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GARANTIRE L’ EDUCAZIONE ELEMENTARE ED AMPLIARE QUELLA POST PRIMARIA E DI GRADO

PIU’ ELEVATO

Da Cotonou in poi, invece, si parla esplicitamente di “istruzione” e questo indica una diversa impostazione poiché si è compreso che l’istruzione debba coinvolgere l’intera popolazione in età scolare e quella adulta senza distinzione di genere.

Nel 2000 le parti contraenti dell’Accordo si impegnavano a garantire che entro il 2015 ogni bambino, maschio o femmina avrebbe portato a termine un ciclo scolastico primario e che una percentuale di questi studenti avrebbe completato anche il ciclo scolastico successivo e non solo,

19Risoluzione 1999/ 2705/ACP-UE dell’Assemblea paritetica della Convenzione fra

gli Stati dell’Africa,dei Caraibi e del Pacifico e la Comunità europea (ACP-UE) del 10.4.1999 sulla situazione dei bambini nei Paesi ACP.

poiché si prevedeva che un numero significativo si sarebbe iscritto ai gradi superiori di istruzione.

L’Accordo accoglieva i principi generali sanciti in molti documenti che si sono susseguiti negli anni: il punto 7 della Dichiarazione dei diritti del fanciullo stabilisce che “l’istruzione è un diritto fondamentale, inalienabile e che non ammette forme di discriminazione in ragione di genere, disabilità, origine etnica, religione e cultura”.

In quest’ottica l’istruzione è elevata a diritto fondamentale dell’individuo, deve essere obbligatoria e gratuita, i costi dell’istruzione di base devono essere sostenuti dallo Stato ma molti Paesi ACP non sono in grado di inserire nei propri bilanci le spese riferite a questo settore o spesso non lo considerano rilevante come altri perché non produce un guadagno immediato.

Cotonou considera l’istruzione una priorità e gli conferisce una posizione preminente nel sistema di cooperazione allo sviluppo e, a riprova di questo, nei primi anni di validità dell’intesa gli stanziamenti della Commissione in questo settore ammontavano al 30% dei fondi.

E’ necessario comprendere che l’istruzione in questo contesto non ha la valenza che ha nella società europea, non costituisce il fine ma è un mezzo nel sistema degli aiuti internazionali: in questi paesi segnati da guerre, esodi, siccità e carestie la scuola rappresenta un ambiente accogliente, sicuro e salubre nel quale spesso sono fornite anche cure sanitarie di base e si possono trovare servizi igenico-sanitari non disponibili altrove.

Un ambiente dove non ci sono aggressioni, molestie e discriminazioni costituisce un’esperienza positiva sia per i bambini che per le loro famiglie.

C’è da rilevare che nell’ambiente scolastico non viene offerta solo l’educazione ma anche una protezione fisica ed assistenza psicologica.

Sono state avviate delle iniziative volte ad agevolare programmi di istruzione per tutti (Fast Track Iniziative) incentrati in modo particolare sull’educazione alle bambine, che costituisce la strategia di sviluppo più efficace perché le donne scolarizzate hanno una presa di coscienza più elevata e quindi sono più consapevoli nel gestire il proprio corpo, il controllo delle nascite, la gestione delle loro famiglie.

In tutte queste iniziative viene sottolineata l’importanza di educare le bambine e le donne a pratiche di igiene e di profilassi dalle malattie sessualmente trasmissibili che sono una piaga dilagante in molte zone del continente africano. Queste semplici azioni di prevenzione costituiscono la migliore risposta alle malattie trasmissibili come HIV oltre che alle patologie legate allo scarso rispetto delle più elementari norme igieniche.

Queste condizioni non sono il frutto di una arretratezza congenita di queste popolazioni ma il risultato di solitudine e soprattutto ignoranza ovvero non sono mai state istruite e sensibilizzate su questi temi fin dalla giovanissima età. Nell’Accordo si esortano gli Stati ACP a divulgare campagne di sensibilizzazione che consentano ai genitori ed alla società in generale di capire l’importanza dell’istruzione

ed, in modo particolare, dell’istruzione delle bambine che quando si tratta di frequentare e terminare il ciclo scolastico incontrano ostacoli e barriere maggiori rispetto ai loro compagni maschi.

Ci sono inoltre i fattori come i matrimoni precoci o le tradizioni culturali profondamente patriarcali che collocano la donna in un ruolo subordinato.

