• Non ci sono risultati.

La revisione dei rapporti genealogici intercorrenti tra i sei testimoni conservati del Florilegium

Thuaneum, restituisce un’immagine sufficientemente chiara della tradizione manoscritta. Una

ricognizione dei problemi relativi alla recensio si rendeva assolutamente necessaria, dal momento che la ricostruzione di un solido quadro stemmatico costituisce l’indispensabile premessa di ogni ragionamento inerente alla genesi e alle prime fasi della storia dell’antologia.

In questa seconda parte della nostra indagine ci accosteremo ai problemi della compilazione e della destinazione della silloge, concentrandoci in particolare sui processi di aggregazione dei testi che sottostanno alla sua formazione, e sull’evoluzione storica a cui essa fu soggetta. Il fermo obiettivo della ricerca sarà l’individuazione del nucleo più antico del florilegio, ed il riconoscimento di eventuali aggiunte successive rispetto al corpo originario. Il riconoscimento del contenuto originario dell’antologia e la definizione del contesto in cui operò il florilegista permetteranno anche una migliore collocazione cronologica della stessa, gettando luce sulla storia dei singoli testi e, più in generale, sui meccanismi di ricezione e di circolazione della cultura classica nel medioevo.

3. Il nucleo originario di FT: ricostruire A nella sua fisionomia originaria

L’assoluta priorità del codice viennese in questa fase della ricerca è motivata dal fatto che esso è, come si è detto, il codice più antico a conservarci parti dell’antologia in esame, ed allo stesso tempo il testimone stemmaticamente più importante (in quanto ne costituisce, praticamente, l’archetipo conservato). Il primo passo verso la ricostruzione della silloge nella sua forma originale consisterà pertanto nel recuperare (per quanto possibile) il materiale testuale andato perduto in A, riportando idealmente il manoscritto alla sua fisionomia originaria. Come si vedrà subito, i dati codicologici e storico-testuali in nostro possesso permettono di ricostruire con relativa sicurezza il contenuto dei fascicoli perduti all’inizio di A. Più problematico sarà invece chiarire cosa si sia perso alla fine del codice.

Posta l’indiscutibile premessa della stretta parentela tra A e B (a prescindere anche da che tipo di parentela sia), è legittimo immaginare (pur solo in via ipotetica, per ora) che essi trasmettessero gli stessi testi ed esattamente nello stesso ordine. Il che ci permette già di riportare idealmente Marziale al suo posto in A, e di affermare che i ff. 71-73, oggi sfascicolati, appartenevano in origine ad uno dei 16 fascicoli iniziali del codice attualmente perduti. Chiarito ciò, possiamo spingerci ancora oltre, e stabilire che gli attuali ff. 71-73 appartenevano con ogni verosimiglianza al primo fascicolo di A, che doveva aprirsi appunto con gli excerpta Martialis. A tale conclusione giunse già Schenkl, che fu tra i primi ad interessarsi alla ricostruzione della parte perduta del codice; e la sua idea fu poi accettata da tutti gli studiosi che si occuparono della questione203. Essa si fonda su un ragionamento di natura

eminentemente codicologica. Consideriamo le proporzioni di A. La parte conservata, come si è detto, è costituita da due quaternioni numerati XVII e XVIII. Ma si è anche visto che l’attuale numerazione dei fascicoli è frutto di un intervento correttivo, e che i due quaternioni erano in realtà il decimo e

46

l’undicesimo del codice originale (con X trasformato in XVII, e XI trasformato in XVIII)204; il che ci restituisce l’immagine di un codice composito, interessato da un’aggiunta iniziale di 7 fascicoli. L’operazione di rinumerazione dei fascicoli è da considerare in rapporto alla disomogeneità osservata tra i ff. 55-70 e i ff. 71-73, per quanto concerne la pergamena, la mano scrivente e la mise en page del testo (20 righi a pagina nei ff- 71-73; 22 righi a pagina nei ff. 55-70). Avremmo dunque una prima parte del codice (fascicoli I-VII) con una mise en page di 20 righi per pagina (= 40 righi a foglio), e una seconda parte (fascicoli VIII-XVI) con una mise en page di 22 righi per pagina (= 44 righi a foglio). Ora, ammettendo per A una fascicolazione regolare, in quaternioni (quali sono appunto i fascicoli XVII e XVIII), si arriverebbe ad un totale di 5408 righi perduti ([40 × 8 × 7] + [44 × 8 × 9])205. Se tali erano le dimensioni del codice prima della caduta dei 16 fascicoli iniziai, se ne intuirà

