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di Francesca Bocca-Aldaqre

È il futuro la vera identità del vissuto islamico della morte. È una certez-za nuova in me, che si è fatta strada di colpo quando, nei giorni succes-sivi alla morte di Iyad, mi sono trovata a dover prendere posizione sul reale. Accettare una morte – e questo la moderna psicologia ce lo con-ferma – è fondamentale per potere di nuovo guardare in avanti; ma per passare dall’accettazione all’amore per ciò che avviene, intercorre una distanza abissale.

È profondissimo amor fati quello che l’Islam incoraggia nel creden-te, ed è uguale gioia che si spalanca di fronte alle benedizioni e alla sof-ferenza. Così insegna uno hadı¯th, notissimo nel mondo musulmano, nel quale Muhammad afferma: «Sorprendente è la situazione del creden-te. In verità, ogni suo affare è buono. E questo non avviene se non per il credente; se gli accade un periodo di prosperità, è grato e ciò è bene per lui, e se gli accade un periodo di avversità, persevera con pazienza, e anche questo è bene per lui».

Quest’ottimismo di fondo porta ad un insolito cortocircuito tra ac-cettazione e sguardo al futuro. Sorprendermi a pensare all’ottimismo, in queste circostanze, ha stupito me stessa, quindi immagino il lettore si trovi disorientato. Ed è certo però che ‘dire sì’ – per prendere in presti-to da Nietzsche quello che è l’atteggiamenpresti-to di fondo di fronte a ciò che accade – non sia affatto rinuncia, ma liberazione.

V’è un’altra intuizione di Nietzsche che mi è tornata alla mente, nel-lo schianto dell’evento: ego fatum. Coincidere con il proprio destino, af-fermandolo anziché rinunciandovi, è posizione autenticamente islami-ca. Non è un caso che, sempre per Nietzsche, l’Islam fosse una religione affermativa, ja-sagend, guardata anche con una certa stima e attrazione, specialmente negli anni della gioventù (Bocca-Aldaqre, in corso di pubbli-cazione). Laddove Nietzsche però reinterpreta il destino nell’eterno ri-torno, in un ripetersi quindi «di ogni dolore e ogni piacere e ogni pen-siero e sospiro» (Nietzsche, 1977, p. 341), l’Islam mette di fronte il cre-dente a una ben chiara teleologia: «Tutte le cose periscono salvo il Suo volto. A Lui spetta il Giudizio, e tutti a Lui sarete ricondotti!» (Cor. 28, 88).

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Dire sì non significa soltanto prendere atto, ma amare talmente ciò che accade da farlo collimare alla propria volontà. V’è un altro versetto del Corano che, riletto alla luce dell’affermazione, acquisisce una nuo-va potenza: «Può darsi vi spiaccia qualcosa che è invece un bene per voi, e può darsi vi piaccia qualcosa, mentre invece è un male per voi, ma Dio sa e voi non sapete» (Cor. 2, 216). L’amore deve quindi coincidere con la volontà divina. È questo l’insegnamento più profondo di un concetto parecchio incompreso, al-wala¯’ wa-l’-bara¯’, quell’amare ciò che Dio ordi-na e odiare ciò che proibisce, che gli estremisti contemporanei distorco-no per farne base dell’imposizione violenta della propria legge.

Se mi fosse stato chiesto, soltanto due mesi fa, di parlare della morte nell’Islam, avrei parlato di accettazione. L’esempio che credevo paradig-matico, prima che la questione diventasse vita vissuta, è contenuto nel-le nel-lettere di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832). Posto di fronte al dramma della morte del figlio, si incoraggia nell’accettazione: «Dob-biamo di nuovo persistere nell’Islam, cioè nella devozione incondizio-nata alla volontà di Dio» e, un anno prima della propria morte, afferma:

«Nell’Islam viviamo tutti, sotto qualsiasi forma decidiamo di farci corag-gio» (Bocca-Aldaqre, Buttafuoco, 2019, p. 125).

