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Il significato mutevole della morte sul campo di battaglia e le sue conseguenze per la vita de

civili

[...] intanto che i due re facevano cantare dei Te Deum ciascuno nel proprio accampamento, Candido risol- vette di andare altrove a ragionare sulle cause e sugli effetti. Scavalcò mucchi di morti e morenti, e prima raggiunse un villaggio vicino, ridotto in cenere: era un villaggio àvaro che i bulgari avevano incendiato secondo le leggi del diritto pubblico.

(Voltaire, Candido, ovvero l’ottimismo)

C

ome tutte le norme che governano l’universo sociale, anche quelle che regolano la guerra e le sue battaglie sono principal- mente di due tipi: alcune hanno un carattere giuridicamente vinco- lante, altre hanno invece una natura sociale e culturale (Bicchieri 2006; Posner 1997). Le prime sono contenute nei trattati interna- zionali, nelle convenzioni come quelle di Ginevra, oppure nel diritto consuetudinario. Le seconde, invece, pur non avendo un carattere legale, contribuiscono a regolare la guerra perché determinano ciò che, a prescindere dal diritto, è considerato legittimo, appropriato e accettabile sul campo di battaglia.

Questo saggio analizza il ruolo di entrambi i tipi di norma ri- spetto alla questione della protezione dei civili. In particolare, sarà messo in luce come cambiamenti normativi relativi al valore che le società occidentali attribuiscono alla vita dei propri soldati abbiano contribuito a diminuire la sicurezza dei non-combattenti nelle zone di guerra. Come si illustrerà nell’ultima parte di questo scritto, tale fenomeno è rafforzato dallo jus in bello contemporaneo e, in parti-

148 LeregoLeDeLLabattagLia colare, dal fatto che i tradizionali concetti di necessità e vantaggio militari includono oggi la sicurezza dei soldati.

Il principio di discriminazione e i suoi limiti in epoca moderna e contemporanea

Il principio di discriminazione, in base al quale i civili devono essere protetti dalla violenza della guerra, è uno dei più importanti elementi della dottrina della guerra giusta. Come noto, tale dottrina, la cui origine è attribuita agli scritti di alcuni teologi cristiani, in par- ticolare Agostino e Tommaso d’Aquino, è composta da due distinte e indipendenti componenti normative: lo jus ad bellum, che fa riferi-

mento all’uso della forza come strumento legittimo di politica estera, e lo jus in bello, relativo alla conduzione delle operazioni militari. In

epoca moderna si è assistito a un recupero della dottrina della guerra giusta in generale e del principio di discriminazione in particolare. Con argomentazioni e obiettivi diversi, giuristi quali Francisco de Vitoria, Alberico Gentili, Ugo Grozio e Emerich de Vattel, oltre a trattare nei rispettivi scritti di temi relativi allo jus ad bellum, si sono

infatti preoccupati di aspetti riguardanti la protezione dei non-com- battenti (McKeogh 2007).

Se dunque il principio di discriminazione è ben radicato nella sto- ria del pensiero politico e del diritto, nella realtà della guerra tuttavia esso è stato di frequente violato. A dispetto della sistematizzazione teorica e giuridica, nell’Europa moderna le forze armate erano solite trattare i civili come una categoria che non meritava particolare pro- tezione. Nonostante in quell’epoca i civili fossero raramente i diretti obiettivi delle operazioni belliche – gli scontri armati avevano ge- neralmente luogo in campi di battaglia al di fuori dei centri urbani1 – essi erano sottoposti con regolarità alla violenza degli eserciti. La “vittimizzazione” dei non-combattenti avveniva in tre modi princi- pali: i civili erano oggetto di ruberie, saccheggi e depredazioni; erano vittime di pianificate politiche di terra bruciata; e, infine, potevano

1. Con una certa eloquenza lo storico J.R. Hale ha scritto che le battaglie erano «drammi senza spettatori» (Hale 1985, 154).