facilmente che esso non poteva trasmettere per intero il corpus di testi conservato da B. Partendo in B da AL 390, v.21 (che è il punto in cui comincia lo spezzone superstite di A) e risalendo all’indietro di 5408 righi, si arriverebbe ad includere in A l’intera sezione dedicata a Marziale, e avanzerebbero ancora circa 330 vv. (più o meno un fascicolo di A). La differenza potrebbe essere colmata tenendo conto del fatto che A doveva trasmettere di Marziale più epigrammi di quanti ne trasmette B206; e in

conclusione si potrà tranquillamente accettare l’idea di Schenkl, che A si aprisse proprio con gli estratti da Marziale, e proseguisse poi con gli stessi testi di B e nel medesimo ordine.

Una conferma indiretta di tale ipotesi ci viene dalla storia posteriore di A, ed in particolare dalla già citata prefazione del Summonte all’edizione napoletana dei dialoghi di Pontano207. Nell’annunciare

al pubblico le sensazionali scoperte codicologiche del Sannazaro, Summonte insiste molto sul ritrovamento di testi classici fino ad allora inediti, come l’Halieuticon di Ovidio e i Cynegetica di Grattio e Nemesiano. Ma parla anche (ed è questa la cosa che più c’interessa ora) di altri codici:

Martialis, Ausonii et Solini codices; l’espressione allude quasi sicuramente a tre libri diversi:

l’Ausonio ed il Solino sono oggi perduti, ma pare di capire che né l’uno né l’altro contenesse Marziale208; è dunque assai probabile che il primo membro della serie (Martialis) alluda ad un libro autonomo, che doveva recare il nome del poeta spagnolo nell’intestazione. Ora, l’unico manoscritto marzialiano che sia mai passato tra le mani di Sannazaro è, a quanto mi risulta, il nostro A209. Ed è probabile, a mio avviso, che il Summonte si riferisca qui proprio ad A, portato in Italia nel 1505 e della cui esistenza egli era senz’altro a conoscenza, se ne trascrisse in D il nucleo cinegetico. Se così fosse, se cioè fosse proprio A il codex Martialis a cui allude il Summonte nella sua epistola, le sue parole ci fornirebbero un’indiretta conferma del fatto che A (come si era ipotizzato per ragioni di dimensioni) cominciava proprio con una selezione di epigrammi marzialiani, forse addirittura con la stessa intestazione di B (Ex libris M. Valeri Marcialis Epigrammaton breviatum, f. 24ra). Ed in effetti

204 Cfr. VECCE 1988, p.96 e quanto si è detto nel § 2.2 Collocazione di B: un discendente indiretto di A.

205 SCHENKL 1898, pp. 399-340, non essendosi accorto della rinumerazione dei fascicoli, e non sapendo a che punto del

manoscritto avvenisse il cambio nella mise en page, si era accontentato di un calcolo approssimativo, stimando che i righi perduti in A dovessero essere tra i 5632 e i 5120.

206 Cfr. su questo punto il § 6. Marziale.

207 Cfr. SCHENKL 1898, p.406; VECCE 1988, pp. 57-58; l’estratto relativo alle scoperte dei codici è riportato anche qui

nel § 2.1 Collocazione di D, E ed F: codices descripti di A.

208 Il libro di Solino doveva essere un codice completo dell’opera, probabilmente afferente alla famiglia II (cfr. VECCE

1988, p.90); in nessun caso comunque il testo di Solino è trasmesso unitamente (o anche solo rilegato insieme) a Marziale. L’Ausonio scoperto a Île-Barbe, anch’esso perduto, è stato abilmente ricostruito da TURCAN-VERKERK 2002, grazie all’apografo che Sannazaro ne trasse (Wien, ÖNB, 3261, ff. 3-27); e a quanto pare, anche questo codice non conteneva nulla di Marziale.

