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NOTE PER UNA LETTURA INTERDISCIPLINARE

Flora Di Donato

SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Il contributo all’affective turn. 3. La de- americanizzazione del dibattito. 4. Emozioni ed errori. 5. Il ruolo della narra-

zione nella formazione del giurista.

Abstract

This contribution is a review of the book Il giudice emotivo. La de-

cisione tra ragione ed emozione by Antonio Forza, Giulia Menegon and

Rino Rumiati (2019) discussed within a round table hosted by the GTR 2019. The book is an important contribution for the scientific debate as it emphasises the positive role of emotions in knowing and in judg- ing. In so doing, it becomes part of a current trends on law and emo- tions and more in general of the affective turn as part of a contemporary effort to break down stereotypes about the division between rea- son/logic and emotion. Thanks to Damasio or Martha Nussbaum’s achievements, we are aware about the positive role of emotions in judg- ing. Emotions are propulsive forces, they have an epistemic role: they drive knowledge. To that extent, interdisciplinary legal education (mix- ing law, social sciences and narrative studies) could be a valuable tool for judges in order to prepare them for the performance of justice. They should be most aware of cognitive mechanisms, better trained in social interactions as indeed emotions arises in social relations. In fact, if the judge is an isolated man in his library (the Langdell model) this could be a real problem.

1. Introduzione

Il mio graditissimo benché non semplice compito, nell’ambito delle

Giornate tridentine di retorica, edizione 2019, è stato quello di com-

mentare il volume di Antonio Forza, Giulia Menegon e Rino Rumia- ti (2017) – Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione – partecipando ad una tavola rotonda che ha visto protagonisti, oltre a due degli autori (il prof. Rumiati e l’avv. Forza), anche il prof. Gaetano In- solera, esperto penalista presso l’Università di Bologna. Di questa gra- ditissima opportunità desidero ringraziare, ancora una volta, i colleghi, professori Maurizio Manzin e Federico Puppo e la collega, dottoressa Serena Tomasi.

È stato un vivo piacere leggere e commentare il volume che traduce in maniera densa e con scrittura leggera tutta l’esperienza degli Autori, di estrazioni disciplinari differenti: diritto, da un lato e scienze psicolo- giche e cognitive, dall’altro. A sottolinearne il valore è Francesco Mau- ro Iacoviello, autore della post-fazione che definisce il libro «agile, denso, intrigante come un romanzo dal finale non scontato. Esso ci dà alcune conferme e ci apre orizzonti nuovi» (p. 218 de Il giudice emoti-

vo).

La prima conferma e rassicurazione che il testo ci trasmette è che, al di là del fondamento razionale della decisione – vero o presunto che sia – il magistrato è un uomo che giudica altri uomini e come tale è orien- tato nel suo lavoro, da emozioni, come parti costitutive o propulsive del suo ragionamento (p. 16 ss. de Il giudice emotivo). Mi sembra allora che grazie a questo volume si possa salutare con serenità un nuovo sil- logismo: gli uomini sono dotati di ragione ed emozione, il giudice è un uomo e l’emozione è una componente del suo ragionamento. Questa componente emotiva è analizzata dagli Autori nelle sue connotazioni positive e negative. Quelle che Ennio Amodio definisce, nella prefazio- ne a sua firma, come «emotività devianti» ed «emotività virtuose» (p. 12 de Il giudice emotivo).

In generale, mi sento di affermare che questo volume contribuisce alla c.d. affective turn almeno in un duplice senso:

- valorizzando e riconoscendo la sfera affettiva come componente della dimensione cognitiva e dunque parte integrante del processo deci- sionale

- mettendo in guardia dai possibili errori e biases cui la componente affettiva può indurre nella presa di decisione.

Seguendo questa duplice traiettoria, proporrò alcuni commenti al volume muovendomi sul terreno della sociologia del diritto e più in generale delle humanities.

2. Il contributo all’affective turn

Rispetto al primo significato sopra evocato, vale a dire l’importanza di riconoscere la sfera affettiva come componente necessaria ed utile del ragionamento cognitivo e più in generale del processo decisionale, questo testo fornisce un contributo importante perché, come scrivevo prima tra le righe, esso prova a smantellare un tabù, uno stereotipo, una pretesa, quella che il magistrato sia obiettivo e imparziale – non solo per le caratteristiche intrinseche che la sua funzione gli attribuisce – ma per la pretesa razionalista, a lungo dominante, che egli sia immune da emozioni, personalismi, soggettivismi e probabilmente isolato dal con- testo. Una specie di «cerveau sans émotions» – per dirla con certi allie- vi di Piaget, che criticavano il modello de «l’enfant épistémique» che il loro maestro andava descrivendo1.

