• Non ci sono risultati.

2.1 Giorgione Rinascimentale

Le opere di Pino e di Doni sono dei dialoghi o dei trattati.

La Notizia d’opere di Marcantonio Michiel, scritta tra il 1521 e il 1543, verrà pubblicata solo nel 1800 dall’abate Jacopo Morelli, erudito bibliotecario della Marciana di Venezia. Michiel, sebbene sia testimone contemporaneo di Giorgione in quanto cominciò a compilare le sue note solo qualche anno dopo la morte del pittore, non è tuttavia «[…] di nessuna importanza per la leggenda (per la creazione del suo mito), perché le sue note furono ignorate per quasi trecento anni»289.

È soltanto con Vasari che nasce la prima storia dell’arte dei tempi moderni.

Nel 1550 esce dai torchi dell’editore Torrentino, «la prima redazione delle Vite, ov’è un profilo biografico di Giorgione, delineato sulla scorta di dati che lo scrittore aretino raccolse durante il viaggio compiuto a Venezia nel 1541-42 […]. Risulta evidente, nella pagina vasariana, l’individuazione di alcune tematiche - la novità della pittura di Giorgione rispetto alla tradizione belliniana, il naturalismo, il colorismo tonale - poi raccolte e sviluppate dalla critica moderna»290.

Louis Hourticq afferma che «è proprio a Vasari che Giorgione deve la sua straordinaria fortuna nella storia […]. Di lui si è molto criticato e i moderni eruditi, raramente non mancano di iniziare le loro dissertazioni, attraverso una confutazione di Vasari, rilevandone gli errori»291.

Anche Paul Barolsky292 spezza una lancia a favore di Giorgio Vasari, affermando che «i fondamenti della critica storica si trovano nelle Vite di Giorgio Vasari […]. Ancora oggi vediamo l’opera (di artisti) attraverso gli occhi di Vasari […]. Ma egli (così come la critica successiva) fu di parte e il suo giudizio critico non pretendeva di avere alcuna pretesa di validità universale. Venivano apprezzate le virtù dei grandi artisti e questi giudizi persistettero nel tempo. Mentre alcuni studiosi hanno ridicolizzato gli “apprezzamenti” in arte, tutta la scrittura sull’argomento, esplicita o no, è “apprezzamento”. Lo scrittore evidenzia e descrive il “suo” soggetto, in quanto egli apprezza determinati particolari in esso, di tipo formale, illustrativo o morale. E tutta la scrittura inerente all’arte è “impressionista”»293.

«L’accostamento dei due nomi (Leonardo e Giorgione) all’inizio del capitolo moderno, indica chiaramente che, secondo Vasari, Giorgione ha svolto a Venezia lo stesso ruolo di Vinci a Firenze: chiude l’era dei primitivi e apre l’età moderna»294.

289 H

ASKELL, La sfortuna critica di Giorgione…cit., p. 587.

290

CARPEGGIANI, La fortuna di Giorgione…cit., p. 279.

291 H

OURTICQ, Le problème de Giorgione…cit., p. 14.

292 P

AUL BAROLSKY, The "meaning" of Giorgione's Tempesta, in “Studies in iconography” 9 (1983), pp. 57-65.

293

BAROLSKY, The "meaning"…cit., p. 58.

