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La funzione simbolica degli ostagg

S

ul palcoscenico della realtà internazionale, nessuna figura meglio dell’ostaggio ha rappresentato storicamente le ambiguità e le po- tenzialità che legano le capacità trasformative della guerra e della pace

all’elemento negoziale. Tale figura riassume, in maniera più evidente rispetto ad altri casi relativi all’uso dei captivi, come quello dei prigio-

nieri di guerra, la complessità e il paradosso di un fenomeno in cui al crimine di guerra si affianca, in una tensione quasi teatrale, la possibilità

della comunicazione, della trattativa e dell’attenuazione potenziale del contrasto fra le parti.

Il ruolo che viene accordato all’ostaggio merita, dunque, un ap- profondimento dal punto di vista simbolico, considerando la moltepli-

cità di significati che esso racchiude in sé: interpretazioni che riguar- dano tanto il tema della fenomenologia del conflitto e della violenza, quanto quello delle modalità miranti alla prevenzione del conflitto stesso o della sua degenerazione.

Nella sua essenza, la figura dell’ostaggio esprime poi il senso profondo delle relazioni di potere, inter-individuali e inter-gruppi, che caratterizzano la società e la sua innata instabilità, ponendosi nel contempo al centro di una relazione triadica che è nesso (stabile) e processo (dinamico) di una qualità umana fondamentale: la possibi- lità di scegliere fra il bene e il male, fra il compromesso e il massacro. L’ostaggio, come dimostra la funzione rivestita da tale figura nel cor- so della storia della diplomazia e della guerra ma anche l’analisi dei diversi esiti caratterizzanti le crisi con ostaggi più recenti (da Nick Berg a Gilad Shalit per intenderci), è il punto di collegamento fra l’aut-aut della scelta spettante agli attori della conflittualità.

194 LeregoLeDeLLabattagLia Tralasciando, in questo breve spazio di riflessione, il ragionamen- to sulla natura del crimine e sulla relazione fra violenza, coercizione, forza e potere da un lato e quello sul processo storico (diplomati- co prima e militare poi) che ha condotto alla reificazione del ruolo dell’ostaggio1, concentriamoci piuttosto su alcune questioni rilevan- ti che l’attualità ci ha posto di fronte. Innanzitutto, riflettiamo sul sen-

so di un fenomeno cruento di cui siamo stati tutti spettatori, ossia le decapitazioni degli ostaggi verificatesi negli ultimi anni in contesti conflittuali specifici (quello iracheno è certamente il più noto, ma si pensi anche a quelli filippino e ceceno), e individuiamo alcune analo- gie e differenze rispetto alla logica del sacrificio.

In secondo luogo, ragioniamo sul valore dell’ostaggio e, in partico-

lare, sulla funzione simbolica da esso svolta in un contesto come quello della conflittualità israelo-palestinese.

Infine, constatiamo come il simbolismo associato all’ostaggio e al

rapporto triadico di cui è parte si combina perfettamente non solo con la struttura dei rapporti conflittuali odierni, specialmente in rap- porto all’asimmetria “dei mezzi” da colmare, ma anche con “l’essen- za e l’eternità del conflitto” che caratterizza la società e, in senso più profondo, la natura umana più intima. L’ostaggio è, in tutti questi sensi, un simbolo che trascende la rappresentazione del reale per divenire l’emblema di quel perenne contrasto etico che caratterizza la società e la sua evoluzione nonché l’individuo e il suo agire. Homo sacer? La crisi sacrificale e la conflittualità contemporanea

Decapitazioni e monologhi di violenza

L’essere titolari del diritto di informazione ci ha esposti alla visio- ne di autentici fatti criminali, azioni brutali che è difficile cancellare dalla memoria. Ciò accade anche perché, oltre all’orrore puro, il tradi- zionale rifiuto di analizzare e la volontà di relegare questa in-umani-

1. Riflessioni approfondite nel mio saggio contenuto in V. Coralluzzo (a cura di), Percorsi di Guerra, Perugia: Morlacchi Editore, in prossima uscita (2013).

