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CAPITOLO 2: IL BENE

3.2 La funzione dello Stato

Le dottrine politiche tradizionali di derivazione aristotelica presupponevano che la natura fosse stata sociale fin dalle origini, e che tutte le qualità che costituiscono la sfera pubblica dell’umanità fossero presenti, sia pure in nuce, fin dalle primordiali forme di aggregazione sociale (le famiglie e le famiglie allargate, comprendenti anche dipendenti e servi a vario titolo). La teoria dello Stato insomma non presupponeva una soluzione di continuità nel passaggio dalla condizione naturale o prepolitica a quella civile e politica. L’uomo era lo stesso prima e dopo la fondazione dello Stato.

Il Settecento invece attribuisce all’organizzazione politica della società la capacità di modificare essenzialmente la vita umana, di trasformare l’uomo. Lo Stato, nella nuova filosofia, crea le condizioni affinchè possa esprimersi la natura razionale dell’uomo, cosa che nello stato di natura è impossibile. Esso ha insomma una funzione di promozione etica; si tratta di una funzione peraltro solo strumentale: lo Stato è cioè una necessità di ordine pratico, che rende possibile il dispiegarsi delle potenzialità morali, intellettuali e razionali.

Lo Stato è uno strumento al servizio della ragione. In Hobbes, esso garantisce la sicurezza, che è la condizione base per qualsiasi vita morale; in Locke garantisce il corretto funzionamento del ”gioco” tra gli individui, il rispetto delle “regole” di questo gioco, che peraltro sono le regole dell’economia capitalista, fondate sul diritto di property, e in quanto tali sono preesistenti, teoricamente, alla fondazione dello Stato. Dice Bobbio:

La dottrina giusnaturalista dello Stato non è soltanto una teoria razionale dello Stato ma anche una teoria dello Stato razionale. Ciò vuol dire che essa sfocia in una teoria della razionalità dello Stato, in quanto costruisce lo Stato come ente di ragione per eccellenza, nel quale soltanto pienamente l’uomo realizza la sua natura di essere razionale. Se è vero che per l’uomo in quanto creatura divina “extra ecclesiam nulla salus”, è altrettanto vero che per l’uomo inquanto essere naturale e razionale, non vi è salvezza “extra rempublicam”128.

In Godwin la giustizia politica ha la stessa funzione. E’ la sola condizione che rende possibile la vita razionale dell’uomo e quindi l’umanità autenticamente realizzata. Senza di essa, l’umanità è soggetta a forze contrarie alla “reason”, e per Godwin l’uomo senza la “reason” è un essere abortivo, in un certo senso estraneo alla stessa specie umana.

Per Godwin, tuttavia, la funzione di “strumento della ragione” non risiede nello Stato ma in una condizione post-statuale, che noi chiamiamo anarchia (mentre lui attribuiva a questo termine il suo tradizionale significato negativo di caos, di “repubblica

128

fallita”). La giustizia non si incarna in una costruzione politica , bensì in un atteggiamento degli individui: essa si realizza quando gli individui sono capaci di liberarsi dell’influenza negativa del potere e del pregiudizio .

La necessità dello Stato era però, per Hobbes e Locke, di ordine esclusivamente pratico, mentre l’autore della Political Justice assegna alla sua “repubblica giusta” una funzione più profonda e pregnante.

La giustizia politica infatti non si limita a fornire le condizioni materiali all’esercitarsi della ragione: essa è la ragione. Essa consiste nel continuo esercitarsi delle facoltà umane più elevate, nella loro continua lotta contro la forza sempre operante del potere e del pregiudizio; essa contiene in sé una componente di slancio morale, che ne fa quindi un ente morale a sé stante. La ragione in Godwin i qualche modo continua insomma ad essere preghiera, come nel sandemanismo.

Il parallelo tra la giustizia politica (senza Stato) di Godwin e lo Stato razionale del giusnaturalismo ha anche altri aspetti relativi al rapporto tra potere e ragione.