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essere massacrati durante vere e proprie “orge di violenza” (Parker 2005), che si verificarono specialmente durante i conflitti religiosi del Seicento ma anche in altre occasioni, come alla fine di un lungo ed estenuante assedio (Duffy 1979), a prescindere dalla identità reli- giosa della popolazione assediata. Quando la vita delle popolazioni civili era rispettata, ciò avveniva principalmente per una logica utili- taristica e non per motivazioni umanitarie, dal momento che colpire i civili contribuiva all’indisciplina e al disordine tra i ranghi, ed era dunque una pratica scoraggiata quando non ritenuta necessaria per ragioni strategiche e logistiche. Nonostante l’Europa moderna, dalla fine della Guerra dei trent’anni al 1789, venga spesso considerata l’età della guerra limitata, la moderazione negli scontri armati non trovava le sue origini in principi morali o nelle regole del diritto, ma soprattutto nelle caratteristiche delle forze armate – spesso troppo indisciplinate e inaffidabili per essere rischiate in battaglia (Strachan 1983) – ed era perlopiù circoscritta al ristretto mondo degli ufficiali (Childs 1982).

In epoca moderna, a dispetto della protezione assicurata in li- nea teorica dalla dottrina della guerra giusta, la vita dei civili non era pertanto tenuta in grande considerazione dagli eserciti europei. Come sappiamo, in età contemporanea, e almeno fino alla Seconda guerra mondiale, da una fredda indifferenza nei confronti del prin- cipio di discriminazione si è passati alla sua violazione sistematica e volontaria. Le condizioni dei civili in guerra sono infatti addirittura peggiorate nella prima metà del Novecento, un’epoca che ha visto il verificarsi di numerosi casi di massacri di civili, quali la guerra in- discriminata dei britannici nella Seconda guerra boera, il genocidio degli Herrero da parte dei tedeschi in Africa sud-occidentale, la bru- tale politica di occupazione tedesca in Belgio durante la Prima guerra mondiale, le spietate campagne militari degli italiani in Libia e in Etiopia (Del Boca 2005), e infine le stragi di milioni di civili duran- te la Seconda guerra mondiale. A questi casi di uccisione massiccia di civili se ne possono aggiungere numerosi altri di dimensioni più ridotte, ma altrettanto indiscriminati, come i bombardamenti bri- tannici di Jalalabad e Kabul nel 1919, i bombardamenti francesi su Damasco nel 1925 e quelli italiani e tedeschi durante la Guerra civile

150 LeregoLeDeLLabattagLia spagnola. Da questo punto di vista, i milioni di non-combattenti uc- cisi nella Seconda guerra mondiale rappresentano “solo” il culmine di una lunga storia di massacri di civili che mostra come il principio di discriminazione tra combattenti e civili sia rimasto lettera morta per larga parte della storia dell’umanità.

Dall’uccisione deliberata dei civili ai danni collaterali

Sulla base di questa evidenza empirica, sarebbe facile dedurre che la guerra non può essere limitata dalla legge e dal diritto. Inter arma silent leges: in guerra il diritto tace. Introdurre principi di moderazio-

ne in un’attività che ha luogo dopo il fallimento della mediazione sembra in effetti una contraddizione in termini. Tale visione, tipica del realismo politico, è stata espressa con grande durezza dal Ge- nerale americano William T. Sherman che, durante la Guerra civile, dichiarò ai suoi connazionali del Sud che «il governo degli Stati Uniti ha nel Nord Alabama qualsiasi e tutto il diritto di […] prendersi le vite, le case, le terre e qualsiasi proprietà, perché non si può negare che la guerra esista […] e la guerra è semplicemente potenza che non può essere limitata dalla costituzione e dal contratto» (Murray 2005, 236)2. Non solo i realisti hanno interpretato la relazione tra guerra e diritto in questi termini, ma anche un giurista e sostenitore del diritto internazionale come Hersch Lauterpacht, parafrasando il grande studioso di Oxford Thomas Erskine Holland, ha apertamen- te ammesso la debolezza e la precarietà delle norme intese a regolare la guerra scrivendo che se «il diritto internazionale è, per certi versi, situato nel punto in cui il diritto evapora, lo jus in bello è forse ancora

più vistosamente collocato nel limite in cui termina il diritto interna- zionale» (Lauterpacht 1952, 382).

2. La subordinazione del diritto e del suo rispetto alla forza è, nella storia delle idee, attribuita a realisti quali Tucidide e Hobbes, che con tesi simili avevano argomen- tato che il diritto e l’etica sono prodotti del potere. Hobbes, in particolare, ha scritto in una famosa pagina del Leviatano che «Laddove non esiste un potere comune non esiste legge; dove non vi è legge non vi è giustizia» (Hobbes 2001, 103).