294 H

64

[…]Il Giorgione di Vasari era una figura semi-michelangiolesca, un pittore di “terribilità” e di “concetti difficili”; la sua valutazione era fondata dopo tutto su un’opera che non fu certamente dipinta prima del 1520: la “Burrasca” della Scuola di San Marco (ora attribuita a Palma il Vecchio e Paris Bordon). […] Sempre nella prima edizione Vasari afferma che “non solo egli acquistò nome di aver passato Gentile e Giovanni Bellini, ma di competere con coloro che lavoravano in Toscana et erano autori della maniera moderna”. Avendo superato Bellini, Giorgione fu superato da Tiziano la cui “Vita”, vivente l’artista, non comparve nella prima edizione; ma Tiziano e Sebastiano, i rappresentanti veneziani della maniera moderna, furono definiti “creati” di Giorgione. Il dipinto della Scuola di San Marco era considerato da Vasari il capolavoro di Giorgione […]. Ma le qualità che egli vi trovava non avevano niente a che vedere con i criteri che usavano i critici veneziani del Cinquecento, Marcantonio Michiel o Paolo Pino, prima di lui, Sansovino o Lodovico Dolce dopo di lui. […] La caratterizzazione di Giorgione nella prima edizione del Vasari si potrebbe definire basata più su un’idea generica di come sarebbero dovute essere le opere di primo Cinquecento della “maniera moderna”, piuttosto che su esempi specifici di Giorgione visti da lui stesso. Vasari citò, in generale, di Giorgione “alcune vivezze et tante altre cose morbide et unite sfumate talmente negli scuri”. (Tale citazione) non si accorda con quello che disse sugli affreschi di Giorgione nel Fondaco dei Tedeschi: questi, che probabilmente riuscì a vedere, erano “coloriti vivacissimamente”. Sempre nella prima edizione, Vasari non afferma in nessuna frase che Giorgione conobbe l’opera di Leonardo o fu in qualche modo influenzato da lui.295

Ma ecco l’elenco delle opere citate dal Vasari in questa prima edizione delle Vite:

1)«molte Madonne e ritratti». Ma egli ne cita solo uno: il ritratto del padre di Giovanni da Castelbolognese. 2) «Un dipinto (affresco) sulla facciata di Ca’ Soranzo, in piazza San Polo».

3) «Gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi».

4) «Una tela nella chiesa di S. Giovanni Crisostomo».

5) Una Tempesta presso la Scuola di San Marco, che descrive nel dettaglio.

6) Un «Cristo che porta la croce» nella chiesa di San Rocco.

La tela di S. Giovanni Crisostomo è giudicata dalla critica come un lavoro iniziato da Giorgione, ma terminato da Sebastiano del Piombo; la Tempesta di mare è oggigiorno attribuita a Palma il vecchio e Paris Bordon; per il Cristo che porta la croce di San Rocco, le attribuzioni oscillano tra Giorgione e Tiziano. Ciò che rimane certamente legato all’artista sono gli affreschi del Fondaco e quelli di Ca’ Soranzo; anche qui la certezza del suo lavoro si riduce all’ambito della pittura ad affresco.

«Se Giorgio Vasari si configura come propugnatore della maniera tosco-romana, Ludovico Dolce può ritenersi il difensore della maniera veneta. Il Dialogo della pittura intitolato l’Aretino, che egli pubblica nel 1557, costituisce la risposta polemica di Dolce alla prima edizione delle Vite di Vasari. Protagonista dell’opera è Michelangelo che discorre con lo scrittore, per evidenziare i limiti dell’arte e della “moralità”; dalla disamina critica difatti sortisce la superiorità, a ogni livello, di Tiziano, inventore della “nuova maniera” nel contesto della pittura cinquecentesca. Vi è un cenno di merito anche a Giorgione, che aveva indicato al Vecellio la corretta via da percorrere»296.

«Anche il Dolce conosce poche opere di Giorgione, il quale, egli dice, non ha fatto opere pubbliche a olio: “[…]perché Giorgione nel lavorare a olio non haveva ancora havuto lavoro pubblico”; egli accenna soltanto agli affreschi del Fondaco dei Tedeschi, poi, vagamente, a mezze figure e a ritratti: “[…] e perlopiù non

295 P

AUL HOLBERTON, La critica e la fortuna di Giorgione : il conflitto delle fonti, in La pittura nel Veneto, il Cinquecento III,

a cura di Mauro Lucco, Milano, Electa, 1999, pp 1015-1040, qui p. 1030.