Lo Stato razionale ha alcune caratteristiche costanti. Vediamole:

a) è caratterizzato dal primato della legge, espressione astratta e virtualmente immutabile della ragione, sulle consuetudini;

b) è caratterizzato dalla spersonalizzazione delle relazioni di potere; i suoi cittadini sono entità neutrali e intercambiabili; lo Stato non li conosce per nome e non puo’ tener conto di nessuna delle loro connotazioni storiche, a cominciare dall’appartenenza religiosa, nel relazionarsi a loro;

c) non è paternalistico, ossia non si assume come obiettivo il perseguimento della “felicità” degli individui singolarmente presi, né di portare a compimento le loro concezioni del “bene”, limitandosi a fornire loro certe condizioni per mezzo delle quali essi possono perseguirlo; queste condizioni sono i diritti, da quello alla vita (in Hobbes) a quello di proprietà (in Locke). Si tratta della stessa concezione con cui Kant afferma che lo Stato deve rendere gli uomini non felici ma liberi.

La giustizia politica di Godwin condivide con lo Stato dei giusnaturalisti il punto a, con la differenza che, laddove il giusnaturalismo dice “legge”, Godwin dice soltanto “ragione”; la legge è per Godwin espressione del potere, la ragione si concretizza solo negli individui.

Quanto al punto b, il principio dell’impersonalità dei rapporti di potere è sostituito in Godwin, data la sua radicale negazione del potere come soggetto legittimo della giustizia politica, con il principio morale dell’imparzialità.

L’impersonalità dei giusnaturalisti è la prefigurazione dello Stato moderno fondato sulla burocrazia e sugli apparati; un’idea che l’autore della Political Justice rifiuta in quanto egli non trova concepibile che il cittadino della repubblica giusta possa trasformarsi in un uomo-massa. L’imparzialità, per Godwin, qualora diventasse una caratteristica dello Stato, contribuirebbe alla sua legittimazione. Egli ritiene che a possedere questa virtù debbano essere gli individui; solo a loro spetta il compito di applicare i dettami della ragione a ciascuna singola situazione, compito che nella teoria politica settecentesca (ma anche in Hegel) spetta al funzionario.

Godwin si allontana dal giusnaturalismo per quanto riguarda il punto c. Egli condivide con Bentham e con l’utilitarismo l’idea che la giustizia non consista soltanto in una serie di regole formali, ma sia inscindibile dalla felicità, nonché (come si è visto nel capitolo precedente) dal perseguimento del bene.

Ciò non significa ovviamente che egli accetti la possibilità di uno Stato-padre, che provvede alla felicità dei suoi cittadini. Piuttosto si puo’ dire che il bene, sul quale si fonda la “giustizia politica” , coincida non solo con la felicità ma anche con la ragione. Il bene di Godwin, come quello utilitarista, è un bene concreto e applicato ai casi particolari, un bene che puo’ essere riconosciuto solo volta per volta e su ciascuna situazione. Ma, così come la giustizia dei giusnaturalisti, il bene di Godwin coincide con l’adeguamento dei comportamenti umani ai dettami della ragione, che sono formali, matematizzabili e calcolabili, e una volta riconosciuti, non ammettono eccezioni né conflitti.

Insomma la”giustizia politica” di Godwin, come lo Stato borghese di Locke, è espressione di una concezione del potere a sua volta tipicamente borghese, quella che Weber definisce potere legale-razionale. Il potere legittimo nasce dalla ragione astratta, non dalle condizioni storiche e reali della società, dalle quali, anzi, bisogna prescindere.

Godwin porta alle estreme conseguenze lo scollamento del potere dalle gerarchie sociali e la sua subordinazione alla ragione. Qualsiasi istituzione che pretendesse di essere depositaria della ragione, finirebbe inevitabilmente per ricadere nelle logiche feudali del potere patrimoniale. Anche se nato dal consenso, il potere tende spontaneamente a comportarsi come dispotismo; il cittadino diventa suddito, il suddito schiavo. Il conflitto potere-ragione non puo’ così trovare soluzione nella formalizzazione del potere, bensì nella sua totale scomparsa, alla quale si perviene attraverso una continua lotta condotta da ciascuna mente individuale e in ciascuna situazione concreta.

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