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Il giudizio di Rita Kramer su Montessori e il fascismo

Nel documento View of Vol. 6 No. 2 (2019) (pagine 148-155)

Il giudizio storiografico su Maria Montessori è passato attraverso almeno due fasi di messa a punto e di ripensamento critico. Subito dopo la sua morte, Maria Montessori fu oggetto di una sorta di “idealizzazione” alquanto restia a soffermarsi sulle “ombre” e sulle contraddizioni presenti nella sua opera; successivamente, fino ai tempi più recenti, le ricerche si sono concentrate soprattutto su quegli aspetti “imbarazzanti”; probabilmente, si può dire che sia tuttora valido il giudizio di R. Kramer sulle vicinan- ze “strumentali” di Maria Montessori allo stesso Mussolini, inquadrando l’adozione di una terminologia “razzista” nel montessorismo italiano dell’epoca come caso em- blematico di un’atmosfera culturale diffusa nell’Italia fascista, segnata dalla debolezza e dall’incapacità/impossibilità di sottrarsi all’ideologia di regime anche da parte di chi non era convintamente fascista. Su questa debolezza e incapacità poterono diffondersi atteggiamenti razzisti sempre più marcati e gli stessi provvedimenti antiebraici (e non solo) delle leggi razziali.

Kramer dedica ampio spazio all’analisi del contesto complessivo in cui si venne a consolidare il legame simpatetico tra gli intellettuali italiani e il fascismo. A Maria Montessori sembrò come se il cambiamento di governo in Italia potesse significare la possibilità di una nuova vita per il movimento Montessori in Italia. Oggi è difficile capire come tanti intellettuali italiani avessero potuto credere nel genere di cambia- menti che speravano potesse avvenire grazie a un governo come quello di Mussolini, totalitario, estremamente nazionalistico e militarista, guidato da un uomo che poteva dire orgogliosamente che il suo partito aveva “seppellito il corpo putrido della liber- tà”; tuttavia, fin dall’inizio Mussolini fu in grado di portare gli intellettuali dalla sua parte, incluso Gentile, che cominciò ben presto a impegnarsi in una giustificazione filosofica del regime.

Maria Montessori aveva sempre sostenuto di essere “apolitica” e che la causa del bambino superasse ogni distinzione effimera di partito. Oggi quell’atteggiamento sembra incoerente (anche agli occhi della sua principale biografa – cfr. Kramer 1988, 327-329), ma dopo tanti dispiaceri e con un interesse reale alla politica così limitato, rispetto a quello per il movimento al quale si era dedicata interamente, secondo Kra- mer, trovò possibile “credere quello che voleva credere”, vale a dire di poter lavorare con il regime e, forse, anche di esercitare un’influenza positiva. Ciò che cercava era un laboratorio; ciò che avrebbe potuto realizzare in esso era, secondo lei, un migliora- mento della società attraverso la crescita dei suoi bambini (Kramer 1988, 281).

Montessori aveva l’intenzione di sfruttare i vantaggi che solo il governo ufficiale avrebbe potuto renderle praticabili nella speranza di raggiungere i suoi fini, mentre Mussolini avrebbe potuto sfruttare due vantaggi che pensava la Montessori gli avreb- be portato in contraccambio: uno era l’enfasi sull’ordine, che egli vedeva come un aiuto per creare un gruppo docile di cittadini per lo Stato fascista; l’altro il prestigio internazionale che vedeva nel fatto che il nome della Montessori appoggiava quello Stato fascista da lui guidato (Kramer 1988, 302-303).

Solo nei primi anni Trenta la situazione cambiò. Il governo non voleva più lasciare che la Montessori determinasse da sola ciò che doveva accadere nelle scuole forni- tele dallo Stato. Mussolini aveva organizzato la gioventù italiana nei ranghi fascisti dei “Figli della Lupa”, stabilendo che avrebbero dovuto indossare le loro uniformi a scuola e impiegare il saluto fascista in classe. Eppure, la Montessori chiuse gli occhi. Cambiarono, quando vide limitato il suo raggio d’azione personale e, in poco tempo, i rapporti con Mussolini e il regime si deteriorarono al punto che le scuole Montessori cessarono di esistere in Italia “da un giorno con l’altro” (Kramer 1988, 326-327).