296 C

65 faceva altre opere che meze figure e ritratti”. Descrivendo la pittura di Giorgione “[…]egli fece cose vivacissime e sfumate tanto”, mostra di comprendere la riforma tecnica di Giorgione. Neanche il Dolce poteva conoscere la massima parte della produzione giorgionesca, cioè l’attività sua per i privati collezionisti. Chi nella seconda metà del Cinquecento o nel secolo successivo voleva farsi un’idea di Giorgione, doveva ricorrere al Vasari ol al Dolce, cioè a due biografi che quasi non conoscevano opere di Giorgione, oppure dovevano ricorrere alla tradizione orale delle attribuzioni di quadri di raccolte private.[…] In queste condizioni si trovarono gli artisti e gli amatori d’arte del Seicento, quando si misero a studiare la pittura veneziana. Essi trovarono una tradizione ben assodata che faceva di Giorgione un grande, anzi l’iniziatore. Essi trovarono una moltitudine di opere che il desiderio dei proprietari attribuiva al maestro […] e aggrovigliarono la matassa sempre di più. Quando nel 1646 Carlo Ridolfi pubblicò una nuova vita di Giorgione, il numero delle opere era cresciuto a dismisura»297.

«Nella seconda edizione delle Vite, Vasari compie frattanto un nuovo viaggio a Venezia nel 1566. Nella nuova edizione la biografia giorgionesca si presenta arricchita di notizie di opere, ed emendata da taluni errori attributivi […]. Tra le matrici del linguaggio figurativo giorgionesco, ora Vasari vi individua l’esperienza leonardesca: “[…]aveva veduto Giorgione alcune cose di mano di Lionardo molto fumeggiate e cacciate, come si è detto, terribilmente di scuro: e questa maniera gli piacque tanto, che, mentre visse, sempre andò dietro a quella, e nel colorito a olio la imitò grandemente”. […] Nella biografia di Tiziano, troviamo l’annotazione critica di maggior interesse che riguarda Giorgione; è una pagina che si connota quasi come “manifesto” del privilegio che Vasari accorda alla scuola pittorica tosco-romana, fondata sul disegno, rispetto alla scuola veneta, fondata sul colore: Giorgione è identificato come primo responsabile dell ‘”errore” che ha guidato la pittura veneta, “[…]senza far disegno, tenendo per fermo che il dipingere solo con i colori stessi, senz’altro studio di disegnare in carta, fosse il vero e miglior modo di fare e il vero disegno”»298.

In quest’ultima edizione, pubblicata da Giunti nel 1568 «[…]Vasari cambiò l’attribuzione a numerosi dipinti, in risposta, dobbiamo presumere, alla quantità di informazioni che riuscì a ottenere (con il suo soggiorno a Venezia del 1566) dai suoi corrispondenti, in particolare dalle notizie ricevute da Tiziano e da Paris Bordon»299.

Secondo Enrico Guidoni300 quest’ultimo referente «[…]avrebbe saputo dare a Vasari informazioni tali da correggere così pesantemente il contenuto della prima versione della “Vita” di Giorgione. È evidente che il pittore trevigiano era ritenuto l’esperto ufficiale a cui rivolgersi e fu lui stesso a dimostrare la possibile sopravvivenza di una pittura che già andava fossilizzandosi come mito, rimanendo coerentemente fedele a

297 L

IONELLO VENTURI, Giorgione e il Giorgionismo, Milano, Hoepli, 1913, p. 16-18.

298C

ARPEGGIANI, La fortuna di Giorgione…cit., p. 279.

299

HOLBERTON, La critica…cit., p. 1030.

300 E

66 alcuni suoi canoni ritenuti distintivi»301. In questa sua pubblicazione, Guidoni giunge ad affermare che Paris Bordon sia figlio naturale di Giorgione, considerando l’ultima biografia vasariana riferita a Paris e l’inspiegabile ripresa di temi giorgioneschi da parte dello stesso, fino alle contraddizioni attributive tra la prima e la seconda stesura delle Vite riscontrate nella biografia di Giorgione. Un ulteriore aspetto a sostegno di questa tesi riguarda il tema pittorico sviluppato da Zorzi, riguardante la “nascita di Paris”. Che questa discendenza diretta sia stata tenuta nascosta, secondo Guidoni, ciò sarebbe successo dalla nascita al di fuori dei vincoli matrimoniali. Dieci anni dopo la pubblicazione di Guidoni, Ugo Soragni302 riprenderà l’ipotesi della paternità di Giorgione:

