della glossa è stata mantenuta a margine: il copista o i copisti che sono intervenuti in tale processo l’hanno ricopiata mantenendo la mise en page che trovavano nel modello. La glossa costituisce la riproposizione di parte del lemma Sud. δ 473: Δηµώ: ὄνοµα κύριον,

ἐξένισεν ἡ Βαυὼ τὴν Δηµώ. δηµῷ δὲ τῷ λίπει. La porzione che ci interessa naturalmente è

ἐξένισεν ἡ Βαυὼ τὴν Δηµώ14: essa è chiaramente il frutto dell’alterazione della notizia relativa a Baubò e Demetra fornita da Clemente Alessandrino, ξενίσασα ἡ Βαυβὼ τὴν Δηώ. Il fatto che la forma Δηµώ nel lemma della Suda (δ 473) fosse il frutto di un errore e che vi andasse letto l’altro nome di Demetra Δηώ, è stato riconosciuto da C. A. Lobeck15, H. Flach16, A. Schultz17 e dalla Adler18.

L’alterazione di Δηώ in Δηµώ si spiega facilmente sia per la natura di lectio facilior del nome proprio femminile Δηµώ, assai frequente19 (vd. infra), rispetto alla forma meno diffusa del

nome della divinità; la ricostruzione dell’alterazione si rivela però ancor più palmare laddove

12 Vd. Peppink 1933; Formentin, 1983; Cullhed 2012, 445-446.

13 Il testo della Suda trasmesso da M si rivela il frutto della contaminazione da almeno due antigrafi

appartenenti a rami diversi della tradizione (vd. Adler 1928-1938, I 1, X-XI): un’operazione del genere può denunciare un’aspirazione alla completezza, un’attenzione filologica, nella “collazione” fra più testimoni. Questo tipo di pratica, che pure s’incontra anche nell’ambito della produzione libraria degli

scriptoria, si rivela ancor più in linea con l’attività del grande filologo ed erudito Eustazio (sul quale

vd. introd. §§ 5.3.1-5.3.2 e appendice, § 1).

14 Preceduta dalla definizione di Δηµώ come “nome proprio” e seguita da un’indicazione

disambiguante fra il nome proprio e la forma omografa, ma differente sul piano grammaticale e prosodico, δηµῷ, dativo del sostantivo δηµός “grasso”.

15 Vd. Lobeck 1829, 822, il quale interpreta Δηµώ come variante del nome Δαµία, forma dorica del

nome di Demetra.

16 Vd. Flach 1880, 159 app. ad loc. 17 Vd. Schultz 1884-1886, 753.

18 Vd. Adler 1928-1938, I 2, 49 ap. ad loc.

19 Si può citare a questo proposito un epigramma di Filodemo di Gadara, che invece Ludwich (1912-

1914, 57) usava come prova a sostegno della possibilità che la Demò citata dalla Suda fosse semplicemente omonima dell’allegorista: Anth. Pal. V 114:

ἠράσθην Δηµοῦς Παφίης γένος· οὐ µέγα θαῦµα· καὶ Σαµίης Δηµοῦς δεύτερον· ὐχὶ µέγα· καὶ πάλι Νυσιακῆς Δηµοῦς τρίτον· οὐκέτι ταῦτα παίγνια· καὶ Δηµοῦς τέτρατον Ἀργολίδος. αὐταί που Μοῖραί µε κατωνόµασαν Φιλόδηµον, ὡς αἰεὶ Δηµοῦς θερµὸς ἔχει µε πόθος.

L’intento satirico dell’epigramma si realizza attraverso un gioco paretimologico, in cui Filodemo è colui che ama le Δηµώ, ma anche sul fatto che il nome femminile sia quasi percepito come sinonimo di “donna”, perché tale è la diffusione del nome da consentire al poeta di avere “una Demò in ogni città”. Per la discussione della possibile omonimia fra la nostra e la Demò citata dalla Suda vd. infra.