E’importante quindi che i Paesi ACP includano nelle loro strategie, volte ad un’istruzione sempre più estesa, un reclutamento sempre maggiore di personale docente con un occhio particolare verso il personale femminile per ovviare, il più possibile, alla presente situazione di insicurezza che si crea nella bambine.

A tutto questo può provvedere un sistema scolastico efficiente e ben gestito: questa è la rivoluzione inserita nell’Accordo di Cotonou.

Prima l’istruzione era considerata solo marginalmente, non era inserita in maniera organica nei programmi di aiuti ed era relegata al “buon cuore” delle associazioni di volontariato che operavano in queste parti del mondo.

Gli Stati che compongono i Paesi ACP hanno complessivamente 121 milioni di bambini di cui 65 milioni di sesso femminile che non hanno mai frequentato l’ambiente scolastico, c’è poi da considerare un tasso elevatissimo di abbandono degli studi.

I risultati dell’istruzione hanno ricadute in molti settori: una delle cause principali che induce le famiglie a non far frequentare le scuole ai propri figli è il lavoro minorile. E’

per questo che, seguendo i parametri indicati dall’ ILO (International Labour Organization) l’intesa di Cotonou ha previsto che l’età minima richiesta per accedere al mondo del lavoro non deve mai essere inferiore ai quindici anni, anche in presenza di gravi situazioni familiari o di estrema indigenza.

A seguito dei risultati soddisfacenti ottenuti dai Paesi ACP nella lotta al lavoro minorile e nell’incentivare i programmi in favore dell’istruzione, l’Assemblea Parlamentare Paritetica ha chiesto di rivalutare le politiche di liberalizzazione “sregolata” prodotte dagli EPA, poiché hanno avuto ripercussioni molto negative sull’aumento della povertà e sull’abbandono scolastico.

Il contesto mondiale è profondamente cambiato da quando l’Accordo di Cotonou è entrato in vigore nel 2000.

In questo lasso di tempo ci sono stati sconvolgimenti geopolitici ed economici senza precedenti; l’intesa è stata firmata prima dell’undici settembre, non c’erano state quindi nemmeno guerre e conflitti che ne sono stati la diretta conseguenza e paesi da sempre considerati amici sono diventati ostili o viceversa.

Tutto ciò ha provocato una recrudescenza di terrorismo e fondamentalismo per cui possiamo dire che il mondo dell’Accordo di Cotonou e quello attuale non siano lo stesso. L’Unione Europea in questo frangente ha ampliato molto i propri confini, il numero degli Stati membri è cresciuto in

seguito all’ammissione di molte nazioni dell’est-europa, dell’area balcanica, dei paesi baltici e di Cipro.

Molte di questi presentano situazioni economiche e politiche simili a quelle dei Paesi ACP, in alcuni casi peggiori se consideriamo le economie emergenti presenti in Africa come il Niger, la Nigeria ed il Gana.

E’ comprensibile quindi che in questo contesto mutato, anche la politica di cooperazione dell’Unione si sia ridimensionata, tenendo conto anche delle posizioni di quegli Stati di recente annessione che non avevano un passato coloniale né delle relazioni storiche con i Paesi ACP che costituiscono le basi su cui poggiano i vari accordi dalla loro nascita fino ad oggi.

Il rapporto di lunga durata che lega i Paesi ACP all’Unione Europea costituisce un valido punto di partenza per costruire un partenariato rinnovato che sappia trarre insegnamento dalle precedenti esperienze e che allo stesso tempo tenga conto delle priorità scaturite dal contesto cambiato.

L’Accordo di Cotonou coinvolge 100 paesi ed i suoi effetti toccano circa un miliardo e mezzo di persone in quattro continenti: secondo l’art.95 comma 4 “diciotto mesi prima della scadenza le parti devono istaurare dei negoziati al fine di disciplinare le relazioni successive”.

Le Istituzioni comunitarie giungono alla conclusione che prorogare l’Accordo come era stato fatto molte volte in passato con le precedenti Convenzioni, non avrebbe permesso di mantenere i risultati raggiunti né di realizzare nuovi obbiettivi.

Le future relazioni dovranno coinvolgere anche le regioni limitrofe che, anche se non incluse nei Paesi ACP, svolgono un ruolo di unione fra UE e gli altri partners.