La conclusione più interessante cui siamo pervenuti risiede nel sostegno quasi documentale che l’opera assicura all’ipotesi che Giorgione fosse padre di Paris Bordon: un’eventualità che, grazie anche agli indizi di cui la piccola tela è disseminata letteralmente (“Resurrezione”, museo civico di Treviso), possiamo dare ora per altamente probabile se non certa del tutto […]. Come ha dedotto e sostenuto per primo Enrico Guidoni a conclusione dell’esame di una serie di concordanze biografiche e artistiche concatenate e stringenti, appoggiate anche alla decifrazione dei significati racchiusi in un’opera giorgionesca solitamente piuttosto trascurata (la “Nascita di Paris”, Budapest), interpretata dallo studioso come rivendicazione esplicita di Giorgione della paternità di Paris.303

Dalla seconda edizione delle Vite vasariane alla metà del Seicento sono assenti voci di rilievo nell’itinerario critico giorgionesco; Raffaello Borghini304 nel suo Il Riposo del 1584 si limita a compendiare Vasari, in chiave sciatta e trita.

Nel 1648, la pubblicazione delle Maraviglie dell’arte… di Carlo Ridolfi è stata fondamentale nel consolidamento del “mito” di Giorgione, dove largo spazio è riservato alla sua biografia.

Lo scrittore gli inventa più consone origini dalla nobile famiglia Barbarella di Castelfranco; anche la scena della morte muta: “[…]si racconta, che godendosi Giorgio in piaceri amorosi con tale donna da lui ardentemente amata, le fosse sviata di casa da Pietro Luzzo da Feltre detto Zarato suo Scolare, in mercé della buona educatione, & insegnamenti del cortese Maestro, perloche datosi in preda alla disperatione terminò di dolore la vita, non ritrovandosi altro rimedio alla infettatione amorosa, che la morte”. Questo è il nuovo personaggio che il Ridolfi propone; proprio con lui, il pittore di Castelfranco, sottratto alla dimensione oggettiva della storia, è consegnato alla fortuna del mito. D’ora in avanti il valore delle grandi collezioni troverà unità di misura, anche, nel numero delle opere giorgionesche, autografe o presunti tali; giusto per soddisfare le richieste pressanti di un mercato insistente, Pietro Della Vecchia, eclettico imitatore con vocazione di falsario, si darà a dipingere quadri alla maniera di Giorgione.305

Il “mito giogionesco” andrebbe a innestarsi all’interno di un «[…] apprezzamento critico dell’eredità (artistica) veneziana»306 oramai creatosi verso la fine del XVI secolo, sollecitato da una ulteriore fase avanzata nel collezionismo veneziano: l’alienazione, da parte dei patrizi veneziani, di alcune parti delle proprie collezioni d’arte ereditate dai nonni o dai bisnonni: «[…] I “nuovi ricchi” come Bartolomeo della Nave, furono capaci di creare possedimenti considerevoli con le opere di Tiziano e dei maestri del suo tempo e così, anche gli inglesi, attratti da ragioni politiche, religiose e commerciali, furono capaci di

301 G

UIDONI, Giorgione…cit., p.1.

302

UGO SORAGNI, Giorgione e il culto del sole, Saonara, il prato, 2009.

303 S

ORAGNI, Giorgione…cit., p. 68.

304 R

AFFAELLO BORGHINI, Il riposo..., Firenze, G. Marescotti, 1584.

305

CARPEGGIANI, La fortuna di Giorgione…cit., p. 279.

306 H

67 acquistare grandi quantità di capolavori del Cinquecento».307 Carlo Ridolfi, così come Marco Boschini assieme a Pietro Della Vecchia, che considereremo successivamente, riuscirono a “cavalcare” l’onda di un mercato artistico sempre più bramoso di reperire “meraviglie” per le collezioni private.