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tà lontano dalla vista hanno impedito di comprenderne il significato autentico, sia esso sensibile o soprasensibile. Lo spiega bene René Girard, in riferimento alla “civiltà moderna”: «C’è un mistero del sa- crificio. La pietà dell’umanesimo classico addormenta la nostra cu- riosità ma lo studio assiduo degli autori antichi la risveglia. Il mistero resta, oggi, più che mai impenetrabile. Nel modo in cui viene trattato dai moderni, non si sa se a prevalere sia la distrazione, l’indifferenza o una specie di segreta prudenza. Sarà questo un secondo mistero o è sempre il medesimo? Perché, per esempio, non ci si chiede mai quali rapporti intercorrano tra il sacrificio e la violenza?» (Girard 2008, 14).

I fatti criminali verificatisi nell’ultimo decennio nei contesti della conflittualità armata e asimmetrica, in cui crimine ordinario e cri- mine di guerra si confondono, ci permettono di riflettere a nostro modo sulla domanda posta da Girard. Consideriamo, quindi, il caso della decapitazione, che è un fenomeno raro ma significativo in quanto fonte di un dilemma tra ciò che è apertura al dialogo (e la presa di ostaggi presenterebbe sempre questo elemento) e ciò che è chiusura al dialogo (la decapitazione sembrerebbe piuttosto un monologo).

Quale senso attribuire alla decapitazione dell’ostaggio, ossia a una violenza che sembra a prima vista fine a se stessa? Se volessimo ac- codarci al pensiero di Héritier (1997) circa lo spirito “aggregativo” come movente del gesto dei carnefici, nel contesto iracheno domi- nato dagli insurgents “in lotta” contro le forze straniere e “occupanti” (Zaki 2006), non possiamo non considerare anche il rimando al pro- totipo del sacrificio azteco come descritto da Duverger.

Dal momento che ogni morte naturale è considerata una perdita di un’energia che si libera, per gli aztechi «solo l’artificialità di tale

distruzione ne autorizza la cattura. È insomma la rottura della conti- nuità naturale [...] che rende possibile sovvertire il senso della disgre- gazione: anticipare la scadenza fatale significa trasformare la fuga in uno sgorgare di potenza»(Duverger 1981, cit. in Héritier 1997, 27). In altre parole, nell’ottica di Duverger, quel naturale senso di orrore e timore causato dal sacrificio non servirebbe a mettere ordine nella società (dal momento che non ha fini punitivi) ma, al contrario, ad assicurare la sopravvivenza della propria cultura a spese di altri grup- pi. I sacrificati non fanno parte della società dei loro “carnefici” ben-

196 LeregoLeDeLLabattagLia sì sono prigionieri catturati «nel corso di incessanti guerre esterne da guerrieri che li nutrono, li informano sul loro destino, vigilano su di loro e addirittura li coccolano per poi accompagnarli passo dopo passo nel loro itinerario di spossamento ante mortem», spiega Héritier (1997, 29). Come gli Aztechi utilizzarono l’obbligo sacrificale perché in grado di infondere terrore nelle popolazioni straniere e assicurare la sopravvivenza della comunità, allo stesso modo potremmo guar- dare a quei gruppi di guerriglieri che prendono ostaggi e li decapita- no, non solo nell’ottica della raccolta del consenso interno ma anche in quella della sopravvivenza rispetto a una minaccia che è, percepita o reale, esterna. Si tratterebbe di una sorte di “auto-promozione” interna da un lato e “auto-difesa” esterna dall’altro.