209 A meno che non si accolga la teoria di C. Vecce, secondo cui Sannazaro avrebbe scoperto ben due esemplari di FT. Ed

al secondo di questi (diverso da A) alluderebbero le parole di Summonte (cfr. VECCE 1988, p.137). Ma si è già vista (§ 2.3 Collocazione di C e supposta contaminazione in D ed E) l’inconsistenza di questa idea, contro la quale ha giustamente argomentato REEVE 2016.

47

l’idea che A integro trasmettesse esattamente gli stessi testi di B a partire da Marziale (e non invece tutto ciò che in B precede Marziale) parrebbe confermata anche da altri indizi. Come vedremo subito, infatti, i testi contenuti nella seconda parte di B trovano (quasi) tutti puntuale ed immediato riscontro negli apografi sannazariani o nel lavoro di altri umanisti a lui vicini; ed è certamente A la fonte a cui essi li attinsero. Al contrario, né Sannazaro né i suoi colleghi mostrano familiarità con i testi della prima parte di B210.

Gli apografi sannazariani, unitamente alla lettera di Summonte, ci permettono di ricostruire in parte il contenuto della prima porzione A, che presentava, nei fascicoli perduti, Marziale (probabilmente in apertura, come traspare dall’epistola del Summonte), Anthologia Latina ed Ennodio (trascritti da Sannazaro in F): tutto perfettamente sovrapponibile a B. Ma che ne era del carme 62 di Catullo? Data la corrispondenza finora perfetta tra A (ricostruito) e B, ci aspetteremmo che anche l’epitalamio catulliano fosse presente nei fascicoli perduti del codice viennese211. E a bene vedere, un indizio in tal senso si può ricavare dall'attività di un altro illustre umanista: Aulo Giano Parrasio. Il suo interesse per la critica catulliana è attestato già a partire dal commento al De raptu Proserpinae di Claudiano, pubblicato a Milano nel 1501. Alla sua mano, e a quella dell’amico Antonio Seripando, si devono le note manoscritte apposte a un esemplare dell’edizione di Catullo, Tibullo e Properzio stampata a Reggio Emilia nel 1481 per le cure di Prospero Odoardo ed Alberto Mazzali. L’incunabolo annotato da Seripando e Parrasio è oggi smembrato e conservato in due sedi distinte: Napoli, Biblioteca Nazionale XIII.B.12, e Aberdeen, University Library, 165212. Il carme 62 (nello spezzone oggi ad Aberdeen) è corredato da glosse esplicative e note filologiche vergate dall’inconfondibile mano del Parrasio, e datate agli anni 1501-1522; compaiono, tra queste, ottimi tentativi di sanare il testo, edito sulla base di discendenti del malandato Veronensis; e più che di sue congetture, si tratterà, almeno in alcuni casi, di emendazioni ope codicum. Ora, tutte le proposte emendatorie del Parrasio trovano perfetto e puntuale riscontro nel testo di B, molto migliore di quello del deperdito Veronensis da cui discendono tutti gli altri manoscritti catulliani conservati, e da cui parimenti dipendeva la totalità delle edizioni a stampa disponibili nei primi anni del ’500. In alcuni casi Parrasio integra lezioni buone, conservate oggi dal solo B, in quanto già corrottesi nel subarchetipo veronese213. Non è tuttavia B la

210 Non dipende da B il carme 39 di Eugenio di Toledo, trascritto da Sannazaro in un altro suo codice autografo (Wien,

ÖNB 3261, f.26r-v): cfr. FARMHOUSE-ALBERTO 2005, pp. 150-151. Certamente indipendente da B è anche la selezione di carmi di Ausonio trascritta da Sannazaro nei fogli iniziali del medesimo manoscritto: cfr. TURCAN- VERKERK 2002.

211 Questa è infatti l’opinione anche di ULLMAN 1960, pp. 1028-1029; RICHARDSON 1976, p.287; GAISSER 1992,

p.202 e n.31; THOMSON 1997, p.24.

