Gli stessi ghetti, tradizionalmente luoghi di segregazione, presentano rare ma stupefacenti eccezioni nella storia: il caso del ghetto ebraico di Venezia è uno di questi71. Di fatto, il primo ghetto ebraico ad essere costruito è proprio quello
veneziano del 1516, attraverso l’edificazione di mura, con alcune porte, a delimitare l’area di accoglienza degli ebrei a Venezia. Uso il termine “accoglienza” intenzionalmente, perché la straordinarietà di questo episodio sta proprio nel fatto che questo ghetto permise agli ebrei di insediarsi nella città , sebbene non di circolarne liberamente all’interno, per la prima volta. Questo perché agli ebrei non era permesso l’ingresso nella città lagunare, e la costruzione del ghetto fu una conseguenza alla guerra tra la Serenissima e la Lega di Cambrai (guerra che oppose la Repubblica Serenissima ad una alleanza chiamata Lega di Cambrai, formata da Papa Giulio II, Luigi XII di Francia, Massimiliano I d’Asburgo (a cui si affiancarono episodicamente altre potenze europee infastidite dalle mire espansionistiche veneziane verso la
terraferma), in modo da dare rifugio alla popolazione ebraica. In questo caso vediamo quindi che ciò che inizialmente nasce come un dispositivo di reclusione assume un ruolo di protezione, e in un certo qual modo incontra anche la conflittualità interna alla cultura ebraica che ha in sé un forte radicamento al territorio della Terra Promessa e nello stesso tempo una tensione all’extraterritorialità e all’attraversamento dei confini, che fa della diaspora un fattore fondamentale e costitutivo della tradizione giudaica. Certo dal punto di vista di chi è segregato all’interno del ghetto sussiste forte il senso di coercizione, primo movente reale della costruzione di questo, che è senza dubbio un tratto distintivo in tutta la storia dell’ebraismo e ha contribuito a rinforzarne alcuni aspetti. Indubbiamente infatti, l’essere obbligati a vivere all’interno di uno spazio recintato ha rinsaldando l’identità culturale ebraica; dal punto di vista dei relegati, la chiusura degli accessi dall’interno può quindi fungere da tutela alle tradizioni.
E’ indubbio che l’identità comunitaria dell’ebraismo abbia un fortissimo rimando proprio al territorio che sono stati costretti ad abbandonare durante tutta la loro storia, costituendo in pratica il paradigma stesso del concetto di diaspora. Certo nei secoli e per via di vari drammatici accadimenti storici troviamo diversi “tipi” di diaspore che non sempre sono connesse al territorio, così Gabriel Sheffer72
oltre alle altre varie “categorizzazioni”, sottolinea la differenza tra diaspore con attaccamento allo Stato e diaspore senza-Stato. Il caso ebraico è chiaramente legato allo Stato sia sul piano politico d’Israele che su quello simbolico; di fatto, prima della creazione d’Israele era la Bibbia a costituire in un certo qual modo la connessione storica alla Terra Promessa. Con la nascita dello Stato d’Israele (1948) quel “ritorno”, che fino ad allora aveva avuto una valenza simbolica e di collante per la comunità ebraica, divenne di nuovo possibile, dando vita al cosiddetto nazionalismo diasporico (grazie anche alla precedente teorizzazione e fondazione del Sionismo ad opera di Theodor Herzl73, che gettò le basi
72 Gabriel Sheffer, Diaspora Politics: At Home Abroad, Cambridge University Press, Cambridge,
2006 Gabriel Sheffer è stato, tra le sue varie cariche, un docente di Scienze Politiche presso la Hebrew University of Jerusalem e fa parte del Middle East Institute, occupandosi nel suo lavoro di ricerca di Diaspore e Transnazionalismo e delle Relazioni tra Diaspore e Madrepatria.
teoriche per la successiva ricostruzione di uno Stato di Israele) . A livello tecnico la cosiddetta Legge del Ritorno fu promulgata da Israele nel 1950 garantendo la cittadinanza israeliana ad ogni ebreo vittima della diaspora, con l’unica condizione che sia dimostrabile la semplice discendenza genealogica, a prescindere da una precedente residenza nello Stato. Lo stesso tipo di legislatura venne applicata dopo la caduta del muro di Berlino nei confronti dei “Tedeschi del Volga”.
Storicamente, è la stessa lingua ebraica a costituire un fattore unificante e contemporaneamente elemento di separazione, di confine, tra la comunità giudea e il resto delle popolazioni74, agevolando il rafforzamento e la
trasmissione della cultura tradizionale e in qualche modo anche del sentimento nazionalista, attraverso pubblicazioni in lingua, giornali, studio dei testi sacri e rapporti epistolari.
Riprendendo dunque il concetto di ghetto, e “rivisitandolo” dal punto di vista di coloro che lo abitano, la creazione del ghetto è in alcuni casi spontanea da parte di comunità etniche immigrate in Paesi d’adozione, con lo scopo di mantenere viva la tradizione d’origine, sentendosi in qualche modo protetti dal nuovo e dal diverso che circonda questi quartieri.
Un esempio di isolamento semi-protettivo quindi si riscontra nelle grandi città metropolitane, dove si possono trovare dei quartieri che tutt’oggi si caratterizzano per il loro aspetto folcloristico, ma che all’epoca della loro fondazione fungevano da “zona sicura” per gli emigranti, come un confine simbolico tra il nuovo mondo e il pezzetto di terra natia che avevano portato con loro.
Nella fattispecie, la zona del Lower East Side di New York è l’area della città che ospitava le diverse comunità etniche di immigrati da tutto il mondo sin dal decennio a cavallo tra il XIX e il XX secolo: in questa zona numerosi gruppi si dividevano tra i blocks del quartiere, confinanti gli uni con gli altri ma non mescolati. Spesse volte di fatto gli immigrati italiani trasferitisi a New York, una volta giunti nei quartieri popolati dai connazionali raramente li abbandonavano
se non costretti da esigenze lavorative. Come abbiamo capito, la lingua ovviamente era un ostacolo enorme per l’integrazione e per la semplice comunicazione, soprattutto per gli immigrati di prima generazione (i figli di quest’ultimi di fatto non ebbero per anni nemmeno l’autorizzazione di andare nelle scuole dei bambini americani).
Teniamo anche presente che mentre durante la prima ondata migratoria (quella risalente agli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale) gli emigranti non avevano la possibilità di mantenere frequenti contatti con la madrepatria (eccezion fatta per i rapporti epistolari che certo però all’epoca non erano celeri), mentre con la seconda ondata - quella degli anni ’90 del XX secolo - l’impressionante sviluppo tecnologico che ha investito sia le comunicazioni che i trasporti ha mutato radicalmente la natura del fenomeno migratorio e dei rapporti tra emigrati e terra d’origine.
Un’ulteriore suggestione rispetto alla percezione dello spazio di confine è quella che ci viene dalla cultura gitana. Per le comunità zigane infatti lo spazio di confine acquista una valenza completamente diversa, quasi opposta, in quanto queste tendono ad appropriarsi proprio dei luoghi urbani “vuoti”, non utilizzati. Già nel XV secolo, i roma infatti si posizionavano lungo le mura delle grandi città così come ora occupano spazi di confine rispetto alla società dei gage75 (i
non zingari), dai quali si vogliono distinguere e che al contempo sono termine di paragone necessario per il processo identitario zingaro. Da notare è anche che, mentre i non zingari tendono a dividere l’umanità spesso attraverso il criterio della nazionalità, per i roma l’unica distinzione significativa è quella tra gage e roma (che nel contempo saranno italiani, spagnoli, inglesi e così via...).