Oggi, grazie all’interpretative turn, grazie al culturalismo, ed alle ri- voluzioni epistemologiche degli anni 1960-1970, sappiamo che l’ogget- tività – sempre che essa sia il parametro di riferimento adeguato al pro- cesso – è il frutto del lavoro di scoperta dell’inquirente e non uno stato di fatto definito a priori2. È quanto dimostrano, per esempio, Latour e

Woolgar, nel loro volume Laboratory Life, analizzando il lavoro che gli scienziati fanno per dimostrare la scientificità della scoperta, ascriven-

1 Fui colpita da quest’espressione impiegata da Anne-Nelly Perret-Clermont, allieva

di punta della scuola piagetiana, nel corso di psicologia che ebbi il piacere di seguire presso l’Università di Neuchâtel, nella primavera del 2002.

2 Si veda su questo punto A. PAPAUX, Introduction à la philosophie du “droit en si-

dola ad una determinata categoria di fatti, attraverso un lavoro di cita- zione di articoli che riguardano scoperte simili, proprio come fanno i magistrati per ascrivere i fatti del caso ad una fattispecie astratta ri- chiamando casi analoghi3.

Ebbene, il giudice – come lo scienziato –, nel suo lavoro di scoperta, si avvale ragionevolmente di una logica induttiva, basata sulle osserva- zioni ma pur sempre guidata dall’intuizione che permette di connettere azioni, luoghi e personaggi, sempre che non si tratti di «causalità illuso- ria» (p. 76 de Il giudice emotivo). L’intuizione è mossa, a sua volta, dal bagaglio di conoscenze, categorie, valori che ciascuno possiede. La ric- chezza e la diversità di queste variabili fanno sì che le decisioni siano potenzialmente diverse a seconda di chi sia il giudice – un uomo in car- ne ed ossa, calato in un contesto, super partes per definizione, ma il cui operato non è astratto.

«Prima del diritto c’è la realtà», scrive ancora Iacoviello nella post- fazione (p. 218 de Il giudice emotivo). Un giudice equo non può non tener conto della realtà, del contesto che lo circonda. Perché dovremmo sorprenderci se nel caso di Noemi4, la bambina napoletana ferita per

errore da un killer della camorra, circa un anno fa, gli inquirenti abbia- no agito con rapidità catturando immediatamente il reo, rendendo giu- stizia alla bimba, alla famiglia ed alla morale sociale che giudicava in- degno il misfatto? Vuol dire che ci sono fatti che, a torto o a ragione, colpiscono più di altri diversificando anche le reazioni degli inquirenti, inasprendo la pena se occorre. È una constatazione che Lanza (giudice di merito e legittimità), citato dagli autori a p. 74 de Il giudice emotivo, esprime in questi termini:

il senso di disprezzo e di disgusto che può determinare un fatto illecito grave, obiettivamente rivoltante, è sicuramente – ceteris paribus – un motivo di rafforzamento degli sforzi nella ricerca della responsabilità dell’autore […].

3 Si tratta del volume B. LATOUR, S. WOOLGAR, Laboratory Life, Beverly Hills,

1979.

4 https://napoli.repubblica.it/cronaca/2019/05/20/news/sparatoria_a_napoli_sciolt

Ed ancora, il giudicante – scrive Lanza – «reagisce in modo coscien- te di fronte alla gravità dell’imputazione, alla qualità dell’imputato o della vittima, all’interesse dei media sui risultati del processo» (ibid.).

Le emozioni suscitate dalla vicenda umana non riguardano solo gli organi inquirenti ma colpiscono anche i magistrati di Cassazione (p. 88 de Il giudice emotivo). Forse perché, ipotizzano gli Autori, la distanza dai fatti cede maggior spazio alle emozioni ed alla compassione. Questo spiega perché molte volte abbiamo l’impressione che la Cassazione intervenga a mettere ordine nella soluzione di casi, laddove in primo o secondo grado, si è fatta confusione non solo nell’analizzare i fatti ma anche talora nell’interpretare le norme.