212 Riproduzione fotografica delle pagine contenenti il carme 62 di Catullo in KISS 2015b, pp. XXIV-XXV.

213 AGNESINI 2007, pp. 139-144, ha comunque osservato, in polemica con RICHARDSON 1976, p.285, che alcune

buone lezioni note al Parrasio non sono in realtà esclusive di B, ma affiorano sporadicamente anche in codices recentiores ancora poco conosciuti. E più di recente KISS 2015b, pp. XIII-XIV, e KISS 2016, p.132, ha segnalato che alcune “T-type readings” (= lezioni B) attestate da Parrasio potrebbero in realtà derivare da delle precedenti postille di Francesco Pucci (1436 – 1512). L’originale delle note di Pucci è perduto, ma lo si ricostruisce grazie ad una ventina di discendenti realizzati da vari umanisti italiani (per una lista incompleta, cfr. GAISSER 1992, pp. 243-249; nuovi testimoni sono segnalati da GAISSER 2015, pp. 62 e 81 e n.53). Una versione “ridotta” delle note di Pucci, è stata edita da BELLIDO DIAZ 2011, sulla base di un esemplare dell’edizione aldina del 1515, annotato intorno al 1528 da Antonio Petreio: Berlino, Deutsche Staatsbibliothek. Bibl. Diez. Oct. 2474; proprio di questo esemplare si servì assai probabilmente Marc-Antoine Muret per la sua edizione di Catullo (uscita a Venezia nel 1554 presso Paolo Manuzio), nella quale confluirono non poche lezioni buone conservate da B e da Parrasio (cfr. AGNESINI 2007, pp. 142-143;BELLIDO DIAZ 2011, p.124). La dipendenza di Parrasio dalle postille di Pucci, almeno per una parte delle note, è stata dimostrata da RICHARDSON 1976, pp. 281- 285, ed è accettata da GAISSER 1992, pp. 249-250, e KISS 2015b, pp. XIII-XIV. Comunque, non tutte le emendazioni parrasiane a Catullo 62 derivano dalle note di Pucci, e molte lezioni “B-type” sono davvero esclusive di B e di Parrasio (si considerino casi quali v.17 convertite B Parr : committite V, e v.54 marita B Parr : marito V, nei quali la lezione giusta

48

fonte delle emendazioni parrasiane: sia perché in un caso egli conosce una lezione che, seppur non del tutto corretta, è comunque decisamente più vicina all’originale di quanto lo sia quella di B214; sia soprattutto perché non risulta che B sia mai stato accessibile ad alcun umanista prima del 1539215. È stata quindi avanzata la plausibile ipotesi che il codice fonte delle emendazioni parrasiane fosse non B, ma proprio A, a cui l’umanista potrebbe aver avuto accesso in diverse occasioni216. Sannazaro aveva scoperto A in Francia tra il 1501 ed il 1504, e morto ormai re Federico (a Tours, il 9 novembre del 1504), l’umanista napoletano si apprestava a far ritorno in patria portandosi dietro il venerabile cimelio. Sulla via del ritorno, passando per Milano nel 1505, vi incontrò proprio il Parrasio, che vi si era trasferito fin dal 1499 per insegnare, e che Sannazaro conosceva anche tramite il comune maestro Giovanni Pontano. Già in questa occasione Sannazaro potrebbe aver comunicato personalmente al collega i frutti delle sue ricerche codicologiche francesi. Ma ancor più verosimilmente lo scambio potrebbe essere avvenuto dopo il ritorno di Parrasio nel Sud-Italia, ossia negli anni successivi al 1506, quando la fitta corrispondenza epistolare con Sannazaro mostra un intensificarsi dei rapporti tra i due umanisti. Certo, si osserverà, a voler essere rigorosi, che accordi Parrasio-B in lezione corretta (a fronte di errore di V e discendenti) non sono determinanti al fine di dimostrare che l’umanista dipenda proprio da questo ramo di tradizione. Ben più importanti in questo senso sarebbero eventuali errori Parrasio-B a fronte di lezione corretta di V e discendenti. Io ne ho trovati almeno due: il primo è nel già citato v.63 (tertia pars patri data, pars data tertia matri), del quale B e Parrasio danno due versioni differenti (tertia patris pars est data tertia matri B : tertia pars patris est pars est data tertia matri Parr.), ma accomunate dalla corruzione del dativo patri nel genitivo patris (laddove invece tutti i discendenti di V, pur nelle varie forme in cui attestano il verso, sono comunque concordi sul dativo