[…] (per quanto riguarda) Il collezionismo di dipinti, è evidente che esiste una differenza abissale tra le raccolte raffinate, di gusto aggiornato e cosmopolita, di un’Isabella d’Este o di un cardinale Grimani e quella del collezionista “medio”, a Venezia e altrove […]. Francesca Pitacco, ci ha presentato una ricerca di notevole sottigliezza sul collezionismo di dipinti alla fine del Cinquecento a Vicenza. La studiosa evidenzia uno scarto assoluto fra le attività in merito di un ristretto gruppo di virtuosi ben noti e studiati, come Giangiorgio Trissino, Valerio Belli o i Gualdo, e le micro raccolte della piccola nobiltà e della borghesia, dove il dipinto da cavalletto svolgeva un ruolo di qualche importanza, mentre le predilezioni più fastose della grande aristocrazia si orientavano piuttosto verso gli arazzi e le decorazioni ad affresco.308

A mano a mano che gli affreschi del Fondaco sbiadivano col tempo e dei quali Ridolfi lamentava l’imminente rovina, si delineava sempre più un nuovo profilo artistico di Giorgione, basato essenzialmente su ciò che il mercato gli attribuiva in fatto di genere e stile: « […] dalle pale d’altare ad altri dipinti di carattere religioso, da scene a soggetto mitologico e allegorico a bizzarri dipinti di soggetto comico»309. Nella “Vita” di Giorgione, «[…] Ridolfi dedica la maggior parte del tempo e dell’argomento a un dipinto che ora risulta perduto, le “Età dell’uomo”, già appartenente a una collezione genovese; Ridolfi indugia poi su un dipinto […] che Boschini considera come il compendio dei risultati raggiunti da Giorgione: quest’opera ancora una volta, è una mezza figura, conosciuta come il “Bravo”, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. […] Possiamo distinguere come le caratteristiche ritenute tipiche di Giorgione fossero essenzialmente le seguenti: un certo genere di figura maschile con un certo tipo di costume […]; vivacità, azione e violente emozioni»310.

Oltre a dipingere la breve esistenza di Giorgione con avvenimenti dal sapore spiccatamente romantico, Ridolfi gli attribuisce ben sessantacinque opere compresi gli affreschi tra cui, elaborando certe indicazioni di Vasari e di altre fonti stampate del secolo precedente, ritratti e “pseudo-ritratti” e figure monumentali piene di azione e di effetto espressivo. Oramai era passato quasi un secolo e mezzo dalla morte di Zorzi e ciò che si poteva vedere di certo dell’artista, erano ancora le sue opere in “esterna”; il resto della sua produzione di piccolo formato, apparteneva sempre a privati collezionisti e circolava tramite vendite, scambi e acquisti all’interno di ambienti esclusivi.

È solamente con la pubblicazione della “Notizia d’opere” nel 1800 e dall’inventario del cardinale Domenico Grimani redatto nel 1528, che la critica riuscirà a far luce sulla tipologia di ritratti che Giorgione dipingeva. Dall’Anonimo morelliano311 estraiamo:

307

Ibidem.

308 A

IKEMA, Collezionismi a Venezia…cit., p. 31.

309 A

IKEMA, Giorgione and the Seicento…cit., p. 65.

310

HOLBERTON, La critica…cit., p. 1021.

311 M

68

Pag. 58: la testa del San Giacomo con el bordon fu de man de Zorzi da Castelfranco, ovver de qualche suo discepolo, ritratta dal Cristo de S. Rocco.

Pag. 66: lo ritratto de esso M. Ieronimo armato, insino al cinto, e volta la testa, fu de mano de Zorzo da Castelfranco Pag. 66: El San Hieronimo insin al cinto, che legge, fu opera de Zorzo da Castelfranco

Pag. 73: il soldato armato insino al cinto, ma senza celada, fu de man de Zorzi da Castelfranco

Pag. 78: la pittura della testa del pastorello, che tiene in man un frutto, fu de man de Zorzi da Castelfranco. Pag. 79: La pittura della testa del garzone, che tiene in man la saetta, fu de man de Zorzi da Castelfranco.

