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Geologie Poetiche

Nel documento Andrea Zanzotto. Un poeta nel tempo (pagine 158-164)

Naturalmente la geologia non è soltanto una bella metafora se applicata alla poesia. Forse è un vero e proprio paradigma conoscitivo, anche sul pia- no tecnico: il paradigma conoscitivo di una possibile-necessaria relazione tra poesia e scienza, se pensiamo alle stratifi cazioni in verticale di materiali compositi diff erenziati che ogni testo poetico, in quanto organismo lingui- stico, porta con sé e se pensiamo al reciproco lavoro di scavo che accomuna il poeta e il lettore.

Nel caso di Andrea Zanzotto, naturalmente, i paradigmi scientifi ci, in lui molto vivi, sono anche molto originali, spesso non troppo ortodossi come la sua attrazione per il vulcanologo, per il meteorologo, per l’esperto di terremoti, sempre posti in rapporto con un sapere di carattere popolare e folklorico; dunque si tratta di una scienza che si feconda con quello che è il grande sapere popolare a proposito della terra, del cielo, del movimento degli astri, e, appunto, della consistenza del terreno.

In ogni caso, se prendiamo in esame tutta l’opera, non solo poetica, ma anche rifl essiva, di Zanzotto, notiamo come la geologia costituisca un tòpos fondante, sul piano tematico, sul piano retorico, su quello prettamente linguistico, metrico e metamorfi co, del testo.

Mi concentrerò, da lettore comune e aff ezionato, in particolare, sul li- bro per me più vivo, che io considero davvero uno dei pochi canoni auten- tici che il secondo Novecento ci abbia consegnato, cioè il Galateo in Bosco, in cui davvero questa dimensione geologica raggiunge il proprio apice.

Ma c’è un antefatto, un antefatto dello Zanzotto critico e dello Zan- zotto geologico: il saggio L’inno nel fango uscito sulla «Fiera Letteraria» nel 1953. È un “protozanzotto”, che sta a metà tra Dietro il paesaggio e Voca-

tivo, i due capolavori iniziali della sua storia poetica, e che giustamente è

stato posto come soglia di ingresso dei suoi volumi di saggi.

Perché Zanzotto parla di Montale? Si tratta di un Montale che nel ’53 ha pubblicato soltanto Ossi di Seppia e Occasioni, e il libretto Finisterre, contrabbandato da Contini. Ha già completato, praticamente, le poesie de

La Bufera e altro, quelle che comporranno il terzo libro di Montale, l’ul-

timo ancora sublime, che usciranno nel ’56 da Neri Pozza e l’anno dopo da Mondadori. Ne manca soltanto una, Il sogno del prigioniero testo fon- damentale, a sua volta fondante che Montale scriverà nel ’54. Dopo aver scritto quella poesia, Montale comporrà il libro, ma non scriverà più poesie per quasi un decennio, fatto unico e straordinario. È un’ipotesi critica non del tutto balzana il pensare che Zanzotto, con quel saggio del ’53, abbia in- dirizzato Montale su una certa strada, abbia posto a Montale un problema che Montale avrebbe d’acchito risolto con il Sogno del prigioniero, uscito nell’estate del ’54 sulla rivista «Il Ponte», ponendogli, poi, il problema di un decennale silenzio che risolverà con gli “inni nel fango”: davvero nel fango e nella merda, dall’escatologia alla scatologia, come Zanzotto stesso percepirà per primo nel ’66, e che verranno raccolti, ma molti anni dopo, in Satura.

Qui scatta uno di quei casi cui faceva riferimento con molto acume Carbognin nella sua relazione, poi ripreso da Cortellessa, di una capacità fecondatrice di Andrea Zanzotto nel dialogo tra i poeti con i critici stessi è accaduto lo stesso anche con Sereni, più di quanto non si creda: Contini stesso, quando nel ’78 verga la Prefazione al Galateo in Bosco nell’edizione originale dello Specchio Mondadori, era un Contini diverso, più aperto, più dialogico, meno criptico, meno scrittore, molto più al servizio del testo e dell’autore di quanto non sia stato in altri saggi sui contemporanei. E quindi Zanzotto davvero apre e comincia ad aprire già nel ’53 con Mon- tale, cioè con un nume tutelare della nostra poesia, un dialogo di scambio e di infl uenza dove lui svolge una parte fecondatrice e attiva, molto più di quanto a volte non sia stato riconosciuto. Dal saggio del ’53 l’Inno nel

geologia poetica: «la vita destinata in ogni caso a perire, valida soltanto come passato... ecc. fi no a detriti fi sici, geologia».

Poeta ctonio, come Contini defi nisce subito Zanzotto nell’introduzione al Galateo, con questo libro Zanzotto compone un libro che «il necessario superamento dell’ordinarietà ecc. fi no a “regressione” (da Contini)». Ogni suo libro aveva invece aff ermato Zanzotto, poco tempo prima dell’uscita del Galateo in un vivissimo Autoritratto lui lo trovava «già fatto, come una serie di strati di polvere, venuti a depositarsi su qualche cosa, per una specie di fall-out di minime segrete esplosioni». Ma più di ogni altro libro, soprattutto, il Galateo in Bosco incarna non rappresenta ma incarna, non è una metafora ma una fi gura reale la condizione di luogo-lingua, che nel suo «continuo scoppiare o sbocciare, diviene potenziale sovrapposizione di tutto su tutto, onnivoro punto». Questo è uno dei momenti più vivi dell’autorifl essione di Zanzotto.