Nell’Accordo del 2000 si riscontravano molti richiami espliciti o meno agli obbiettivi del millennio proposti dalle Nazioni Unite sia in ambito di tutela ambientale che di diritti civili e politici, tutti da attuare entro e non oltre il 2015, che veniva percepito come un temine sufficientemente distante per poter valutare sistematicamente l’azione svolta ed i risultati perseguiti.

In molti casi purtroppo gli obbiettivi non sono stati raggiunti e vengono riproposti con una sigla diversa, stavolta vengono indicati come SDG (obbiettivi di sviluppo sostenibile) ed hanno scadenza 2030.

La cooperazione internazionale si inserisce nell’azione esterna e seguendo l’indicazione suggerita dall’art.21 del Trattato sull’Unione ne “potenzia il ruolo incisivo a livello mondiale”.

A tal proposito non si creano nuove strutture né si impongono oneri supplementari bensì si implementano le istituzioni già presenti, si razionalizzano le procedure e si facilita l’interazione fra i vari livelli di amministrazione. Questo diverso modo di impostare la cooperazione si riscontra anche nella stesura stessa dei trattati e nelle espressioni usate nei testi dei documenti.

Nel Trattato di Lisbona, ad esempio, non si fa riferimento alle relazioni con i Paesi ACP nel loro insieme, al contrario si dà maggior peso all’aspetto della regionalizzazione degli

interventi anche perché, molti obbiettivi a cui sono destinati gli aiuti, si diversificano da zona a zona.

Il futuro accordo fra UE/ACP inoltre si andrebbe a sovrapporre con una serie di altre intese regionali firmate nel corso del tempo: la Strategia comune Africa –UE firmata nel 2007, la Strategia Comune UE-Caraibi firmata nel 2012 e quella conclusa con il forum delle Isole del Pacifico del 2006.

Nell’ottobre del 2015 la Commissione Europea ed il Servizio per l’azione esterna SEAE hanno lanciato una consultazione pubblica per raccogliere suggerimenti e formulare ipotesi su quei temi che certamente dovrebbero essere trattati nel documento che sostituirà l’Accordo di Cotonou.

Ad un anno di distanza, nel novembre del 2016, viene pubblicata una dichiarazione congiunta che contiene le conclusioni ed i propositi della Commissione e dell’Alto Rappresentante ed è uno schema indicativo di come dovrebbe essere strutturato e di cosa dovrebbe contenere il nuovo trattato.

La proposta prevede l’adozione di un unico accordo suddiviso in due parti.

La prima, di carattere generale, comprende le disposizioni introduttive, le priorità individuate di comune accordo dagli Stati ACP e dalla UE, la regolamentazione pratica per gestire gli aiuti e le disposizioni finali.

La seconda parte contiene invece tre protocolli regionali, uno per ogni area geografica (Africa, Carabi, Pacifico) che

andranno a sostituire il sistema degli aiuti esistenti attualmente.

Di grande interesse è la parte riguardante le priorità dove vengono specificati sei ambiti di applicazione.

Il titolo primo riguarda i diritti umani, le libertà fondamentali, la democrazia, lo Stato di diritto e la buona governance; il secondo lo sviluppo economico che deve essere inclusivo e sostenibile; il terzo l’ambiente ed i cambiamenti climatici; il quarto la pace, la sicurezza e la giustizia; nel quinto si affrontano immigrazione e mobilità ed infine il titolo sesto concerne sviluppo umano e dignità. I protocolli regionali diventano centrali, ognuno presenta determinate peculiarità e mette in rilievo tematiche proprie. Nel caso dell’intesa UE-Africa fondamentale è il titolo quinto riguardante l’ immigrazione, che invece è del tutto secondario nelle relazioni con i Carabi o con il Pacifico. Anche da un punto di vista della struttura del documento questo tema occupa uno spazio importante proprio perché, con fattispecie e casistiche minuziosamente descritte, si cerca di coprire un ventaglio molto ampio di situazioni, del tutto sconosciute o solo marginalmente previste dall’Accordo di Cotonou.

Vengono sottolineati gli effetti positivi che la mobilità legale e regolata può avere per i paesi di origine e di accoglienza ed inoltre sono specificati i meccanismi che in maniera rigorosa devono far sì che le nazioni di provenienza rispondano più tempestivamente alle richieste di riammissione dei propri cittadini entrati clandestinamente sul territorio comunitario.