L’accettazione della morte nel mondo musulmano è spesso riletta dall’esterno come fatalista. È un marchio molto difficile da cancellare, quello del fatalismo, retaggio di un certo orientalismo. Già osservato-ri attenti, seppure esterni, della religiosità islamica, come Louis Gardet, definiscono l’accusa di fatalismo islamico ‘colonialismo intellettuale’ di-mostrando come un’analisi attenta del vissuto religioso islamico non possa che «rendere falsa l’idea di fatalismo» (Gardet, 2002, p. 286). Su-perare il fatalismo è un passaggio tutto sommato semplice, non altret-tanto è passare dalla pura accettazione allo stadio di amore di ciò che Dio decreta. È una progressione che, di fronte alla morte, l’intera comu-nità musulmana si trova a dover compiere.

Annemarie Schimmel (1922-2003) è stata fin dall’inizio del mio per-corso accademico e spirituale un modello di approccio agli studi islami-ci. Negli anni in cui ho avuto a che fare con la sua figura e le sue ope-re, sono sempre rimasta colpita dalla sua tomba. Nel piccolo cimitero di Poppelsdorfer c’è una semplice lastra di marmo scurissimo e lucido, sul-la quale è inciso il detto di Muhammad (hadı¯th) «Gli uomini dormono, e quando muoiono si svegliano», in tedesco e in arabo.

«Gli uomini dormono, e quando muoiono si svegliano». La morte di Iyad è certamente stata il suo risveglio, ma al tempo stesso ha risvegliato l’intera comunità. La comunità di Iyad non era limitata a persone di fe-de musulmana; aveva scelto Piacenza come sua casa, ed era caro a tutto il tessuto sociale della mia città. È stato potente il risveglio di questa co-munità, alla sua morte. A poche ore dal decesso mi è giunta la

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bilità da parte del sindaco di Piacenza, Patrizia Barbieri, di concedere ai fedeli di religione musulmana uno spazio per la sepoltura nel cimitero comunale. È un’area contigua a quella degli altri defunti, nulla la distin-gue se non il diverso orientamento delle sepolture.

Annemarie Schimmel mi ha insegnato anche che l’Islam è, osser-vato come atteggiamento religioso, lo sforzo di decifrare i segni di Dio (Schimmel, 1994), ed è quindi un approccio fenomenologico quello del credente di fronte al reale. La morte, perciò, va affrontata da chi si trova a rimanere in vita con il desiderio di essere approfondita, di passare dal-la dimensione esterna dell’Isdal-lam – queldal-la che si trova nel petto, secon-do il modello del mistico Abu¯ ’l-Husayn al-Nu¯rı¯ (840-907) – mano a ma-no nella coma-noscenza intuitiva – al-ma῾arifa – fima-no al ma-nocciolo stesso della realtà, il tawhı¯d, l’unità di Dio. Tutte le manifestazioni esterne non sono altro che un segno. La morte non è altro che un segno, e ciò che quin-di conta è che il segno riconduca al ‘qualcos’altro’, semioticamente par-lando, e che quindi non rimanga impantanata in se stessa. Riconduca a Colui che, rassicurandoci, si fa trovare «più vicino che la vena grande del collo» (Cor. 50,16).

La permanenza, il rimanere, è solo in Dio.

Proprio oggi, incrociando uno sguardo, mi sono sentita rivolgere al baqa¯’ li-lla¯h, una delle formule che si ripetono a mo’ di condoglianza tra musulmani. È un’espressione mistica nella sua brevità, nella concisa bel-lezza che le frasi nominali sanno avere in arabo. Per me, al baqa¯’ li-lla¯h è una sintesi dell’eternità del ricordo. Del rimanere, va siglata l’apparte-nenza. Nulla è perduto di quello che è affidato a Dio, e neppure di quel-lo che Dio a volte sembra quasi strappare a forza.

L’altra formula di cordoglio è esplicito ordine coranico; il Libro ripe-te spesso che i credenti saranno messi alla prova. Perdita di beni, salu-te, persone care, tutte vanno affrontate dal buon musulmano con il me-desimo spirito: la perseverazione. A chi obbedisce a questa direttiva, Dio porge la buona novella; a «quando li colga disgrazia esclamano ‘In veri-tà noi siamo di Dio ed a Lui ritorniamo!’» (Cor. 2, 156). Egli promette la Sua benedizione, e mai li abbandonerà.