si consideri il fatto che Δηµώ costituisce l’ὑποκοριστικόν, ossia il “diminutivo” inteso in senso “tecnico-grammaticale”, del nome della dea Δηµήτηρ. Proprio alla differenza fra Δηµώ (“semplice” diminutivo del nome Δηµήτηρ) e Δηώ (altro nome della dea) è dedicata una riflessione trasmessa dall’Etymologicum Magnum, in cui sono indicate alcune etimologie del nome Δηώ. Qui si afferma che l’origine di quest’ultimo sarebbe distinta da quella del nome Δηµήτηρ, pur indicando la medesima divinità: EM s.v. Δηώ: τινὲς δέ φασιν, ὡς λέγει ὁ τεχνικὸς, ὅτι ὑποκοριστικόν ἐστιν ἀπὸ τοῦ Δηµήτηρ Δηώ· ἀγνοοῦντες τὸν σχηµατισµὸν τῶν τοιούτων ὑποκοριστικῶν. τὰ γὰρ τοιαῦτα ὑποκοριστικὰ θέλει φυλάττειν τὸ σύµφωνον τῆς δευτέρας συλλαβῆς τῶν ἰδίων πρωτοτύπων· οἷον, Ὑψιπύλη, Ὑψώ· Εἰδοθέα, Εἰδώ. εἰ οὖν Δηµήτηρ, Δηµὼ ὤφειλεν εἶναι. Ἀλλ’ οὐκ ἔστιν ὑποκοριστικόν.

L’alterazione del nome di Demetra, Δηώ, in Δηµώ ha fatto sì che la notizia relativa al mito di Demetra, in particolare all’origine dei misteri eleusini (vd. supra), fosse inserita nel lemma del nome proprio femminile Δηµώ: oltre che ad un semplice errore, ingeneratosi nella trasmissione del testo, si potrebbe considerare Δηµώ, nella porzione del lemma ἐξένισεν ἡ Βαυὼ τὴν Δηµώ, come una vera e propria variante del nome della divinità, dato che Δηµώ, come si è appena osservato, può essere anche inteso come diminutivo di Δηµήτηρ.

La nostra testimonianza si trova poi compilata anche nel cosiddetto Violario (Ἰωνιά) di

Eudocia20 sotto la rubrica φιλόσοφοι (p. 159, 12-14 Flach): περὶ Βαβώ. Βαβὼ καὶ Δηµώ,

ὀνόµατα σοφῶν γυναικῶν ἐξένισεν ἡ Βαβὼ τὴν Δηµώ. L’opera consiste in una sorta di lessico di personaggi storico-mitologici, in cui i lemmi sono disposti in ordine alfabetico e la sezione dedicata a ciascuna lettera è poi, a sua volta, organizzata per categorie. La titolatura dei mss. ne indica l’autore in Eudocia Macrembolitissa (Εὐδοκία ἡ Μακρεµβολίτισσα), imperatrice bizantina (1021-1096), seconda moglie dell’imperatore Costantino X Ducas; con ogni probabilità però la sua produzione ed attribuzione ad Eudocia si devono all’umanista del XVI sec. Costantino Paleocappa, di origini cretesi21. Lo stesso Flach individua nel testo del Violario la compilazione del lemma della Suda22, rispetto al quale esso non aggiunge nulla (vd. infra).

Posto che l’associazione fra Δηµώ e Βαβώ/Βαυβώ contenuta nel lemma δ 473 e ricopiata nella nostra glossa è il frutto di un errore o dell’alterazione di una delle forme del nome della dea Demetra e che, pertanto, si riferisce all’episodio relativo all’origine del culto eleusino, si deve prendere atto del fatto che tale testimoniamza non ha nulla a che vedere con una qualunque Demò “storica”, compresa la nostra.

Resta dunque da capire a quale Demò si sia riferito chi ha riproposto la porzione del lemma δ 473 nella glossa sotto la rubrica Βαυώ aggiungendo ai due nomi femminili la notazione ὀνόµατα σοφῶν γυναικῶν.

20 Ed. Flach 1880. 21 Vd. Pulch 1882. 22 Vd. Flach 1880, 159.

H. Usener23, non tenendo conto del fraintendimento alla base della notizia sull’ospitalità

fornita da Baubò a Demò, elabora una complessa teoria, per conciliare la figura dell’allegorista Demò con quella della mitica ospite di Demetra. Egli ipotizza infatti che l’autore dello scritto, i cui frammenti sono tramandati sotto il nome di Demò, abbia inventato questo pseudonimo, presentando la propria opera come un dono fatto da una mitica Demò a Baubò in cambio dell’ospitalità di quest’ultima24.