patri)217; un altro caso è al v.56 (sic uirgo dum intacta manet, dum inculta senescit), in cui l’originale correlazione dum … dum, attestata da V e discendenti, è banalizzata da B e da Parrasio in dum … tum. Ora, se il valore di quest’ultimo caso è ridimensionato dalla natura potenzialmente poligenetica dell’errore (banalissima corruttela del secondo dum in tum), l’accordo Parrasio-B su patris al v.63 (vs. il corretto patri, di V e discendenti) mi pare alquanto significativo; e può ben essere considerato un indizio positivo di parentela tra la sua fonte ed il ramo di tradizione rappresentato da B (indipendente da V218). Il che avvalora (una volta che si sia esclusa la dipendenza di Parrasio da B o da un suo eventuale apografo, ed una volta constatato che Parrasio non dipende dalle note di Pucci) l’idea che proprio A sia la fonte alla quale l’erudito calabrese attinse le lezioni annotate nella sua edizione219.

non era offerta da Pucci). Il che assicura che comunque un contatto tra Parrasio ed un testimone del ramo A-B dev’esserci stato (cfr. poco sotto, nel testo).

214 Cfr. AGNESINI 2007, pp. 141-142 e 360-365. Si tratta del v.63, la cui restituzione causa da sempre problemi agli

editori. B trasmette il verso in una forma ametrica: tertia patris pars est data tertia matri; Parrasio annota: tertia pars

patris est pars est data tertia matri (lezione che sicuramente non deriva da Pucci). Quale che sia la versione originale del

verso (cosa che forse non sapremo mai; per una recente discussione cfr. DIGGLE 2006, p.94 n.3, e AGNESINI 2007, pp. 359-365), la forma data da Parrasio è indubbiamente più corretta di quella di B (cfr. REEVE 2016, pp. 196 e 202).

215 Cfr. REEVE 2016, pp. 201-202: il primo ad aver usato B (o forse un suo apografo) fu Sébastien Gryphe, per l’edizione

lionese di Marziale del 1539. Naturalmente, almeno in teoria, si potrebbe pensare che il codice usato da Parrasio fosse x, il discendente di B dal quale fu poi tratto C (e infatti questa è l’idea di KISS 2016, pp. 132-133). Ma appunto la superiorità di Parrasio su B nel v.63 porterebbe ad escludere che l’umanista usasse una derivazione di B (a meno che, ovviamete, questa derivazione non fosse stata corretta per congettura).

216 RICHARDSON 1976, pp. 285-289.

217 E del resto è sicuro che in questo caso Parrasio non dipenda dalle note di Pucci, perché queste ultime attestano il verso

in una forma ancora diversa: tertia pars matri data pars data tertia patri (con inversione dei termini matri e patri, comunque al dativo).

218 Cfr. stemma in Appendice.

219 E lascio perdere l’assurda ipotesi di VECCE 1988, p.115, poi riferita da KISS 2015a, pp. 349-350 n.25, e KISS 2016,

p.132, e giustamente contestata da REEVE 2016, p.202, che fonte delle emendazioni parrasiane possa essere non A ma un supposto gemello di A (siglato x da Vecce) scoperto anch’esso da Sannazaro in Francia, sulla cui effettiva esistenza,

49

Ricapitoliamo allora quanto accertato finora. A si apriva con Marziale, come sembrerebbero indicare le parole del Summonte e come si era già ipotizzato per motivi di dimensioni; seguiva Catullo 62, per cui probabilmente esso fu usato dal Parrasio; vi si leggeva poi il nucleo [AL + Ennodio], che Sannazaro stesso trascrisse in F assai accuratamente, seppur con qualche modifica nell’ordine dei testi. Dopo la breve sezione dagli excerpta delle tragedie di Seneca, del cui eventuale utilizzo da parte di Sannazaro non resta traccia, si arrivava finalmente alla parte conservata di A (AL 390, Halieuticon,

AL 391, Grattio), questa senz’altro usata dall’umanista per trarne i due apografi DE. In conclusione,

come si vede, l’attività filologica di Sannazaro e di altri umanisti a lui più o meno strettamente legati permette di riportare A alla sua fisionomia originaria, restituendoci un’immagine preziosa di quello che è il testimone più antico e stemmaticamente più importante della nostra antologia.