«Le emozioni ci predispongo alle azioni», scrivono ancora gli Auto- ri (p. 58 de Il giudice emotivo). Le emozioni sono «parte costitutiva del ragionamento etico», scrive Nussbaum – tra le principali artefici della c.d. svolta affettiva – nel volume L’intelligenza delle emozioni (2009):

Invece di vedere la moralità come un sistema di principi che può essere colto dal freddo intelletto, e le emozioni come le motivazioni che favo- riscono e sovvertono la nostra decisione […] dovremmo considerarle come parte costitutiva del ragionamento etico (p. 18).

Ed ancora:

Se pensiamo alle emozioni come a elementi essenziali dell’intelligenza umana […], ciò ci fornirà ragioni particolarmente forti per promuovere le condizioni del benessere emotivo in una cultura politica: perché […] senza lo sviluppo emotivo, una parte della nostra capacità di ragionare come creature politiche risulterà mancante (p. 20).

Lasciando da parte le emozioni – guida e sovvertimento dei nostri processi decisionali – ignoreremmo dunque una parte rilevante del pen- siero etico. Sia la Nussbaum che gli autori, richiamano le ricerche ben note di Damasio (2005) che ha provato a dimostrare come la pretesa distinzione cartesiana emozione/ragione sia fuorviante. Le emozioni sono forme di consapevolezza intelligente. Esse non contaminano il pensiero razionale come aveva affermato Cartesio (e ancora prima Pla- tone) ma assolvono ad una funzione cognitiva insostituibile: «I senti- menti, insieme con le emozioni da cui provengono, non sono un lusso:

essi servono come guide interne, ci aiutano a comunicare agli altri si- gnificati che possono guidare anche loro […]» (Damasio, 2005, pp. 22- 23, cit. p. 46 de Il giudice emotivo). In questo senso le emozioni posso- no avere un ruolo epistemico fondamentale perché ci guidano nella co- noscenza.

Che le emozioni svolgano un ruolo di guida cognitiva lo afferma an- che David Sander che dirige il Centro interfacoltà di scienze affettive presso l’università di Ginevra, prodotto dal polo di ricerca nazionale dal titolo «Le emozioni nel comportamento individuale e i processi socia- li»5. In una intervista rilasciata per la rivista Horizons edita dal Fondo

Nazionale Svizzero della Ricerca Scientifica, nel 2019, Sanders dice: «Oggi sappiamo che delle zone del cervello riservate a delle funzioni cognitive superiori sono fortemente influenzate dalle emozioni»6, il che

è positivo perché le emozioni supportano la presa di decisione. Si tratta di un riconoscimento importante dal momento che proviene da un Pae- se quale la Svizzera, dove domina un certo orientamento positivista e cognitivista, a dispetto delle affective e cultural turns.

Il problema tuttavia, fanno notare Forza, Menegon e Rumiati, non sta a valle ma a monte della presa di decisione, in quelle dinamiche psi- cologiche – cognitive, relazionali e sistemiche – che hanno a che fare con il «come la sentenza si fa» (p. 32 de Il giudice emotivo). A que- st’ultima categoria si ascrive la ricerca degli autori, che si differenzia dalla maggior parte degli studi esistenti in materia che hanno a che fare con il «come la sentenza è fatta». In questo senso, il loro lavoro non è di tipo prescrittivo né tende ad un modello ideale ma apre a delle piste di ragionamento alternative, allargando il dibattito alle neuroscienze, alla psicologia cognitiva, agli studi sulle narrazioni, auspicando che alcuni degli aspetti esaminati – parte del corredo decisionale del giudice – vengano presi in conto nella formazione del magistrato (p. 32 Il giu-

dice emotivo).

5 https://www.unige.ch/cisa/.

6 https://www.revue-horizons.ch/wp-content/uploads/sites/2/2019/03/Horizons_120

3. La de-americanizzazione del dibattito

Un altro aspetto che mi preme mettere in luce di questo lavoro è che gli autori contribuiscono, probabilmente per scelta, a de-americanizzare il dibattito. In generale, gli studi sul funzionamento delle Corti e sulla presa di decisione sono di matrice americana. A parte gli studi pioneri- stici di Jerome Frank (1949) sul c.d. fact-skepticism e l’irrazionalità delle decisioni, vorrei ricordare le indagini sull’etnografia del discorso legale di Conley & O’ Barr (1990); gli studi sullo storytelling nei pro- cedimenti penali di Pennington & Hastie (1991)7 (citati appunto dagli

autori); gli studi più recente di Berger e Stanchi (2018)8 su retorica e

storytelling, etc.