Dall’inventario Grimani ci perviene l’autoritratto di Giorgione “in veste di David”, di cui si conserva una copia all’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig.

Forse “Il soldato armato insino al cinto, ma senza celada” potrebbe essere il “Doppio ritratto” o il “Ritratto di Cavaliere con scudiero” conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze, ma l’attribuzione è molto dibattuta. Comunque, se ne accettassimo l’attribuzione, dovremmo aggiungere il “Doppio ritratto” del Museo Nazionale di Palazzo di Venezia, a Roma, dove l’aspetto melanconico del personaggio in primo piano viene enfatizzato dal particolare del frutto che tiene in mano: un “melangolo”, una sorta di arancia dal sapore dolce e amaro, come l’amore. Sulla stessa linea stilistica poi, sarebbe concepibile inserire anche il “Ritratto d’uomo” di Budapest. Ma dalla descrizione dei ritratti visti dal Michiel, i due che sono attribuiti con più sicurezza a Giorgione sono il “Ragazzo con la freccia” del Kunsthistorisches Museum di Vienna, vestito “all’antica”, a cui sarebbe da affiancare il “Ritratto di giovane” della Pinacoteca Ambrosiana, probabilmente copia seicentesca di un originale perduto dell’artista, individuabile nella “testa del pastorello, che tiene in man un frutto”. Seguendo questa linea di stile, potremmo aggiungere il “Ritratto di giovane” di Berlino, la cui attribuzione è divisa tra Giorgione e il giovane Tiziano e il “Pastore con flauto” delle Collezioni Reali di Hampton Court.

Alla fine del quattrocento, la presenza di ritratti e pitture di artisti fiamminghi e tedeschi nelle collezioni veneziane (vedi la raccolta di Domenico Grimani inventariata nel 1521), non poteva non condizionare la produzione locale. Se la ritrattistica di Giovanni Bellini è condizionata da esempi antonelleschi e fiamminghi, così come quella di Alvise Vivarini, in cui i personaggi raffigurati venivano spogliati da ogni orpello simbolico, ve ne erano altri in cui il committente non rinunciava alla glorificazione del ruolo, dello “status” e dei valori a esso connessi. Sono i ritratti realizzati da Iacometto Veneziano, che fu attivo a Venezia nel 1480-95, in cui rileviamo una sintesi tra la pittura di Antonello da Messina e la pittura fiamminga. I suoi ritratti non rinunciano alla resa psicosomatica, in cui i minimi particolari vengono esaltati, ma trasferisce la figura ritratta entro una dimensione quasi astratta che si completa con delle figure metaforiche, talvolta dipinte sul retro del supporto. Altri maestri che arrivarono a Venezia, come Pietro Perugino e Andrea Solario, apportarono ulteriori novità di impianto nella ritrattistica, quali la presentazione frontale del soggetto ritratto fino a comprendere le mani e l’inserimento di particolari simbolici del ritrattato, non più al di fuori del dipinto ma all’interno di esso. Nei pochi ritratti che ci sono giunti di Giorgione, soprattutto in quelli descritti dal Michiel, il particolare simbolico viene arricchito dal “costume all’antica” di derivazione classica. Marcantonio Michiel, nel menzionare alcuni ritratti realizzati da Giovanni Bellini, ci informa che uno di questi era di Leonico Tomeo, filosofo e professore a Padova. Egli si era fatto ritrarre in gioventù in “abiti antichi”. Considerata la professione di Tomeo, il suo ritratto doveva somigliare a quei ritratti di umanisti [...] in cui le vesti in stile antico del soggetto in posa, vogliono suggerire l’idea di erudizione. Nel “Ritratto di Umanista” dell’Accademia Carrara di Bergamo, attribuito al Bellini, il soggetto indossa una tunica verde drappeggiata, scollata sul petto quel tanto da implicare l’idea di nudità

Documenti correlati