Questi dispositivi erano già presenti in Cotonou ma nella realtà non venivano applicati se non in casi sporadici.

Nel patto fra UE-Pacifico si dà grande rilievo ai cambiamenti climatici, alla governance degli oceani ed alla gestione del rischio di catastrofi.

Sono tutti temi da cui dipende l’esistenza stessa di molti stati insulari e che quindi vengono tenuti in grande considerazione dalle classi dirigenti di queste nazioni che si sono fatte portavoce di queste istanze all’interno delle istituzioni Comunitarie.

L’accordo UE-Caraibi mette in risalto un aspetto importante: in questa area si trovano diverse nazioni che hanno dei legami particolari con alcuni Stati membri.

Il Suriname e la Guyana fanno parte a pieno titolo del territorio rispettivamente dell’Olanda e della Francia come fossero delle estreme periferie europee.

Queste relazioni che uniscono i Carabi alle regioni “ultraperiferiche” dell’Unione vengono riconosciute e potenziate nella sezione basi della cooperazione dove, per esempio, fra i vari argomenti trattati al titolo quattro, si dà ampio spazio alla specifica situazione di Haiti in quanto unico paese meno sviluppato di questa zona.

Secondo lo schema proposto nella dichiarazione congiunta dovrebbero chiudere l’Accordo le parti riguardanti il quadro istituzionale e la cooperazione diversificata dove l’Unione Europea conferma i propri impegni anche sotto l’aspetto economico specificando le percentuali che intende stanziare e le relative modalità.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Nello svolgersi di questo lavoro sono stati toccati numerosi ambiti necessari a comprendere il contesto storico e politico in cui sono state firmate le varie Convenzioni; questi aspetti non possono essere tralasciati perché costituiscono i presupposti per cui nascono e poi operano gli accordi.

Analizzando i testi di ogni Convenzione si nota un cambio frequente della denominazione con cui vengono indicati i Paesi Associati; questo è il frutto dei mutamenti sociali che si svolgevano nello stesso tempo in cui si firmavano gli Accordi e che venivano così recepiti nei testi.

E’ possibile tracciare un legame fra gli avvenimenti storici della seconda metà del ‘900 ed il nome con cui ci riferiamo ai Paesi Associati nelle varie Convenzioni.

A conferma di questo è possibile notare che, nel Trattato di Roma, si menzionano i PTOM ovvero possedimenti e territori d’oltremare; nelle Convenzioni di Yaoundè del 1963 e del 1969 ci si riferisce agli Stati africani e malgascio con il termine Stati Associati e, dopo l’ entrata del Regno Unito nella Comunità Europea ed il conseguente inglobamento dei Paesi del Commonwealth, si inizia a riconoscerli con la sigla Paesi ACP.

Negli anni ’90 viene fatta poi un’ulteriore distinzione all’interno dei Paesi ACP fra paesi in via di sviluppo (PVS) e paesi meno sviluppati (PMS).

Questo è significativo per comprendere il quadro estremamente complesso in cui si inserisce la cooperazione allo sviluppo ed in cui gli aiuti vanno ad operare.

Questo lavoro si pone lo scopo di ripercorre i passaggi principali che hanno contraddistinto la cooperazione allo sviluppo dell’Unione Europea nei Paesi ACP (Africa,Carabi,Pacifico).

La cooperazione allo sviluppo è stata parte fondamentale del processo di integrazione svoltosi in Europa fin dall’inizio della sua storia.

Il Trattato di Roma nel 1957 aveva sancito la creazione del Fondo Europeo di Sviluppo, destinato a fornire assistenza alle colonie ed ai territori d’oltremare; si è assistito in seguito ad un’evoluzione dello schema originario, in quanto agli inizi degli anni sessanta molti Stati associati hanno raggiunto l’indipendenza.20

Gli Stati membri perciò hanno compreso l’importanza di adattare l’associazione al mutamento sociale e politico in corso ed hanno accettato di condividere i costi per far passare questi paesi da ex- colonie a Stati pienamente indipendenti.

L’originalità del pensiero che sta alla base del programma di cooperazione internazionale, risiede nello stretto legame che, secondo l’opinione delle Istituzioni europee, lega la sicurezza economica con la pace.

20Comunità Economica Europea,I criteri di valutazione dei progetti presentati al

Questa convinzione è stata la pietra miliare del sistema nella sua prima fase, contrassegnata dalle Convenzioni di Yaoundè.