Forza, Menegon e Rumiati, oltre a considerare molte di queste ricer- che, riportano alla luce anche lavori di studiosi italiani, come quelli di Altavilla (1948)9, uno dei padri fondatori della psicologia giuridica che

già nella prima parte del secolo scorso riconosceva uno spazio impor- tante ai «fattori soggettivi» nel processo formativo del convincimento del giudice (p. 32 de Il giudice emotivo); oppure di Cavallo che definiva la «motivazione come una razionalizzazione a posteriori dell’atto di in- tuizione nel quale egli vedeva l’essenza della decisione» (1936, cit. p. 33 de Il giudice emotivo)10.

Intuizioni e concezioni queste che ritroviamo enfatizzate, più o me- no nello stesso periodo, nello scetticismo di Frank (op. cit.: pp. 23-24), per il quale i fatti sono guesses (indovinati) o comunque “made” (fat- ti)11, sulla base di testimonianze che rischiano di essere “fallibili” (per-

ché i testimoni potrebbero non aver visto o udito bene o potrebbero ri- cordare male, etc.). Le conclusioni dei giudici sarebbero unicamente il risultato di fattori psicologici, morali, politici ed economici (citato a p. 123 de Il giudice emotivo). Ebbene, senza abbracciare de plano con-

7 N. PENNINGTON, R. HASTIE, A Cognitive Theory of Juror Decision Making: The

Story Model, in Cardozo Law Review, 13, 1991, pp. 519-557.

8 L. BERGER, K.M. STANCHI, Legal Persuasion. A Rhetorical Approach to the Sci-

ence, London-New York, 2018.

9 E. ALTAVILLA, Psicologia giudiziaria, III ed., Torino, 1948. 10 V. CAVALLO, La sentenza penale, Napoli, 1936.

cezioni estreme alla Frank, questo libro ci invita a considerare che «va- riabili estranee alle questioni tecnico-giuridiche possono influenzare il processo decisorio anche in giudici professionali di lunga esperienza» (ibid., p. 126).

Infine, pur riconoscendo il giusto valore al principio del c.d. libero convincimento del giudice, gli Autori puntualizzano l’obbligo giuridico oltre che la necessità che vengano argomentate le scelte giudiziarie at- traverso un percorso credibile e plausibile non solo per i destinatari del- la decisione ma per la collettività in generale: «Fatto e diritto – scrivono gli autori – devono trovare il loro punto di incontro nella struttura logi- ca della decisione che dovrà poi essere esplicitata nella motivazione» (ibid. p. 31). Qui gioca un ruolo importante l’argomentazione: è nell’ar- gomentazione ragionevole che risiedono le premesse per una legittima- zione interna ed esterna dell’operato del giudice (Abignente, 2017). Ciò che gli Autori definiscono anche come «razionalità argomentativa» (p. 22 de Il giudice emotivo).

4. Emozioni ed errori

Vengo dunque alla seconda parte della mia analisi ed al secondo si- gnificato evocato in partenza, circa i possibili errori cui la componente affettiva può indurre nella presa di decisione. Forza, Menegon e Rumia- ti mettono in guardia dalle ingenuità cui ci possono indurre le nostre emozioni, dal rischio di fare della psicologia c.d. ingenua, emettendo giudizi, deduzioni, interpretazioni, per esempio, del comportamento di chi sta accanto a noi, sulla base del suo aspetto fisico, estetico. Trattasi di giudizi tendenzialmente appoggiati alla nostra esperienza e alla no- stra quotidiana attitudine all’interpretazione non sempre fondata su competenze in senso stretto (p. 93 ss. de Il giudice emotivo). Secondo gli Autori, rientrano in questo ambito le c.d. massime di esperienza che vanno pur sempre adeguate a conoscenze scientifiche.

Non va poi di certo sottovalutato il ruolo delle categorie (non solo sociali ma anche giuridiche) che – come insegnano Amsterdam & Bru- ner (2000) – assolvono ad una funzione oltre che pratica anche di eco- nomia mentale perché ci permettono di descrivere la realtà senza dover

evocare ogni volta informazioni rilevanti (p. 109 de Il giudice emoti-

vo). Pensate alla categoria di “elettore” oppure di “persona maggiore di

età” che ci consentono di individuare immediatamente chi è titolare o meno di certi diritti tagliando fuori informazioni superflue. Vero è che talora le categorie rendono difficile l’inclusione: pensiamo alle catego- rie di straniero/cittadino, per esempio12.

