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Gialli/Polizieschi Saggistica letteraria

Giorgio Scerbanenco, IL CANE CHE PARLA, a cura

di Roberto Firani, ed. orig. 1942, pp. 216, € 13,00, Sellerio, Falerno 2010

Quante anime ha avuto Giorgio Scerbanen-co? Anche il semplice appassionato della sua opera che, a differenza di Roberto Pirani, ignora i mille pseudonimi utilizzati dal roman-ziere ucraino, si trova a fare i conti con un bel numero di Scerbanenco diversi: quello dei ro-manzi "rosa", dove solo a sprazzi emerge lo straziato pessimismo dell'esule; quello delle storie di spionaggio dei primi anni sessanta, vagamente hitchcockiane; quello del ciclo più tardo di Duca Lamberti, che trova il coraggio di raccontare storie d'inaudita ferocia in un linguaggio asciuttissimo, ma sempre vibrante di tenerezza dostoevskiana per la sofferenza degli umili, degli inermi. Riproponendo oggi le inchieste di Arthur Jelling (questa è la quinta), Sellerio ci fa conoscere uno Scerbanenco an-cora diverso: quello che negli anni quaranta si diverte a giocare da esperto conoscitore con gli stereotipi e i canoni del giallo. Jelling ap-partiene alla stirpe degli anti-Sherlock Hol-mes: come padre Brown, come Miss Marple, sembra una creatura innocua e mite, dalla quale i criminali non hanno nulla da temere. Timidissimo, si trova a proprio agio soltanto nel proprio ufficio di archivista della polizia di Boston; ma viene invece continuamente solle-citato a risolvere sul campo i casi giudiziari più oscuri, perché la sua pacata bonarietà na-sconde un'immaginazione audacissima, ca-pace di perseguire la verità dietro le

apparen-disegni di Franco Matticchio

rosso del 1887 e II segno dei quattro del

1890) , Conan Doyle ne fece l'eroe di una se-rie di racconti, Le avventure di Sherlock Hol-mes, che apparvero sullo "Strand Magazine"

prima di venir raccolti in volume nel 1892. È a questa serie che appartiene L'avventura della banda maculata, dallo svolgimento canonico

e dalle componenti di effetto sicuro. Nella vi-cenda ci introduce una gentildonna in perico-lo, che fa visita a Holmes dissimulata dietro un fitto velo; l'indagine che la concerne condurrà l'infallibile detective, accompagnato dal fido Watson, in una suggestiva dimora aristocrati-ca di aristocrati-campagna, dove si verifiaristocrati-cano eventi la cui spiegazione rimanda a un antefatto esoti-co, e remoto tutto da chiarire. La novità di que-sta elegante edizione di grande formato que-sta nelle gradevolissime tavole di Christel Espié, una giovane illustratrice che in Francia ha al suo attivo, tra parecchi altri lavori, le immagini di una biografia per ragazzi di Magellano e un bel Tom Sawyer détéctive. Il raffinato lavoro

grafico di Espié trae ispirazione dalle celeber-rime tavole di Sidney Paget che illustravano l'edizione originale: la fisionomia di Sherlock Holmes è la stessa, forse leggermente abbel-lita dal ricordo di Basii Rathbone che si affac-cia con discrezione. Gli accessori ottocente-schi sono riprodotti con diligenza, secondo la tradizione, lasciando da parte soltanto l'ormai troppo caricaturale berrettino a scacchi. Ma i grandi paesaggi a doppia pagina che evoca-no Baker Street sotto la pioggia o la dimora avita della protagonista in una campagna ri-gogliosa e inquietante appartengono in pro-prio ad Espié, e percorrono una via originale tra il fumetto alla Tardi e un delicato pastiche

degli acquerelli d'epoca.

( M . B . )

rare eccezioni, tra cui Andrea Camilleri e Frutterò & Lucentini). I primi quattro romanzi di Malvaldi, incentrati sulle picaresche inda-gini di un gruppetto di simpatici ottantenni, a stento tenuti a freno da un giovane e perspi-cace barista, hanno dovuto il loro successo proprio alla leggerezza garbata con cui si in-serivano in un filone fortemente minoritario. Ritroviamo la stessa qualità in Odore di chiu-so, che imbocca la strada del giallo storico e