Ciò che maggiormente deve essere sottolineato, tuttavia, è il fatto che nel sacrifico azteco non vi è un sentimento di odio verso l’alterità quanto piuttosto una sorta di indifferenza o di senso utilitaristico: «il prigioniero straniero è soltanto l’immagine del futuro mezzo con cui procurarsi un bene che la collettività desidera con forza» (Héritier 1997, 30) e questo bene è la sopravvivenza nel proprio territorio: in mancanza della possibilità o della volontà di un confronto in guerra, la sopravvivenza è ricercata con metodi alternativi. Anche nel caso iracheno, per quanto sia possibile un confronto, le vittime sono state prelevate presso gli Altri, la loro condanna a morte è differita (qui la maggior differenza rispetto alla violenza bellica) ed essa non inten- de tanto distruggere l’Altro ma tenerlo lontano. Attraverso l’Altro e grazie al terrore complessivo che ispira il suo sacrificio, cerca di ot- tenere (nel caso iracheno) o mantenere (nel caso azteco) la coesione intorno al gruppo o nell’intera comunità.

In altre parole, la violenza (una violenza brutale ma controllata) ricerca il potere e il consenso interno attraverso il sacrificio dell’Al- tro, ossia di colui che è percepito come minaccia alla propria soprav- vivenza come gruppo. Quale elemento sia considerato più impor- tante (il riconoscimento interno o l’allontanamento della minaccia esterna), non ci è dato sapere, ma il ruolo della vittima in questo caso ha un valore tutto particolare, utile. Il sacrificio così inteso sembra potersi ricondurre, infatti, al senso politico (in parte perché esprime

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il bisogno di legitimacy di chi ne fa uso) come espresso negli altri casi di presa di ostaggi.

D’altra parte, se Galimberti spiega che «nel senso etimologico della parola, “sacri-ficio” è produzione di cose sacre, non produzio- ne di cose “utili a”, “in vista di”, ma pura perdita, spreco sontuoso di uomini, di animali, di beni» (Galimberti 2008, 499), non possiamo parlare di sacri-ficio in modo assoluto. L’associazione della decapi- tazione dell’ostaggio con il sacrificio, dunque, appare ardua dato che «la distruzione del sacrificio è il mezzo migliore per negare un rap- porto utilitaristico tra l’uomo, l’animale e le cose» (Galimberti 2008, 499-500) e la vittima, che la comunità poteva in altro modo utiliz- zare, è l’eccedenza presa nella massa della ricchezza “utile”, al solo scopo di venir consumata senza profitto, in quell’unico modo che è quello di distruggerla per sempre, «perché, come scrive Bataille: “Quando viene scelta, essa è la parte maledetta destinata al consumo violento. Ma la maledizione la strappa all’ordine delle cose, per restituirla all’intimità, all’angoscia, alla profondità degli esseri viventi”» (Galim- berti 2008, 500). Lo stesso Galimberti, tuttavia, in linea con quanto affermato da Duverger e dalla stessa Héritier, sottolinea il valore non solo sociale ma anche politico del sacrificio, sia rispetto alla propria comunità, sia nei confronti delle minacce esterne. In questo modo sembra possibile affermare che ogni sacri-ficio (termine qui usato impropriamente perché nega se stesso divenendo utile politicamente e socialmente) risponde più a necessità reali che divine, a mantenere cioè la società pacifica e unita piuttosto che a nutrire la sfera sacrale e il volere inconoscibile di un qualche dio.

Se, tuttavia, il legame fra “la violenza e il sacro” non è del tutto compreso o comprensibile, ciò che ci interessa qui sottolineare è piuttosto l’aspetto relazionale: come è inteso o interpretato il gesto “sacrificale” dalla controparte non-divina? Qui Galimberti ci viene in aiuto con il riferimento ai due modelli del potlàc come dono (che nelle società arcaiche aveva lo scopo di sfidare e umiliare, creando disu- guaglianze e gerarchie di potere) e del potlàc come sacrificio (Galimberti 2008, 492-93).Dal senso che il potlàc (non tanto il primo quanto il secondo, quello che richiede un contro-dono che annulli il potere e completi il rito) aveva nelle società primitive (o se vogliamo, pre-sta-

198 LeregoLeDeLLabattagLia tuali), possiamo trarre ulteriori interpretazioni dei fenomeni odierni: se, infatti, il dono gratuito costituiva sostanzialmente l’essenza del potere, il dono-sfida che obbligava al contro-dono aboliva il potere e, dunque, pacificava i contrasti sociali.