L’assoluta mancanza di fondamento dell’ipotesi risiede in primis nel fatto che essa si basa su un testo inattendibile (vd. supra). Inoltre, le osservazioni elaborate da Usener in merito all’erudita Demò non si limitano al tentativo d’interpretazione della “falsa notizia” dell’ospitalità offerta da Baubò a Demò, ma mirano anche a superare quello che si mostrerà essere in realtà un falso problema, ossia il fatto che il sesso dell’autore di un’opera come quella cui appartenevano i frammenti trasmessi sotto il nome di Demò non potesse davvero essere femminile.

L’ipotesi di Usener è stata oggetto di discussione da parte di Reinhardt25, il quale esclude che l’autore fingesse di esprimersi per voce di una figura mitica, che Usener proponeva d’identificare con una Sibilla (vd. infra), ma accoglie l’idea che il nome di Demò fosse uno pseudonimo, pur continuando a riferirsi al materiale trasmesso sotto il nome dell’erudita come all’“opera di Demò”.

Ludwich26 e Kroll27 respingono invece l’idea dello pseudonimo come infondata.

Effettivamente, una volta ricostruito il fraintendimento alla base della notizia fornita dalla

Suda, non sussiste alcun motivo per dubitare della “storicità” della nostra Demò. Inoltre la

possibilità che una donna sia autrice di materiale esegetico come quello che la tradizione attribuisce a Demò, pur costituendo un fatto infrequente, non è del tutto isolato, come dimostra la figura dell’allieva di Aristofane di Bisanzio Agallide di Corcira28.

Nella nostra testimonianza chi ha riproposto il lemma glossandolo a margine come lemma di Βαυώ/Βαβώ, ha inteso segnalare la natura di “donne sapienti” della Βαυώ e della Δηµώ che trovava in δ 473. La definizione di “donna sapiente” attribuita ad una figura come Baubò, che nel mito “escogita” il modo di far sorridere una dea in lutto e alla quale, nella “variante” del nome Iambe (vd. supra), veniva fatta risalire l’invenzione del metro e della poesia giambici29,

23 Vd. Usener 1873, 414-416. 24 Vd. Usener 1873, 416. 25 Vd. Reinhardt 1910, 57. 26 Vd. Ludwich 1912-1914, 55-60.

27 Vd. Kroll 1918, 331-332. Anche Severyns (1924, 715-723) critica la proposta di Usener, definendo

la ricostruzione da questi avanzata come ipotesi “fumosa”, esclusivo frutto del suo cervello (Severyns 1924, 723; vd. comm. T 3).

28 Sulla figura di Agallide, di cui si tornerà a discutere (vd. comm. T 3 e F 6, §§ 1.3, 1.4), vd. Pagani

2006.

non deve stupire e se ne trova un parallelo nella testimonianza trasmessa da Michele Italico (vd. infra, T 3).

Quanto a Demò, sembra difficile che l’autore della glossa si riferisse alla Δαµώ (variante dorica del nome Δηµώ), figlia di Pitagora30, alla quale il filosofo avrebbe affidato, prima di

morire, i propri ὑποµνήµατα, “memorie scritte”, affinché li custodisse31. Ella avrebbe dato

prova della propria saggezza mantenendo la promessa fatta al padre, senza farsi corrompere dalla prospettiva delle grandi ricchezze che le sarebbero derivate dalla vendita degli scritti32.

Il nome di questa Δαµώ non risulta mai alterato nella forma Δηµώ, ma solo nel nome proprio maschile Δάµων, alterazione che si verifica proprio nell’unico lemma, fra quelli nella Suda dedicati al “mitico” filosofo, in cui compare il riferimento a questo “figlio” di Pitagora33 (nel

lessico non è mai menzionata Damò).

Sembra invece più probabile che alla mente di chi ha glossato la nostra testimonianza potesse essere presente il nome di una Sibilla Cumana34, riportato da Pausania35, il quale cita come

propria fonte lo storico Iperoco di Cuma. Anche in questo caso c’è incertezza nelle fonti fra le forme del nome: Lattanzio riporta una sorta di elenco delle Sibille, che dichiara di trarre dall’opera di Varrone, in cui per il nome della Sibilla Cumana, la settima della lista, vengono riportate tre alternative, Amaltea, Erofile e Demofile36, di cui la forma Δηµώ riferita da

Pausania potrebbe essere un’abbreviazione37.