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In un importante studio sulle ragioni che portano gli Stati a colpire i civili in guerra, Alexander Downes ha recentemente spiegato che questa scelta militare è il prodotto di un freddo e razionale calcolo co- sti-benefici. Attraverso la costruzione di un nuovo data set, Downes ha

concluso che i non-combattenti diventano oggetto di violenza all’au- mentare dei costi della guerra, ovvero quando gli stati, non riuscen- do a vincere in modo “pulito”, iniziano progressivamente a “giocare sporco”, includendo i civili tra i loro obiettivi militari. Ciò avverrebbe sia per ragioni umanitarie sia per questioni politico-economiche: pro- teggere e risparmiare la vita dei propri soldati, da un lato, e vincere la guerra in modo più veloce dall’altro. Dal momento che situazioni estreme richiedono scelte estreme, sia i regimi autoritari sia quelli de- mocratici, secondo Downes, hanno utilizzato questo tipo di strategia. Sarebbero quindi principalmente i costi della guerra a determinare il rispetto del principio di discriminazione (Downes 2006).

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, tuttavia, l’avversione per le vittime civili ha lentamente iniziato a porre dei freni alle ope- razioni militari delle democrazie occidentali. Mentre, nel secondo conflitto mondiale, milioni di non-combattenti sono stati intenzio- nalmente uccisi sui diversi fronti del conflitto, nei decenni successivi la norma che prescrive l’immunità dei civili ha sperimentato un lento ma progressivo sviluppo. Sebbene in numerosi conflitti – tra cui la guerra di Corea, di Algeria, del Vietnam e in molti altri – abbiano avuto luogo brutali stragi di civili, il principio di discriminazione co- stituisce oggi non solo un obbligo legale, ma è divenuto pure un vincolo di carattere sociale, interiorizzato dalle società occidentali e messo in pratica nella dottrina militare dei loro stati. Anche nel caso del Vietnam – una guerra brutale, indiscriminata ed estremamente letale per la popolazione civile – Ward Thomas ha mostrato come in alcuni casi il tentativo delle forze americane di ridurre le vittime non-combattenti sia andato oltre al contenuto della norma giuridica: ai piloti statunitensi infatti era richiesto di seguire regole di ingaggio che li sottoponevano a rischi superiori a quelli previsti dallo jus in bello (Thomas 2001, 152-158).

Malgrado quindi l’uccisione di civili, quando non voluta o quan- do attesa ma proporzionale ai vantaggi militari anticipati, non costi-

152 LeregoLeDeLLabattagLia tuisca una violazione del diritto internazionale, essa è tuttavia una pratica militare ritenuta illegittima – se non in alcuni casi che tratte- remo nella parte finale di questo saggio – sia da parte dell’opinione pubblica sia dalla leadership politica e militare occidentale. Per citare un esempio dal carattere emblematico, si ricordi che le proteste in- ternazionali seguite all’uccisione involontaria di più di duecento civili irakeni durante il bombardamento del bunker di Al Firdos nel feb- braio del 1991 posero termine alla campagna aerea su Bagdad, e con essa, al tentativo stesso di eliminare la leadership irakena (Thomas 2001, 88). Inoltre, in questo stesso conflitto alcuni aerei della coali- zione delle Nazioni Unite, specialmente i tornado britannici, erano stati abbattuti dalla contraerea irakena proprio perché volavano ad altitudini relativamente basse al fine di aumentare la precisione dei bombardamenti e di ridurre così le vittime civili (Byers 2005, 122). Si potrebbe infine ricordare che nell’ottobre del 2002, durante la prima fase di Operation Enduring Freedom, una volta rilevata la presenza del

Mullah Omar in un edificio di una zona residenziale di Kabul, dopo un parere negativo di un giurista dell’US Central Command, venne

deciso di non procedere col bombardamento aereo a causa della pre- senza di numerosi civili (Byers 2005, 121)3.