L’acquisizione è di non scarsa rilevanza, perché consente, ricostruendo A nella sua forma originale (cioè anteriore alla mutilazione), di individuare quello che era il nucleo originario del florilegio, e di riconoscere invece nella prima parte di B un’estensione successiva sicuramente estranea all’attività del florilegista. Scopriamo così che la sezione iniziale di B (contenente Giovenale, i Versus Sibyllae, Persio, Eugenio di Toledo, Ausonio ed estratti da AL) non era parte della silloge fin dal suo primo confezionamento, costituendo piuttosto un’aggregazione avvenuta in un secondo tempo e in un ambiente ben diverso da quello che produsse il florilegio originario. A confermarlo stanno i dati relativi alla storia della tradizione dei singoli testi, che mostrano una netta frattura tra la prima e la seconda parte di B (laddove per “prima parte” intendo tutto ciò che in B precede Marziale)220. È forse il caso di anticipare qui le conclusioni a cui sono arrivato al termine di questa ricerca, e che saranno riccamente argomentate nelle pagine seguenti. È mia convinzione che il nucleo originario di FT (costituito da tutti i testi di B a partire da Marziale in poi: cioè, in pratica, da tutti i testi di A prima della mutilazione) si sia formato negli anni ’80-’90 dell’VIII secolo, negli ambienti della corte carolingia, ed in particolare in quella cerchia di intellettuali che gravitò intorno alla figura di Alcuino. Rappresentante di questa prima fase della storia della silloge sarebbe A, che è il codice più antico e stemmaticamente più importante della collezione. L’antologia fu poi estesa ed ampliata mediante l’aggiunta di materiale iniziale, assumendo così l’aspetto che essa ha oggi in B. Ed è sicuro che queste aggregazioni iniziali avvennero in un contesto differente da quello in cui era stato prodotto A: precisamente, esse risalgono agli ambienti della scuola capitolare di Lione, e agli anni del magistero del diacono Floro (dunque gli anni centrali del IX secolo).

Ma andiamo con ordine, e cominciamo a ripercorrere sommariamente la storia alto-medievale dei testi contenuti nella seconda parte di B, per constatare che essi furono tutti letti dai pionieri della rinascenza carolingia, essendo noti alla corte di Carlo Magno, e in ambienti ad essa collegati, già sul finire dell’VIII secolo. Anche solo scorrendo rapidamente l’elenco di questi testi, è inevitabile che balzi all’occhio l’estrema rarità di molti di essi (si pensi a Catullo, Seneca Tragico, il Cynegeticon di Grattio, l’Halieuticon pseudo-ovidiano). Paradossalmente, proprio la scarsa circolazione di questi testi, si rivelerà un elemento prezioso e decisivo per definire in maniera univoca le circostanze e le modalità di costituzione del corpus, permettendo di applicare una sorta di “metodo delle rarità” in cui convergenze che altrimenti sarebbero considerate di poco peso acquistano invece un forte valore congiuntivo. Partiremo dunque da due autori che nel medioevo erano delle assolute rarità: Catullo e Seneca Tragico.

come si è visto, gravano fortissimi dubbi (cfr. § 2.3 Collocazione di C e supposta contaminazione in D ed E).

50 4. Catullo, c. 62

La storia recente del testo di Catullo è presto scritta221: fatta eccezione per B, tutti i testimoni del testo sono di età tardo-medievale e umanistica, e risalgono ad un comune antenato V. Sul finire del XIII secolo, nel fervente clima di riscoperta di testi classici del preumanesimo veneto, riemerse a Verona un manoscritto del Liber catulliano contenente 113 carmi (noto come Veronensis e siglato V), oggi

Documenti correlati