Il poeta e mistico Jala¯l al-Dı¯n Ru¯mı¯ (1207-1273) sceglie parole nuove per parlare di vita e di morte. Vivere è la separazione, morire la riunio-ne. Ru¯mı¯ non parla solo della propria morte, di quella coscienza della propria finitudine che è pilastro dell’ascetismo musulmano, ma di un’e-sperienza che mi ha fatta ricorrere a lui quando Iyad è morto. Ru¯mı¯ ave-va perso quanto di più caro a lui, Shams-i Tabrı¯zı¯ (1185-1248), suo mae-stro spirituale e profondo studioso delle scienze teologiche e giuridiche islamiche. Nell’incontro con Shams a Ru¯mı¯ si era dischiuso ciò che sta oltre la normale esperienza religiosa, ed era stato inondato dalla gioia.

Perdere Shams, però, ha fatto di Ru¯mı¯ un poeta, la luce di spiritualità e

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pace che tuttora guida a Konya, alla sua tomba, migliaia di fedeli ogni anno, e che i suoi discepoli, organizzati nella confraternita Mevlevi, ri-cordano nel vorticoso rituale del sama¯.

«Siamo di Dio ed a Lui ritorniamo». Se la meta del ritorno è il Mise-ricordioso e Compassionevole, il Sostentatore e Colui che apre, è un de-stino di bene quello al quale si prepara il credente. Anche uno degli au-tori a torto interpretati come tra i più cupi della teologia islamica, Taqı¯

al-Dı¯n ibn Taymiyyah (1263-1328), è stato di recente riletto come pro-motore di una teodicea ‘dell’ottimismo perpetuo’ (Hoover, 2007). ‘Ri-manere’, ‘appartenenza’, ‘ritorno’: sono parole chiave della spiritualità musulmana. Eppure il credente che sperimenta l’apertura a questa real-tà liberante non deve dimenticare che si tratta di grazia, e non di meri-to. L’ottimismo di fronte alla morte è, come la conoscenza, qualcosa che Dio dona a chi preferisce. L’uomo non può, per suo merito, contempla-re la verità che sta dietro al contempla-reale, «Ma se non vuole Iddio, non lo vorcontempla-re- vorre-te. Ché Dio è savio sapiente!» (Cor. 76, 30).

Lo scopo della creazione è adorare Dio. Non è ragionamento teo-logico, ma affermazione che lo stesso Creatore inserisce nel Corano:

«E io non ho creato i g˘inn e gli uomini altro che perché M’adorasse-ro» (Cor. 51, 56). L’uomo vive in quanto potenziale di ῾iba¯da, ‘adorazio-ne’, e quando sopraggiunge la morte termina questa possibilità. Que-sto è quello che credevo prima della morte di Iyad. Ho imparato, inve-ce, che la misericordia di Dio concede talvolta all’uomo la possibilità di adorarlo anche dopo la morte. È noto nella comunità musulmana il hadı¯th: «Quando un uomo muore, le sue buone azioni giungono al ter-mine tranne tre: l’elemosina ricorrente, la conoscenza benefica, e dei fi-gli che pregano per lui». Questa elemosina ricorrente – sa¯daqa ja¯riya – è desiderata, cercata, ambita e implorata da molti musulmani devoti nel-le proprie preghiere.

In questo senso la morte di Iyad, il risveglio che ha provocato in me e la possibilità concreta di ottenere per altri defunti una sepoltura vici-no alle famiglie, sia un῾iba¯da che è opera sua, da quanto è naturale con-seguenza delle sue azioni, del suo quotidiano. E quanto rimane da fa-re è semplicemente ‘difa-re sì’ e, nel tentativo di fafa-re della propria volontà quella di Dio, trovare la gioia.

BIBLIOGRAFIA

Bocca-Aldaqre F. - Buttafuoco P., Sotto il suo passo nascono i fiori. Goethe e l’Islam, La Nave di Teseo, Milano 2019.

Bocca-Aldaqre F., Nietzsche in Paradiso, Mimesis, Milano (in corso di pubblicazione).

Gardet L., Gli uomini dell’Islam, Jaca Book, Milano 2002.

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Hoover J., Ibn Taymiyya’s Theodicy of Perpetual Optimism, Brill, Leiden 2007.

Nietzsche F., La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 1977.

Schimmel A., Deciphering the Signs of God. A Phenomenological Approach to Islam, State University of New York Press, New York 1994.

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