30 Così Wellmann 1901.

31 Vd. Ps.-Liside, Ep. ad Hipparch. p. 114, 4-10 Thesleff: (...) Πυθαγόρας, ὅς γε Δαµοῖ τᾷ ἑαυτοῦ

θυγατρὶ τὰ ὑποµνάµατα παρακαταθέµενος ἐπέσκαψε µηδενὶ τῶν ἐκτὸς τᾶς οἰκίας παραδιδόµεν. ἁ δὲ δυναµένα πολλῶν χρηµάτων ἀποδόσθαι τὼς λόγως οὐκ ἐβουλάθη, πενίαν δὲ καὶ τὰς τῶ πατρὸς ἐπισκάψιας ἐνόµισε χρυσῶ τιµιωτέρας ἦµεν. φαντὶ δὲ ὅτι καὶ Δαµὼ θνάσκουσα Βιστάλᾳ τᾷ ἑαυτᾶς θυγατρὶ τὰν αὐτὰν ἐπιτολὰν ἐπέτειλεν. D.L. 8, 42: Ἦν δὲ τῷ Πυθαγόρᾳ καὶ γυνή, Θεανὼ ὄνοµα, Βροντίνου τοῦ Κροτωνιάτου θυγάτηρ· οἱ δέ, γυναῖκα µὲν εἶναι Βροντίνου, µαθήτριαν δὲ Πυθαγόρου. ἦν αὐτῷ καὶ θυγάτηρ Δαµώ, ὥς φησι Λύσις. Iambl. Vit. Pyth. 28, 146: ὡς ἔνιοι τοῦ διδασκαλείου ἐλλόγιµοι καὶ ἀξιόπιστοι διαβεβαιοῦνται ἐκ τῶν ὑποµνηµάτων τῶν Δαµοῖ τῇ θυγατρί, ἀδελφῇ δὲ Τηλαύγους, ἀπολειφθέντων ὑπ’ αὐτοῦ Πυθαγόρου, ἅπερ µετὰ θάνατον ἱστοροῦσι δοθῆναι Βιτάλῃ τε τῇ Δαµοῦς θυγατρὶ καὶ Τηλαύγει <ἐν> ἡλικίᾳ γενοµένῳ, υἱῷ µὲν Πυθαγόρου, ἀνδρὶ δὲ τῆς Βιτάλης·

32 Sulla scarsa attendibilità dell’intera notizia vd. Riedweg 2002, 193-194.

33 Sud. π 3120 (s.v. Πυθαγόρας): (...) γαµετὴν δ’ ἐποιήσατο Θεανώ, τὴν Βροτίνου τοῦ Κροτωνιάτου θυγατέρα· ἐξ ἧς καὶ παῖδες αὐτῷ ἐγένοντο δύο, Τηλαύγης καὶ Δάµων ἢ ὥς τινες Μνήσαρχος. κατὰ δέ τινας καὶ θυγάτηρ, Μυῖα ὄνοµα, κατὰ δὲ ἄλλους καὶ Ἀριγνώτη. 34 Vd. Jessen 1901. 35 Paus. X 12, 8-9: τὴν δὲ ἐπὶ ταύτῃ χρησµοὺς κατὰ ταὐτὰ εἰποῦσαν ἐκ Κύµης τῆς ἐν Ὀπικοῖς εἶναι, καλεῖσθαι δὲ [αὐτὴν] Δηµὼ συνέγραψεν Ὑπέροχος ἀνὴρ Κυµαῖος. χρησµὸν δὲ οἱ Κυµαῖοι τῆς γυναικὸς ταύτης [ἐς] οὐδένα εἶχον ἐπιδείξασθαι, λίθου δὲ ὑδρίαν ἐν Ἀπόλλωνος ἱερῷ δεικνύουσιν οὐ µεγάλην, τῆς Σιβύλλης ἐνταῦθα κεῖσθαι φάµενοι τὰ ὀστᾶ. ἐπετράφη δὲ καὶ ὕστερον τῆς Δηµοῦς παρ’ Ἑβραίοις τοῖς ὑπὲρ τῆς Παλαιστίνης γυνὴ χρησµολόγος, ὄνοµα δὲ αὐτῇ Σάββη· Βηρόσου δὲ εἶναι πατρὸς καὶ Ἐρυµάνθης µητρός φασι Σάββην· οἱ δὲ αὐτὴν Βαβυλωνίαν, ἕτεροι δὲ Σίβυλλαν καλοῦσιν Αἰγυπτίαν.