Questo atteggiamento umanitario nei confronti della morte dei non-combattenti costituisce una radicale rottura rispetto alla fero- cia che le forze armate occidentali hanno storicamente mostrato nei confronti delle popolazioni civili, soprattutto di quelle non-occiden- tali. Prima della Seconda guerra mondiale non si parlava infatti di «vincere i cuori e le menti» delle popolazioni. Al contrario, si diceva e si operava partendo da un principio del tutto opposto: «qualsiasi cosa accada noi abbiamo la mitragliatrice Maxim, e gli altri no» (Fi- tzsimmons 2008, 319). Se dunque i civili continuano a morire come “danni collaterali” nei conflitti che vedono coinvolte le democrazie occidentali, è molto più raro rispetto al passato che i non-combat- tenti siano oggetto di intenzionali e deliberate stragi, pratica che,

3. Nel 1991 circa duecento giuristi americani sono stati coinvolti nella pianificazio- ne militare delle operazioni nel Golfo, specialmente su questioni relative ai bersagli da colpire (Byers 2005, 120).

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come abbiamo visto, va considerata invece dal punto di vista storico come ordinaria amministrazione. Se infatti in passato quasi tutti gli Stati hanno compiuto attacchi indiscriminati contro le popolazioni civili – le bombe incendiarie anglo-americane sulle città tedesche, i bombardamenti a tappeto in Vietnam, la tortura sui civili da parte delle truppe francesi in Algeria – oggi tali operazioni militari da parte delle democrazie occidentali non sono del tutto scomparse, ma sono divenute certamente più rare.

La distanza rispetto al passato è giunta a tal punto che il tentati- vo di ridurre le vittime civili e la sofferenza non necessaria sembra essere divenuto, secondo alcuni autori, parte integrante della cultura strategica delle democrazie occidentali. L’uso di armamenti in grado di discriminare tra combattenti e non-combattenti (Freedman 1998), regole di ingaggio sempre più stringenti (Kahl 2007) e il tentativo di produrre e utilizzare armamenti non-letali (Fein 2004; Alexander 1999), sembrano essere prova di quello che Christopher Coker ha definito, con una nota di cautela, «la guerra dal volto umano» (humane warfare) (Coker 2001). Secondo tale interpretazione è la combinazio-

ne tra questo nuovo atteggiamento nei confronti della morte dei ci- vili e la presenza di una particolare e sofisticata tecnologia a rendere possibile il rispetto del principio di discriminazione4. In altre parole, la cosiddetta «Rivoluzione negli affari militari» (RMA) ha reso possi- bile un tipo di guerra più preciso e meno letale, di cui le democrazie si avvalgono per perseguire i loro obiettivi bellici. Ciò ha dato vita, secondo Theo Farrell (2005), al «felice matrimonio» tra capacità tec- nologiche occidentali e norme di diritto internazionale.

Come spiegheremo più avanti, la realtà della guerra contempo- ranea è tuttavia più complessa e contraddittoria dell’immagine sem- plicistica e rassicurante fornitaci da questa visione edulcorata delle guerre contemporanee.

154 LeregoLeDeLLabattagLia Dal body bag factor alla force protection

L’avversione all’uccisione dei civili da parte delle democrazie oc- cidentali non è l’unico mutamento che ha avuto luogo nella seconda metà del Novecento. C’è un altro tipo di morte in guerra che è par- ticolarmente problematico per le società occidentali: la perdita dei propri soldati5.

In una delle Reith Lectures – War and the Individual – l’autorevole

storico militare John Keegan ha sottolineato la grande considera- zione di cui godono i soldati e i veterani nel Regno Unito. I militari non solo vengono spesso rappresentati come eroi che mettono a repentaglio la propria vita, ma sono addirittura considerati vittime delle guerre. Keegan paragona questa immagine dei soldati con gli atteggiamenti tenuti tradizionalmente nei loro confronti, concluden- do che una vera e propria rivoluzione ha avuto luogo: da uno status sociale simile a quello delle «prostitute e dei criminali» (1999, 43-49), i militari sono oggi percepiti come stimabili professionisti degni di ammirazione e rispetto. Si potrebbe aggiungere che tale rappresen- tazione non vale solo per i soldati britannici, ma si estende ai militari occidentali in generale. Nonostante vi sia spesso disaccordo sui me- riti di una particolare guerra, la maggior parte degli americani e degli europei concordano sul fatto che i loro soldati meritino rispetto per la coraggiosa scelta di mettere a repentaglio la vita per l’interesse dei propri paesi.