mette in scena, nel ruolo di coadiuvante del-l'investigatore ufficiale, il gastronomo Pelle-grino Artusi, ospite in Maremma di una dimo-ra nobiliare dove non tardano a verificarsi eventi delittuosi. Mentre Artusi si aggira con i suoi baffoni bianchi e cerca di carpire alla cuoca la ricetta di un polpettone dagli ingre-dienti inusuali, un bicchiere di porto avvele-nato dà l'avvio a una grottesca sarabanda di crimini. Gli aristocratici proprietari del castel-lo di Roccapendente cercheranno invano di tener lontana dai segreti di famiglia l'indiscre-ta giustizia del giovane regno d'Il'indiscre-talia: un'av-ventura di Sherlock Holmes fresca di stampa metterà gli inquirenti sulla pista giusta. La

scrupolosa esattezza del-la ricostruzione storica cattura e incanta il lettore; ogni sospetto di kitsch e di nostalgia rétro è però esorcizzato dall'ironia scanzonata della voce narrante e dai piccoli ma significativi anacronismi disseminati con arte. Mal-valdi ha dichiarato altrove la sua ammirazione per Giovanni Guareschi e P.G. Wodehouse, invisibili numi tutelari anche di questo racconto; gli ap-partengono però in pro-prio il gusto del pastiche,

che dà vita al diario godi-bilissimo dell'Adusi, e la capacità di dosare con sapienza gli ammicca-menti complici al lettore, mutuati, si direbbe, dal Calvino degli ultimi romanzi.

( M . B . )

Marco Malvaldi, ODORE DI CHIUSO, pp. 198,

€ 13,00, Sellerio, Palermo 2010

Nel panorama del giallo italiano, prodigo di vibranti denunce e di amare constatazioni, lo humour è da sempre alquanto latitante (con

Friedrich Diirrenmatt, IL PENSIONATO, ed. orig.

1995, trad. dal tedesco di Anna Ruchat e Cristina Pietra, pp. 124, € 14,50, Casagrande, Bellinzona 2010

Lasciato incompiuto alla morte dell'autore nel 1995, Il pensionato dì Friedrich Durrenmatt

viene presentato da Casagrande in una ec-cellente traduzione, nella versione completata da Urs Widmer, e con una postfazione di Pe-ter Ruedi. Il romanzo utilizza la struttura del

poliziesco per proporre una lunga meditazio-ne sui temi della giustizia e della legge, sulle scelte individuali e sugli effetti, a grande e a piccola scala, di tali scelte. Il prepensiona-mento del commissario Hochstettler, potreb-be insinuare una vena umoristica nella narra-zione: socialmente discusso, pluridivorziato e inviso ai superiori, con la tendenza a dire le cose sbagliate alle persone sbagliate, soprav-vissuto a una carriera monotona e priva di promozioni o onori, Hochstettler diventerebbe facilmente una macchietta se la sua storia non fosse il frutto di scelte meditate, di una mora-lità espressa attraverso una rinuncia alle con-venzioni burocratiche e politiche della carrie-ra, dell'accettabilità. Nell'imminenza della pensione, Hochstettler si avvia nell'inverno bernese per tirare le ultime somme, risolvere gli ultimi misteri. Il lavoro svolto da Widmer nel completamento del testo di DOrrenmatt è più che soddisfacente, e l'apparato metatestuale - che include un capitolo alternativo -

per-mette al lettore di affrontare il testo non solo come opera narrativa, ma anche come occa-sione per esplorare i meccanismi della scrittu-ra di un maestro. La prosa tersa, la cascrittu-ratteriz- caratteriz-zazione minimalista ma precisa e la generale lievità del testo fanno di questo esile volume un'esperienza al contempo piacevole e illumi-nante.

I D E I L I B R I D E L M E S E

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David Shields, FAME DI REALTÀ. UN MANIFE-STO, ed. orig. 2010, trad. dall'inglese di Marco

Rossari, pp. XV-262, € 18,50, Fazi, Roma 2010

Al centro di un animato dibattito fra en-tusiasti sostenitori (Jonathan Lethem) e ir-riducibili oppositori (Zadie Smith), Reality Hunger: A Manifesto, di Shields, è

insie-me un manifesto, una dichiarazione di poetica, un'analisi

dettagliata della nar-rativa contempora-nea, prevalentemente americana. Ma è an-che una concreta rea-lizzazione di quanto tale manifesto prefi-gura della letteratura degli anni a venire, orfana della forma ro-manzesca: un ibrido di saggistica, memoir,

conversazione, un te-sto quasi interamente composto da fram-menti - tratti da autori

