• Non ci sono risultati.

Cinque concorsi per l’E

3.2 GIORGIO DE CHIRICO E IL FASCISMO

Un’altra ipotesi che si può formulare, è quella di un rapporto diretto del pittore con il fascismo stesso. Nella sua vita, ci fu l’adesione al fascismo e il suo successivo rinnegamento, quando vennero promulgate le leggi razziali (De Chirico ebbe due mogli ebree), ma non è escluso che in qualche modo la vita di De Chirico durante il periodo di adesione non si sia incrociata con il fascismo e il rinnovamento artistico che portava con se.

Cosa stava accedendo al panorama artistico?Nel 1922, con la marcia su Roma, Mussolini porta con violenza al potere il fascismo. Negli anni che seguono, soprattutto a partire dal delitto Matteotti del 1924 e dalle successive leggi "fascistissime", la dittatura intraprende la costruzione della città fascista, espressione dell'architettura razionalista e della nuova organizzazione ideologica del territorio. Si instaura un clima di fibrillazione culturale, dentro il quale si fanno avanti istanze spesso contraddittorie, che spingono da un lato verso un'arte popolare e privata (Strapaese), dall'altro verso la creazione di uno stile fascista, magniloquente e statista (Stracittà). Agli artisti vengono offerte molte committenze pubbliche, tutte volte ad esaltare retoricamente il nuovo regime prima, le colonie conquistate poi, e infine il risorto impero romano: è l'arte del consenso sostenuta da artisti convinti assertori dell'ideologia fascista. Agli oppositori non rimane altra possibilità che il tacere.

Come si inserisce De Chirico in questo contesto?

A tal proposito, utile un articolo tratto dal «Corriere della Sera», del 9 aprile 2010101, che racconta come Giorgio De Chirico corteggiò il fascismo. Ma sembra per fragilità e candido opportunismo. Difatti, a scorrere tra le sue opere, non dipinse mai un quadro celebrativo perché aborriva la retorica e l’assenza d’ironia. Insomma Giorgio De Chirico non fu così di destra come

      

101

si crede. Troppo scettico ed egocentrico per interessarsi a problemi politici o sociali, si faceva guidare da un candido opportunismo.

Convinto di essere un abile calcolatore, riuscì solo a danneggiarsi. Nel gennaio 1938 iniziò a far la corte al regime in modo assai maldestro: «Duce - scriveva -, di ritorno da Nuova York e prima di tornare a Parigi, ove abitualmente risiedo, sono di passaggio in Italia, e, da Roma, mi permetto di portare alla conoscenza dell’ E. V. ...».

Ma Mussolini reagiva malissimo al suo tono da fuoruscito e le lettere finivano nel cestino. Imperterrito, un mese dopo si recò da Bottai chiedendo di affidargli «la creazione di una nuova accademia con poteri assoluti» per «liberare l’arte italiana dal giogo di Parigi» e «ridare alla pittura le qualità perdute da più d’un secolo, con facoltà di usare «tutti i mezzi: dai morali ai tecnici, dai didattici ai disciplinari e persino ai coercitivi». Duce delle arti, quindi.

Ma nelle Memorie del 1945, piene di invettive antifasciste, finse di essersi solo offerto per un insegnamento gratuito e se la prese con Bottai.

Il corteggiamento proseguì con interviste e dichiarazioni miranti a ottenere premi, onorificenze e commesse. Pochi i risultati: un cavalierato nel 1941, e solo perché nel frattempo era diventato il pittore prediletto di Edda e Galeazzo Ciano.

Contro le persecuzioni razziali non disse una parola pur avendo avuto due mogli ebree. Nel 1941 non si vergognò di imputare la degenerazione dell’arte moderna all’influenza degli israeliti «privi di un’immagine didio», nel 1942 tolse le frasi favorevoli agli ebrei dall’edizione italiana di Ebdòmero e fu il trionfatore di una tetra Biennale di guerra.

Eppure era un uomo mite, impressionabile e fragilissimo, di un egotismo spaventoso, infantile e pronto per bisogno di affetto a compiacere chiunque, facilmente dominabile. Non dipinse mai un quadro celebrativo,neanche quando gli sarebbe stato utile, e mentre corteggiava maldestramente il fascismo dava voce a paure e ossessioni confessando le sue fantasie di

omosessuale represso in frammenti letterari che uscivano a Parigi in piccole edizioni surrealiste e poi, purgati, in Italia.

Fascista non era mai stato, per eleganza, per cultura, per stile: ne aborriva laretorica e la mancanza di ironia e diffidava del binomio arte e politica. Si era iscritto al partito nel 1933, appena tornato pieno di debiti dalla Francia, per poter lavorare. Il suo studio di Parigi era frequentato da antifascisti ai quali dava lavoro.

Incurante della politica, nel 1927 dichiarò a un giornalista di preferire la Francia all’Italia e di sentirsi «quasi francese», cosa che gli valse parecchi anatemi in Italia, oltre all’esclusione dalla Biennale di Venezia. Un equivoco nacque in quegli anni attorno ai quadri con ambigue lotte di gladiatori sotto lo sguardo severo di tristi fantasmi.

Abituato a non curarsi dei critici, purché parlassero bene di lui, non batté ciglio quando Waldemar George, un reazionario ossessionato da Spengler e dal declino dell’Occidente, interpretò quei dipinti come una restaurazioneda Basso Impero di fronte alla crisi dell’arte europea, dando implicitamente ragione a Breton che lo aveva accusato di piaggeria verso i miti della virilità fascista e della romanità. Invece erano derisioni di questi miti ed esternazioni di un’omofilia che non aveva il coraggio di manifestare altrimenti.

Se un sentimento politico si può dedurre dalle testimonianze di una coscienza civile, i due fratelli De Chirico erano più interessati allo sviluppo della loro arte che ai doveri civici. Renitenti alla leva, emigrarono a Parigi nel 1911 e Giorgio, che si presentò l’anno dopo al distretto di Torino, fuggì subito e fu condannato per diserzione. L’idea di Patria era in loro fortissima, ma riguardava più il bisogno di identità dell’apolide che il rapporto tra diritti e doveri. Savinio, contagiato dal bellicismo di Soffici, soffrì di questa incoerenza e fece di tutto per andare al fronte.

Giorgio, più scettico, dopo aver accondisceso per un po’ all’imperante sciovinismo, trovò il coraggio di scrivere nel dicembre 1919 che la guerra era stata unainutile scemenza e non un fatale necessità come si andava dicendo, e che anche il futurismo era stato inutile e dannoso come la guerra e se ne sarebbe potuto benissimo fare a meno, concludendo: «Ora tutto tramonta (...) La politica insegna. Gl’isterismi e le cialtronerie sono condannati nelle urne. Credo che ormai tutti siano sazi di cialtronerie,sia politiche, letterarie o pittoriche».

Dichiarazione chiara perché le elezioni appena concluse avevano visto la sonora sconfitta dei fasci e il trionfo di socialisti e popolari.

Diversa la linea di Savinio, che per malinteso patriottismo aspirò prima a farsi intellettuale organico al nascente regime, collaborando ai fogli più estremisti, e dopo la parentesi francese (1926-1932) volle diventare il teorico di un «tramonto dell’Occidente» in contrasto con l’«aurora di una nuova civiltà italiana». Ma questa è un’altra storia.

Documenti correlati