La rappresentazione odierna del soldato è in effetti molto distan- te dalla sua immagine tradizionale, che lo raffigurava come una ca- naglia e un vagabondo, se non come un ladro e un vero e proprio criminale. Un’immagine per certi versi meritata. Nell’Europa moder- na gli eserciti erano formati da un’umanità diversa, costituita da mer- cenari, volontari, una parte di coscritti, e una moltitudine di poveri ed emarginati alla ricerca di un salario regolare con la prospettiva di incrementarlo con il furto e il saccheggio. Non sorprende dunque che chi all’epoca scriveva di affari militari non potesse evitare di for-

5. In questo saggio, il termine soldato è utilizzato in modo volutamente generico per identificare qualsiasi militare, a prescindere dalle forze armate di appartenenza.

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nire una dura descrizione dei soldati e della loro vita. Claude-Louis de Saint-Germain, generale francese e Ministro della guerra di Lui- gi XVI, aveva osservato che «l’esercito deve essere inevitabilmente composto dalla feccia della popolazione» (O’Connell 1989, 53). Con parole simili, in una lettera del 2 luglio 1813, indirizzata a Henry Bathurst, Wellington descriveva i propri soldati come «feccia della terra, votata all’alcolismo» (van Creveld 2004, 34), reietti sociali che solo l’esercito poteva raddrizzare. Louis de Jacourt, uno dei philosophe

che aveva contributo alla stesura dell’Enciclopedia, li descriveva come

la «parte più vile della nazione» (Lynn 2003, 123). In modo analo- go, lo storico William Leckey ha osservato che l’esercito inglese nel Settecento era formato «dalla parte peggiore della sua popolazione» (Conway 1987, 46).

I soldati ricattavano, rubavano e saccheggiavano le popolazioni civili che incontravano non solo quando era necessario alla loro so- pravvivenza, ma spesso anche per mero guadagno personale. Inol- tre, le ruberie e i saccheggi non erano rivolte solo alle popolazioni del nemico, ma talvolta erano riservate anche alle proprie (Childs 1982). Quando poi i soldati non ottenevano quello che chiedeva- no, la tortura e l’omicidio diventavano strumenti assai persuasivi al fine di ottenere tutto ciò che a loro avviso era loro dovuto. Questo comportamento era spesso una semplice conseguenza delle origini sociali dei soldati, che venivano arruolati non solo nella cosiddetta «parte improduttiva della società» (Parker 2004, 46-47) ma anche – per aumentare la dimensione dell’esercito – tra i criminali, che attra- verso il servizio militare potevano evitare il carcere. A tale proposito H.R. Hale ricorda che una delle ragioni per cui i soldati portavano spesso lunghe chiome era quella di nascondere le orecchie tagliate dal boia (Hale 1985, 86).

L’idea secondo cui i soldati meritano il rispetto della società dal momento che hanno scelto, più o meno volontariamente, il rischio della morte in guerra è un’idea antica (Samet 2005) e contemporanea (Wong 2005), ma di certo non era il modo in cui essi erano percepiti nell’Europa moderna. La vita di un soldato allora era di scarsa im- portanza sia sul campo di battaglia sia al di fuori di esso. Al contrario

156 LeregoLeDeLLabattagLia di quanto avviene oggi, l’unico valore di cui era portatore il soldato era la propria capacità di combattere.

Se si escludono ragioni strettamente militari, senza dubbio la morte dei soldati non influenzava la condotta delle campagne milita- ri. In epoca moderna e contemporanea – almeno fino alla Seconda guerra mondiale – i soldati erano considerati come risorse “sacrifi- cabili”, la cui vita e salute avevano unicamente un valore militare, dal momento che più soldati significava maggiore potere coercitivo: essi erano così pura ‘merce combattente’ (Showalter, Astore 2007, 133; Wasinski 2011) e non esseri umani con una specifica identità sociale e politica. La cura medica dei feriti in battaglia, ad esempio, aveva luogo per il semplice motivo che era meno costoso curarli che rimpiazzarli con nuovi uomini: era proprio questo lo scopo di quello che lo storico Geoffrey Parker considera il primo ospedale militare permanente sul suolo europeo, creato dall’esercito spagnolo delle Fiandre a Malines [Mechelen] nel 1585 (Parker 2004, 141).

Una delle implicazioni di questa identità sociale dei soldati era l’accettazione della loro morte come un fatto ordinario e naturale della guerra. La caduta dei soldati sul campo di battaglia non solleva- va infatti nessuna questione etica, politica e tantomeno giuridica. Per