36 Lact. Div. inst. I 6, 7-10: Marcus Varro (...) ‘Sibyllinos libros’ ait ‘non fuisse unius Sibyllae, sed appellari uno nomine Sibyllinos, quod omnes feminae vates Sibyllae sint a veteribus nuncupatae vel ab unius Delphidis nomine vel a consiliis deorum enuntiandis (...)’, easque omnes enumeravit sub auctoribus qui de singulis scriptitaverint. ‘(...) septiam Cumanam nomine Amaltheam, quae ab aliis

Certo una Sibilla potrebbe rientrare nel novero delle donne sagge/sapienti: nel suo ruolo di sacerdotessa e profetessa ella conosce molte cose, grazie all’ispirazione che le deriva dal dio. Non ci sono elementi che, in relazione alla nostra testimonianza, consentano di prendere posizione sull’identificazione di questa Demò, σοφὴ γυνή. Si potrebbe trattare della Sibilla come della nostra Demò. Non costituisce impedimento di sorta a quest’ultima identificazione il fatto che, nel caso, si tratterebbe dell’associazione, sotto una medesima categoria, “donne sapienti”, di una figura mitico-magica (Baubò) e una figura “storica” di donna colta (la nostra Demò). Tale associazione risulta considerata “inammissibile” sia da Usener38 (anche da qui la complessa teoria dello pseudonimo “mitico”), sia dallo stesso Ludwich39, il quale nega la validità dell’ipotesi di Usener e Reinhardt (vd. supra) affermando che la Demò nominata nel

Violario e nella Suda non sia la nostra, ma che si tratti di un caso di omonimia40, data la

diffusione del nome proprio femminile, di cui l’epigramma di Filodemo (vd. supra) può costituire un indizio41. Inoltre, tanto Usener quanto Ludwich attribuiscono specifica rilevanza

alla voce del Violario, senza considerare che si tratta di una fonte di seconda mano e per di più chiaramente compilata dal lemma della Suda. In particolare, entrambi ritengono dirimente ricostruire la ragione dell’inserzione della nostra testimonianza sotto la rubrica φιλόσοφοι42.

Vedremo invece come la medesima associazione, tra una figura femminile mitico-oracolare e una figura “storica” di donna colta, sia operante nella testimonianza fornita da Michele Italico (T 3) e come se ne possa rintracciare un esempio anche nell’opera di Michele Psello (vd. comm. T 3). Non c’è pertanto ragione di escludere che la Demò citata nella testimonianza della Suda sia proprio la nostra. Infatti, se i riferimenti alla figura dell’erudita non sono numerosi, ancor meno numerose sono le occorrenze del nome della Sibilla Cumana. Inoltre si deve tenere conto del fatto che parte del materiale allegorico trasmesso sotto il nome di Demò si trova nei corpora scoliastici all’Iliade (nei cosiddetti “scolî esegetici” e negli scolî D43) e

all’opera di Luciano: il contesto socio-culturale in cui questi corpora sono stati compilati e

Herophile vel Demophile nominetur, eamque novem libros attulisse ad regem Tarquinium Priscum (...).

37 Vd. Jessen 1901. Allo stesso tempo non si può escludere che proprio la forma Demofile sia il frutto

dell’alterazione di Demò per assonanza con il precedente nome dell’elenco Erofile.

38 Vd. Usener 1873, 414-415. 39 Vd. Ludwich 1912-1914, 56-57.

40 La Demò citata nella testimonianza sarebbe da identificarsi nella figlia di Pitagora, nella Sibilla o in

un’altra figura mitica, ma non avrebbe nulla a che vedere con la nostra Demò (vd. Ludwich 1912-1914, 56-60).

41 Anche Ludwich non tiene conto del fatto che la notizia circa l’ospitalità fornita da Baubò a Demò sia

il frutto di un fraintendimento.

42 Vd. Usener 1873, 416 e Ludwich 1912-1914, 57-59. Con ogni probabilità la ragione è quasi

tautologica e non consente di trarre alcuna informazione aggiuntiva rispetto a quanto si possa dedurre dal lemma della Suda: chi ha compilato il Violario ha inserito il lemma sotto la rubrica φιλόσοφοι perché la notazione relativa alle due figure femminili era ὀνόµατα σοφῶν γυναικῶν.

43 Per una discussione delle fasi salienti del processo di formazione dei corpora scoliastici vd. Montana

2011; in particolare sugli scolî esegetici e la loro tradizione vd. Erbse 1969, XLVIII-LVIII; van der Valk 1971, LX-LXI; Schmidt 2002, 170-176; Maniaci 2006, 286-293; Montanari 2009 e Montana

Documenti correlati