Insomma il rischio di adottare scorciatoie mentali esiste. Gli Autori ci mettono in guardia dalla c.d. tunnel vision (p. 141 ss., p. 147 de Il

giudice emotivo) che canalizza immediatamente l’attenzione del giudice

verso un’ipotesi che magari si rivela poi non corretta, escludendone altre e facendoci saltare a delle conclusioni non giuste ma giustificate

ex post, come accade specialmente nel processo penale, dove giocano

un ruolo fondamentale le indagini nelle prime fasi investigative. Lo sappiamo da casi di cronaca, come l’omicidio di Meredith Kercher, la strage di Elba, il delitto di Cogne e per finire il caso Tortora, dove il pubblico ministero aveva fondato l’accusa sulle dichiarazioni di pentiti, poi rivelatesi infondate. Si trattava di processi mediatici, dove l’influen- za dell’opinione pubblica ha probabilmente avuto un impatto sullo svolgimento del processo stesso.

Nel trattare tutte queste tematiche differenti, questo libro ci mette in guardia da alcuni dei rischi che sono collegati alla presa di decisione (per esempio l’eccessiva fiducia nella propria esperienza di magistrato) invitando il lettore ad una presa di coscienza ed insistendo sull’impor- tanza di una formazione del giudice che miri all’acquisizione di consa- pevolezze che vanno al di là dei tecnicismi giuridici. Competenze che riguardano il modo di funzionare della mente umana, i meccanismi co- gnitivi ed emotivi che concorrono consapevolmente ed inconsapevol- mente alla presa di decisione, come il modo di funzionare della memo- ria, l’immagazzinamento dei dati, etc. (p. 18 de Il giudice emotivo).

12 Sul punto rinvio alle critiche di L. FERRAJOLI, Iura paria. I fondamenti della de-

5. Il ruolo della narrazione nella formazione del giurista

Mi avvio alla conclusione di questa breve analisi soffermandomi sul tema della formazione del giurista e collegandolo all’ultimo capitolo del volume – Decidere per storie – dedicato al tema della narrazione nel processo. Colgo l’occasione per fare delle precisazioni, nel tentativo di sgombrare il campo da qualche stereotipo che pure circola su questa tematica.

Il processo è celebrazione, è rappresentazione, scrivono gli Autori: nella rappresentazione, a seconda del tipo di processo (civile/penale), gli attori svolgono diversi ruoli. La messa in forma della realtà nel pro- cesso prende la forma di narrazioni, linguistiche o anche visive13. Che i

fatti, la realtà si ri-costruiscano nel processo è ormai un dato acclara- to. Neanche i più scettici o i realisti più ingenui credo osino mettere in discussione questa acquisizione che poggia su teorie costruttiviste di varia estrazione disciplinare. Il processo può solo «tendere alla verità» – come ideale regolativo – per dirla con Taruffo (2009). Esistono una serie di artifici e rituali (presunzioni, prescrizioni) che fanno da filtro facendo sì che la ri-costruzione dei fatti sia canalizzata, costretta, orien- tata (Ferrari, 2008). Il giudice decide, nella maggior parte dei casi, su frammenti di realtà, selezionati, ri-costruiti e modellati dalle parti nelle varie fasi del giudizio (Di Donato, 2008, 2020).

La «narrazione non è innocente» (Bruner, 2002): l’autore di un rac- conto ha sempre una finalità performativa, a maggior ragione in un con- testo come quello processuale dove l’obiettivo è mostrare la fondatezza delle proprie ragioni e sconfiggere l’altra parte. Lo avevano intuito Pennington e Hastie (1991) ipotizzando che i giurati nel formulare un verdetto seguono lo story model, interpretando i fatti e mettendo in re- lazione causali dati a disposizione, dando un ordine ai fatti (p. 199 de Il

giudice emotivo).

13 Esistono degli studi interessanti di Richard Sherwin su come i video, i filmati, le

immagini vengano impiegati per costruire i fatti, persuadere i giudici, i giurati ovvia- mente con i limiti imposti dal singolo sistema processuale. Si veda, per esempio,

R. SHERWIN, Visualizing Law in the Age of the Digital Baroque: Arabesques and &

«Vince la narrazione migliore?»14. Sì, quella più coerente, più credi-

bile e verosimile oltre che più probabile, perché appoggiata su dati pro- batori che – per dirla con Taruffo (op. cit.) – hanno raggiunto il mag- gior grado di conferma logica.

Ci sono dimostrazioni evidenti e attuali di quanto questa dimensione narrativa sia pervasiva nel processo. Penso ad alcune disposizioni di legge che ci permettono di constatare che la narrazione di fatto sia pe- netrata nel nostro tessuto legislativo fino a divenire parametro per una