Paesi non ricchi ma comunque economicamente stabili non avrebbero rappresentato fonti di tensione dovute alla decolonizzazione in corso.

La via delle pace segue la via del benessere e la fonte di benessere che offriva maggiori certezze di riuscita era costituita dal sistema industriale e commerciale.

Si decise quindi di dotare queste economie dei mezzi necessari per poter operare sul mercato europeo.

Via via che si susseguono le varie Convenzioni, da principio con cadenza quinquennale, si perfezionano gli strumenti utili per proteggere queste economie non ancora tanto robuste da per poter competere alla pari con quelle dei paesi industrializzati.

Si abrogano le tasse doganali, si concedono i permessi speciali validi solo per gli Stati Associati, ai quali vengono riconosciute concessioni ad hoc, vengono lasciati ampi margini di discrezionalità nel regolare il settore dell’esportazione, componente fondamentale per queste economie.

C’è poi un particolare da considerare: queste agevolazioni erano applicate solo ai Paesi Associati ed erano valide esclusivamente per il mercato comune europeo.

Per questo motivo furono sollevate molte critiche dagli altri Stati, non membri della Comunità, che si vedevano discriminati nelle loro condizioni commerciali perché gli era

precluso o reso non vantaggioso il commercio con gli Stati Associati.

L’Associazione nel corso degli anni è stata criticata sotto vari aspetti: è stata tacciata di neocolonialismo sia dai paesi in via di sviluppo che dalla nazioni industrializzate, soprattutto in relazione a quei paesi che possiedono una grande disponibilità di materie prime.

Il vantare rapporti preferenziali con questi stati procurava dei vantaggi a quelle stesse nazioni europee che fino a pochi decenni prima le avevano sottomesse.

L’accusa era che, anche se con modalità diverse, la situazione di dipendenza non era mutata.21

Gli Accordi di Associazione hanno resistito a queste critiche superando le avversità: ci sono stati tempi in cui venivano esaltati come esempi da seguire per le altre istituzioni che si muovevano in ambito internazionale, alternati a periodi in cui venivano “vituperati” come la peggior espressione di una politica assistenzialista che non ambiva a migliorare le condizioni esistenti ma inseguiva semplicemente un interesse economico.

C’è poi un altro un aspetto tutt’altro che secondario, il significato geopolitico delle scelte portate avanti dalla Comunità Europea in materia di aiuti allo sviluppo agli Stati africani.

Va considerato che quando il programma di cooperazione venne istituito, vale a dire nei primi anni ’60, eravamo in piena “guerra fredda” e la contrapposizione fra Stati Uniti e

URSS si rifletteva in ogni ambito ed in tutte le questione di carattere nazionale e oltre.

Anche l’apparato della cooperazione internazionale ne risentiva: l’Unione Sovietica investiva nello sviluppo dei paesi di recente indipendenza per affermare il modello socialista mentre gli Stati Uniti agivano principalmente nel tentativo di arginare la sfera di influenza sovietica.

In questo quadro, sei nazioni europee, piccole se paragonate alle due superpotenze e in maniera svincolata dai due blocchi, cominciarono a tessere le proprie relazioni non più basate su vincoli coloniali ma su rapporti di parità, volti ad affermare l’autodeterminazione degli Stati Associati.

Gli Stati Membri si impegnarono costantemente per attuare una cooperazione allo sviluppo il più possibile neutrale. Alla base delle Convenzioni c’era la volontà di rimuovere la dipendenza dei Paesi Associati dalle ex potenze coloniali; a distanza di oltre cinquanta anni si nota che alcune di queste connessioni hanno lasciato un’ impronta nei paesi a cui erano destinati gli aiuti.

Un lascito tangibile con edifici, dighe, linee ferroviarie ma anche politico e sociale alterando i rapporti esistenti.

I progetti di sviluppo comportano interventi sulle strutture sociali e non sempre toccano tutti i gruppi nella stessa misura producendo effetti inattesi e molte volte causa di conflitto.

Questo si è verificato con la divisione in gruppi etnici, lasciata in eredità dal Belgio al momento della decolonizzazione del Ruanda e che a distanza di trenta anni

ha dato origine agli scontri sociali, sfociati nella pulizia etnica di un gruppo da parte di un altro.

Avendo ben presenti questi fatti e conoscendone le cause le Istituzioni Comunitarie a partire dagli anni ’80 hanno dato

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