Ciò valeva nelle società arcaiche, ma come intendere l’odierna decapitazione degli ostaggi? Se applichiamo questi stessi concetti ai fatti attuali, si potrebbe concludere che quella forma apparente di sacrificio, la decapitazione dell’ostaggio, costituirebbe un’autentica esibizione di forza. Il coerced, infatti, non può reagire (contro-donare) con un gesto di eguale tenore, poiché la posta in gioco è la morte, la morte cruenta. Anziché annullare il potere, la morte che non può essere ripagata con la morte genera un rapporto di forza che in- terrompe la dialettica e ogni possibilità di “scambio”, inteso come comunicazione, dialogo e, di fatto, partecipazione al rito. In questo modo, afferma Galimberti riferendosi a Baudrillard, si può dare una lettura simbolica del terrorismo in generale (ma ciò potrebbe valere nel caso specifico delle decapitazioni) interpretandola come una sfi- da senza possibilità di “scambio”. Scrive Baudrillard riferendosi a un tema per noi centrale: «Con la presa di ostaggi [...] nessuno sa cosa si può negoziare, né ci si accorda sui termini e sulle possibili equivalenze di scambio. Oppure, se vengono formulate, le “richieste dei terroristi” sono tali che equivalgono a un rifiuto radicale di nego- ziare. Ed è appunto questo che è in gioco: l’impossibilità di qualsiasi negoziato, e quindi il passaggio all’ordine simbolico, che ignora to- talmente questo tipo di calcolo e di scambio (il sistema, invece, non vive che di negoziati, fosse anche nell’equilibrio della violenza). A questa irruzione del simbolico (che è la cosa più grave che gli possa capitare, e in fondo la sola “rivoluzione”), il sistema non può, non sa rispondere che con la morte fisica, la morte reale dei terroristi – ma questa è la sua disfatta, perché questa morte era esattamente la loro posta in gioco, e perché, così facendo, il sistema non ha fatto che infilzarsi sulla propria violenza senza veramente rispondere alla sfida che gli era stata lanciata. Perché qualsiasi morte è facilmente computabile nel sistema, anche le carneficine della guerra, ma non la morte-sfida, la morte simbolica, perché questa non ha più un equivalente contabile: essa dà accesso a un rilancio inespiabile se non con un’altra morte.

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Nessun’altra risposta alla morte che la morte. Ed è ciò che accade in questo caso: il sistema è chiamato a suicidarsi a sua volta – cosa che esso fa manifestamente con il suo smarrimento e il suo fallimento» (Bau- drillard 1979, 53). È la re-azione del coerced al di fuori del dialogo-sfida che toglie alla situazione potenzialmente dialettica qualsiasi dinamica di comunicazione e di scambio rituale. Come a dire che il rito è un processo, l’impossibilità di partecipare al rito il risultato di una sfida persa e l’ostaggio un simbolo che è sintesi di un rapporto di forza (che finisce con il coincidere con il potere) che si vuole esprimere nel monologo ricercato della violenza. Il “terrore fuori dalla battaglia” è, dunque, massimo e la controparte, in questa “diplomazia della violen- za”, non può reagire con gli stessi mezzi (Colombo 2006): al massimo può eliminare la fonte stessa da cui proviene la sfida, una sfida che comunque (e simbolicamente), in quanto non raccolta e non raccoglibi- le, assume il senso della sconfitta. Mantenere il confronto “fuori dalla battaglia” reale per garantirsi la certezza del successo: in ciò risiede la capacità del captor di trasformare la forza della violenza brutale in potere, un vantaggio che, pensato per restare nell’universo simbolico sotto forma di monologo violento, si fa assoluto e permanente.