classici del Novecento, saggisti contem-poranei, musicisti, registi, rappers-

intra-mezzati da commenti personali, squarci lirici, ricordi, tenuti insieme da una sofisti-cata tecnica di collage. A fronte dei muta-menti epocali associati alla cultura digita-le, Shields vede esaurirsi le potenzialità narrative della forma romanzesca, ma ve-de anche l'affacciarsi di imprevedibili, possibili metamorfosi. Il testo si sviluppa tra un'ouverture e un'appendice che ce ne forniscono le istruzioni d'uso. In ap-pendice l'autore invita il lettore a non tener conto della lunga lista di note impostagli (a evitare l'accusa di plagio) dall'editore: in un libro che sistematicamente si appro-pria di testi e opere altrui, negandone la proprietà privata ed esaltandone le poten-zialità creative, l'incertezza sull'origine delle fonti non è un difetto ma una carat-teristica essenziale. In ouverture l'intento del libro: scrivere una ars poetica rivolta a

un gruppo emergente di artisti attivi nel praticare le nuove forme artistiche e i nuo-vi media, dal saggio personale al saggio lirico, dal romanzo-collage alla visual art,

dall'arte della performance ai graffiti. Un movimento non ancora consapevole di sé, ma tenuto assieme da una voluta inar-tisticità, casualità, apertura all'imprevisto nel reperimento dei materiali, dalla ricerca di partecipazione emotiva e interattiva con il lettore o lo spettatore, dalla cancel-lazione dei confini fra fiction e non-fiction:

tutte componenti essenziali a nutrire la "fame di realtà" in questione. Shields è at-tratto dalla letteratura come forma di pen-siero, da quelle opere che mettono diret-tamente a fuoco ciò che importa allo scrit-tore, in alternativa ad affidarne

l'emergen-za alle crepe della narrazione. Qui si deli-nea programmaticamente il nuovo genere letterario praticato in tutto il lavoro: il lyric essay, che racconta una storia a livello

subliminale, comunica mediante concre-tizzazioni dei processi mentali precedenti la narrazione, si chiarisce districandosi nel caos della vita, assunto quale espres-sione di vitalità opposta all'illusoria coe-renza della fiction convenzionale. Il

sag-gio lirico si basa sulla citazione e sul mon-taggio, collega fram-menti apparentemen-te incollegabili, ma che proprio da tali col-legamenti traggono il proprio significato. Es-senziali, tra questi, i frammenti di vita vis-suta, i ricordi colti nel

memoir, un genere

narrativo ampiamente diffuso negli ultimi de-cenni, entro cui l'auto-biografia si mostra quale abile sotterfu-gio. Saggio e memoir si commentano a

vi-cenda, ricordandoci che "dentro di noi siamo doppi, che non crediamo in quello in cui crediamo, che non possiamo libe-rarci di quello che condanniamo".

G I U L I A N A F E R R E C C I O

James Wood, COME FUNZIONANO I ROMANZI. BREVE STORIA DELLE TECNICHE NARRATIVE PER LETTORI E SCRITTORI, ed. orig. 2008, trad.

dall'inglese di Massimo P'arizzi, pp. 177, € 18,00, Mondadori, Milano 2010

Recentemente soppiantata dall'atten-zione volta a temi quali l'identità, il post-coloniale, l'etnia, ben riassunti nel conio polemico di Franco Moretti di distant rea-ding, la grande tradizione del close-rea-ding ritorna, col saggio di James Wood, in

primo piano. Vi compaiono le canoniche domande sull'arte della narrativa - che cosa implica il narrare? Che cos'è il punto di vista e come funziona? Che cos'è un personaggio? quanto realistico è il "reali-smo"? - cui l'autore offre nuove, suggesti-ve e pratiche, risposte. Nel ricostruire la storia del romanzo moderno lungo l'evolu-zione delle tecniche, Wood segue il crite-rio morfologico che ne associa l'inizio alla rappresentazione dell'interiorità interna ai soliloqui del dramma shakespeariano. Il personaggio romanzesco nasce quando, da teatrale, il soliloquio si fa interiore, ciò che trasforma l'arte della caratterizzazio-ne e, con quella, l'identità di "chi" vede il personaggio. Un filo lega Macbeth a Ra-skolnikov: se nel primo il soliloquio diven-ta pubblico solo in quanto è privato, via