A garantire l’unico incontro produttivo tra storia e geografi a è insomma un modello di ordine geologico. La storia lascia sì sulla pelle della terra i graffi , le tracce dei suoi confl itti o delle sue inerzialità e fi n qui ci si ferma al territorio superfi ciale della geografi a; ma nell’atto di farsi poesia, la ter- ra, l’onnivoro punto del nostro esistere antropologico, storico, quotidiano noi genere umano, noi esseri sociali e generazionali, noi individui dalla storia si fa anche penetrare, accogliendone gli strati progressivi di sedi- mentazione, le morfologie diverse di sostanza minerale. Così, il prodotto generato da un simile atto di fecondazione mortale, la storia-mantide (qui ci sono proprio in gioco elementi di vita e di morte, di possibile vita “oltre” e “dopo” il paesaggio, di vita “dentro” il paesaggio, che soltanto un rito di morte, una liturgia di morte può far emergere) la storia-mantide coincide con la metamorfosi primaria dell’umano nel vegetale, prima della sua pie- trifi cazione ultima, come nel mito fondante di Prometeo e come poi nel Kafka interpretato da Blumemberg, nell’ultimo capitolo straordinario del suo libro. C’è in atto, insomma, un processo necrotico che coinvolge poe- sia, natura e storia, in grazia del contrasto tra l’idillio apparente dell’unico

luogo, il Montello, il suo ruolo di ossario spontaneo per una delle stragi più atroci della prima guerra mondiale, e la sua fi sionomia contemporanea di non-luogo soggetto alla trimurti militarità-terrore-irrealtà, nel prolife- rare grafi co di cartelli-icone che mentre si cammina piovono davanti come bolidi. Il Galateo si industria, riuscendoci, ad annettere a tale processo la vitalità tellurica, l’impeto di eruzione vulcanica che coincide con l’iim- pulso primo della parola poetica, si concentri esso nella poetica della lode come collaudo della realtà, tanto tipica di Zanzotto, con il balbettio petèl dialettale infantile che precede e che segue ogni forma di verbalizzazione artistica. La metrica stessa nel Galateo in Bosco trascorre dagli estremi di un versoliberismo radicale fi no alla regolarità pressoché integrale dei 16 sonetti che compongono l’Ipersonetto, ove, per altro, va sempre ricordato, si realizza - una delle rare volte nella letteratura italiana - una effi cace, ori- ginalissima sovrimpressione di modalità dantesca e petrarchismo.

In eff etti, poi, se apriamo un qualunque manuale di geologia, vi appren- diamo facilmente che le fasi vulcaniche sono 4: qui è interessante notare questa trasformazione dall’umano attraverso il vegetale, che diventa a sua volta geologia, e carbone e torba, nel minerale, poi non rimane defi nita lì, è una metamorfosi continua: ci sono le esplosioni vulcaniche e i terremoti che recuperano il vitale e, in qualche modo, l’energetico che, a loro volta, sfi dano, attraverso una sorta di dimensione umana, di instabilità umana, di energia umana, sfi dano la pietrifi cazione, la problematicizzano, la fan- no esplodere, la portano nella dimensione della faglia (ricordando che il vocabolario dà alla parola faglia il senso di mancanza, errore, fallo: quindi qualcosa di umano sta anche dentro questa dimensione).

Dunque, da un manuale di geologia apprendiamo che le fasi vulca- niche sono 4: premonizione, esplosione, deiezione, emanazione. E se, di conseguenza, ci impegnamo ad applicare questi 4 principi all’esperienza del luogo-lingua che è il bosco del Galateo, otterremo senz’altro qualche consistente risultato ermeneutico. In primo luogo ci renderemo conto, con Dal Bianco, che se l’inconscio coincide con la terra, ne rappresenta anche

lo stato inferiore, che diventa appunto responsabile di un movimento tel- lurico, da cui derivano uno scatenamento, uno scivolamento energetico, sotto il livello dell’espressione. C’è davvero un’interazione tra il destino- faglia individuale e il destino-faglia collettivo, di un popolo, pensiamo ai soldati morti sul Montello, le schegge dei giovinetti che appunto riposa- no negli ossari del Montello, che formano la linea degli ossari che arriva fi no in Francia. Il piano lineare dell’espressione viene insomma insidiato di continuo da eruzioni, frane, e conseguenti eff etti di intrusione.

Premonizioni, allora: «lingua aggredisca si invischi in oscuro… ecc.» (da Perché cresca). Esplosioni: «ecco è tranciata la bobina della scorretta en- doscopia per entro il dentro-tenia dei tempi…» (da Diff razioni, eritemi). E deiezioni, qui davvero in dialogo stretto con il Montale di Satura: atti vitali e mortali radicati nel codice genetico più arcaico (da E po’ muci). E, infi ne, emanazioni o esalazioni attraverso condotti, fratture, faglie, terreni perme- abili, tanto più effi caci se avvertite nella materia del corpo che parla «nel pozzo del mio corpo», «corpo aff ondato… ecc. (da Indizi di guerre civili).

Ma vado a concludere, a dimostrare, in qualche modo, a riportare dav- vero nella sintesi di una delle poesie più straordinarie che il nostro secon- do Novecento ci ha lasciato: una mise en abîme dell’intera raccolta: certe forre circolari colme di piante e poi buchi senza fondo, in cui davvero le forre circolari sono le doline di Ungarettiana memoria, ove Zanzotto ci ricorda sono terreni carsici certo, non coltivati, ma dove persiste sul fondo di molte di queste doline - almeno di quelle del Montello - una selvosità naturale, non si tratta di pietra nuda. E questa mi sembra proprio la poesia dove questa metamorfosi inesausta dell’umano nel minerale attraverso il passaggio nel vegetale, trova una sorta di sintesi assoluta con quel fi nale delle icone sul quale la poesia si conclude.

Nel documento Andrea Zanzotto. Un poeta nel tempo (pagine 158-164)