Come chiariscono Uva (2008) e De Luna (2006), infatti, i video delle decapitazioni degli ostaggi svolgono una funzione ben preci- sa nella logica della conflittualità e del conflitto: sono un attacco a un intero sistema di valori (il senso della vita, della morte, il modo di considerare la violenza e, non ultimo, il valore dell’essere uma- no) e, dunque, sono una “sfida” che non può essere colta poiché è l’impossibilità di agire, di fermare il massacro, a costituire l’arma del terrore. Scrive Uva: «Le nuove tecnologie della visione condan- nano l’uomo a vedere, anzi a stra-vedere, conferendogli come non mai lo scomodo, ma anche morboso ruolo di testimone in “prima persona” dei fatti. […] A questo livello si rendono fondamentali le registrazioni che solitamente precedono le vere e proprie esecuzioni in cui gli ostaggi implorano, guardando in macchina, i propri gover- ni (e quindi il pubblico), chiedono di fare qualcosa per salvarli. Più che veri e propri video di morte, nei quali spesso, come si è visto, i prigionieri appaiono bendati, è qui che gli occhi dei condannati, gli sguardi persi di quei “dead men sitting”, letteralmente fronteggiano

200 LeregoLeDeLLabattagLia gli occhi dello spettatore. Il radicale terrorismo di tali immagini è tutto qui, nel fatto stesso che quegli uomini già morti ci guardano e continueranno a guardarci, ossia che la loro sorte, letteralmente, ci ri-guardi» (Uva 2008, 65). Così, porre al centro dei video «gli ostaggi inermi e umiliati in tute arancioni chiaramente ricalcate sul modello di quelle fatte indossare dagli americani ai propri prigionieri ad Abu Ghraib o Guantanamo è il contrappasso “drammaturgicamente” più efficace che si possa infliggere al proprio avversario; usare il medium video per certificare impietosamente quei volti spauriti prossimi alla morte e per fornirli in pasto alle tv dei Paesi da cui quei corpi, quei volti, quegli occhi provengono è la beffa più eclatante che al danno si possa accompagnare» (Uva 2008, 50-51). Il controllo sulla vita è totale: come specifica Uva (2008, 45),se è vero che la grammatica di tale forma estrema di propaganda fa sì che il corpo del nemico, da semplice “preda”, diventi esso stesso “messaggio” (De Luna 2006, 64-65), allora significa che la «condizione di intrinseca vulnerabilità dei corpi si fa assoluta e […] la fisica dell’orrore materializzata su di essi è prontamente tradotta […] in immagini da veicolarsi mondial- mente» (Latini 2007, 49).

Come sostiene Uva, anche in questo caso si può parlare di una “messa in scena” che tuttavia differisce da quella dei video di Bin Laden per un rigore e una ritualità ben più marcati. Benché sia an- ch’esso un fenomeno seriale, qui non si ha a che fare con una saga: il mito (là costruito intorno alla figura satanica dello sceicco del ter- rore), infatti, lascia tragicamente il posto al rito (qui nella sua variante più rigorosamente sacrificale). In quanto fenomeno rituale, infatti, «[l]a produzione audiovisiva in “stile Al Zarqawi” fonda la propria dram- matica efficacia sulla sua stessa monotematicità, sul suo prevedibile ricorrere di ruoli, costumi, oggetti, azioni che trasformano quei set improvvisati in are sacrificali in cui tutto è maniacalmente preordina- to e rispettato, dalle tute arancioni delle vittime ai cappucci neri dei boia fino all’azione stessa dello sgozzamento e dell’esibizione delle teste tagliate» (Uva 2008, 45).

Del “caso limite” rappresentato dalla decapitazione degli ostaggi, insomma, si tende a sottolineare l’ambivalenza fra aspetto utile (nel senso azteco) e aspetto simbolico come conseguenza dell’impossibilità