via che si complessifica la rappresenta-zione dell'interiorità, il dramma della co-scienza si offre non più al pubblico ma al-lo scrutinio di noi lettori, come nel secon-do. Liberato dall'obbligo dell'eloquenza, l'eroe - ormai uomo comune - lo è anche dall'obbligo di esplicitare le proprie moti-vazioni, diventa analista della motivazione inconscia, apre alle sperimentazioni del flusso di coscienza del romanzo novecen-tesco. Legata alla caratterizzazione del personaggio è l'altra svolta essenziale nell'evoluzione dell'arte del romanzo: la moltiplicazione dei punti di vista che, rea-lizzata attraverso la tecnica del discorso indiretto libero inventata da Jane Austen, arriverà fino alle prime riflessioni poetolo-giche di Henry James. Una storia può es-sere raccontata in terza persona, da un narratore onnisciente ritenuto affidabile, o da un narratore in prima persona, inaffi-dabile in quanto tale. Wood dimostra quanto poco certe e universali siano que-ste canoniche distinzioni. La narrazione onnisciente dipende dal riferimento a un codice culturale condiviso in materia di realtà, e le crepe di tale codice si mostra-no proprio quando la narrazione onni-sciente si fonde con la voce del perso-naggio mediante la tecnica, appunto, del-lo stile indiretto

libe-ro, che allontana ia narrazione dal narra-tore, crea incertezza sulla paternità dei pensieri espressi. In-fine, il realismo. Con-tro la tendenza a confondere la con-venzionalità del rea-lismo con l'impossi-bilità di riferirsi ad al-cunché di veritiero, Wood ricorda che coerenza interna e plausibità sono più importanti, nel reali-smo, della correttez-za referenziale; il de-siderio di produrre

un'arte che veda fedelmente "come van-no le cose", argomenta con James, è la "terraferma" dei romanzi.

( G . F . )

Harold Bloom, L'ARTE DI LEGGERE LA POE-SIA, ed. orig. 2004, trad. dall'inglese di

Rober-ta Zuppet, pp. 109, € 10,50, Rizzoli, Milano 2010

Nato come introduzione all'antologia

The Best Poems of the English Language, L'arte di leggere la poesia è un

concentra-to delle riflessioni condotte da Harold

Bloom nell'arco di mezzo secolo di letture, insegnamento, critica. Che cosa rende una poesia migliore di un'altra? Una do-manda quanto mai attuale, in netta oppo-sizione al metro di giudizio, ampiamente diffuso, disegnato su criteri extrapoetici le-gati alle ideologie, alla razza, alle etnie, al genere, all'orientamento sessuale. La poe-sia è linguaggio figurato, non letterale, ci ricorda Bloom: ciò che viene detto in poe-sia non può essere detto cori altri mezzi. Più forte nella poesia autentica, il linguag-gio figurato genera una sovrabbondanza di significato che espande e rinnova le po-tenzialità della mente di creare il nuovo. Attraverso l'esercizio della poesia si acu-tizza la comprensione della stessa figura-lità presente nel linguaggio comune, si af-fina la capacità di cogliere quelli che Wal-ter PaWal-ter definiva i "contorni più sottili del-le parodel-le". È dunque anche un potere co-gnitivo, quello del linguaggio figurato, ciò che Wallace Stevens definì "the hum of thoughts evaded in the mind" e Bloom de-finisce "thinking in literature": un pensare in poesia, altra cosa dal pensare discorsi-vo della filosofia o della scienza, e che pende da ciò che la poesia fa in quanto di-ce, dalla sua allusività tanto quanto dalla sua figuralità. Più d'ogni altro testo

lettera-rio la poesia innesta il passato nel presen-te, e qui Bloom ci dà una lezione su en-trambi, riscoprendo la tradizione poetica americana che infor-ma di sé anche The

Waste Land, così

programmaticamen-te europea, e riba-dendo che le famose note "charmingly ou-trageous and fre-quenta unreliable" nel decifrare talune allusività ne nascon-dono altre. È peraltro l'inevitabile a costitui-re il centro della grande poesia, il fraseggio che si impone alla nostra attenzione mediante la stranez-za: non la meraviglia ma "un cambiamen-to avverticambiamen-to nella coscienza", prodotcambiamen-to dal contatto con una coscienza bensì diversa dalla nostra, ma non tanto da non poter essere in parte condivisa. Funzione della grande poesia è aiutarci a diventare "libe-ri artisti di noi stessi", educandoci all'arte dell'esser posseduti dal pensiero poetico per arricchire, attraverso l'esercizio spiri-tuale della memoria, la nostra coscienza. "And there I found myself more truly and more strange", così si esprime al proposi-to Wallace Stevens, il poeta preferiproposi-to di Bloom.

( G . F . )

Zadie Smith, CAMBIARE IDEA, ed. orig. 2010, trad. dal-l'inglese di Martina Testa, pp. 424, € 19,00, minimum fax, Roma 2010

"Quando tutto sembra diverso, è il momento di co-minciare a riflettere", si legge in una delle Brevi

intervi-ste con uomini schifosi (1999) di David Fointervi-ster Wallace.

In questa sua prima raccolta di nonfiction, Zadie Smith sembra prendere l'invito alla lettera, dal momento che per ragioni estetiche ("Tincoerenza ideologica", scrive nella prefazione, "è, per me, un articolo di fede"), oltre che biografiche ("quando vieni pubblicata in giovane età, la tua scrittura cresce con te... e sotto gli occhi di tutti"), considera il diritto a Cambiare idea una vera re-gola d'arte. Dopo tre romanzi che l'hanno resa la voce più nota della sua generazione, la Smith dimostra di sa-perci fare anche con la teoria letteraria, i mémoires, i pubblici discorsi, le note di viaggio, le recensioni cine-matografiche. Quattrocento pagine in cui l'entusiasmo di Denti bianchi è affiancato da una competenza lette-raria invidiabile, sfoggiata discutendo con Vladimir Na-bokov sulle regole della creatività, con Anna Magnani

sui segreti della recitazione, con Barack Obama sui truc-chi dei discorsi elettorali.

Le raccolte di saggi assomigliano talvolta ad armadi di vestiti sciupati, soprattutto se non hanno nient'altro in co-mune che l'essere ancora uncollected. Non è il caso di

Cambiare idea. Mentre scriveva questi pezzi, Zadie Smith

stava preparando un "libro solenne e teorico sulla scrittu-ra", che avrebbe dovuto intitolarsi "fallire meglio". Forse è stato meglio che quel progetto sia fallito, perché è pro-prio la svagatezza a dare invece a questi saggi il sapore del-l'intelligenza al lavoro. E a delineare, nello stesso tempo, una preziosa teoria della lettura come nutrimento, vicina alle suggestioni dell'ultimo Roland Barthes. "Bisogna de-cidere cosa venerare", scrive in questo senso la Smith, ci-tando ancora Wallace. John Keats, Herman Melville, George Eliot, Franz Kafka, Zora Neale Hurston sono al-cune delle possibili alternative proposte nei suoi saggi. Se in Denti bianchi la tradizione era definita come un "sini-stro analgesico", ora la Smith sembra aver cambiato idea, poiché la considera il luogo ideale in cui, per usare un'e-spressione di Shakespeare, "infine l'anima ha spazio per respirare" (King John, V, 7, 3).

È difficile dire quale sia il più bello dei pezzi di

Cam-biare idea. Una delicatezza soffusa illumina in

particola-re i brani nati da ricordi privati, come quelli sul rapporto della Smith con il padre. Ma tracce di autobiografia si po-tranno seguire anche nei saggi letterari, poiché ciascuno di essi finisce per mettere in scena un'ermeneutica del dialo-go, in cui il significato originario dei testi vale molto me-no del ricome-noscimento di quello che possome-no ancora dona-re oggi. Lo si vede bene nel testo su Edward Morgan For-ster, per il quale la Smith nutre da sempre una sincera adorazione (tanto da aver modellato su Casa Howard il suo ultimo romanzo, Della bellezza, Mondadori, 2006: cfr. "L'Indice", 2006, n. 9). Se c'è un principio da cui, per-sino in questo libro, la sua scrittura non sa derogare è pro-prio il precetto forsteriano in base al quale tutto ciò che conta è riuscire a gettare nuovi ponti di comprensione tra mondi dell'esperienza diversi. Cambiare idea, in questo senso, significa vivere come quando leggendo si passa da una pagina all'altra, da un libro all'altro, da una bibliote-ca all'altra, in un indefinito affastellarsi di voci e di storie da cui lasciarsi sedurre e trasformare. Only connect.

, L'NPICF

* LIBRI D E L M E S E B B H

Colette, LETTERE A MISSY, a cura di Samia

Bordji e Frédéric Maget, ed. orig. 2009, trad. dal francese di Anna Morpurgo, pp. 207, €17, Archinto, Milano 2010

Tra il 1907 e il 1911 , negli anni turbi-nosi in cui Colette si allontana, lenta-mente e dolorosalenta-mente, dal marito Willy, la figura più importante della sua vita af-fettiva è Mathilde de Morny, detta Missy, di dieci anni più anziana di lei. Amante

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