Secondo una testimone diretta di quegli anni, Margaret Homfray, Maria Montes- sori era “completamente apolitica”. Montessori era tornata in Italia su invito di Mus- solini, perché l’Italia era la sua nazione; l’Italia era il luogo dei suoi sentimenti e delle sue origini. Nella misura in cui poteva pensare in questo modo, Maria Montessori sperava che la sua influenza fosse liberatoria per i bambini e per i genitori (Kramer 1988, 327-328).

Rita Kramer si chiede a lungo nel suo libro, le ragioni dello strano e ambiguo rapporto di Maria Montessori con il regime fascista e con Mussolini in particolare, sottolineando che, in fondo, rimase dalla sua parte anche dopo il 1931, l’anno del giuramento di fedeltà al fascismo imposto a tutti gli insegnanti; Montessori insistette sempre solo nell’essere l’arbitro, l’unica autorità, sulle cui idee il movimento delle scuole che portavano il nome Montessori doveva improntare le proprie pratiche. A qualsiasi governo che si intromettesse, volendole imporre come le cose dovessero an- dare nelle sue scuole (si trattasse dei radicali della Catalogna o dei fascisti in Italia), Montessori si sarebbe opposta, non necessariamente per motivi politici, ma per motivi pedagogici, educativi; e non necessariamente perché Maria non potesse vivere nel modo in cui intendevano guidare le loro nazioni, ma perché soltanto lei avrebbe do- vuto determinare il modo di condurre le sue scuole.

Kramer ricorda anche la risposta data ad un giornalista, sul finire del 1930, in cui Montessori dichiarò di non dipendere da alcun partito politico esistente; e, infatti, pensò sempre di sé come rappresentante di un’idea che trascendeva la politica, forse perdendo di vista il fatto che un’idea può essere realizzata solo nel contesto di una specifica realtà. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1947 in India, divenuta ormai una celebrità mondiale, Montessori poté permettersi anche di sostenere esplicitamen- te, per ribadire la sua indipendenza da qualsiasi credo ed organizzazione ideologica e politica, di essere lei stessa una “montessoriana” (Kramer 1976, 355).

Il giudizio di Kramer è ancora oggi sostanzialmente valido, quando sostiene che Ma- ria Montessori non si oppose al regime, fino a quando non cominciò a percepire inter-

ferenze nelle sue attività personali (Kramer 1988, 329-330). Kramer conclude il suo am- pio studio, ancora oggi il più documentato sulla vita di Maria Montessori, ricordando che il valore della sua opera si misura dall’efficacia del metodo e dalla bellezza della sua visione dell’uomo e della formazione, quasi distinguendo il “messaggio” dalle debolez- ze umane di Montessori stessa e dalle chiusure mentali di molti suoi seguaci, messe in discussione anche da John J. McDermott nella sua importante introduzione alla secon- da edizione della monografia di E.M. Standing, uno degli strumenti più efficaci della diffusione del montessorismo dopo la morte della fondatrice (Mc Dermott 1984).

Nel caso specifico del rapporto con il fascismo e dell’adozione di espressioni tipi- che della cultura fascista, in particolare delle tendenze razziste insite in questa con- cezione totalitaria dello Stato e della società, è possibile, di conseguenza, considerare la posizione ambigua di Maria Montessori, con i suoi cedimenti e la propensione al compromesso, se non alla collaborazione, come uno degli aspetti negativi della sua vita e operosità, senza doverli negare o minimizzare, specchio di un consenso al regi- me che fu ampio anche tra gli intellettuali, nel caso di Maria Montessori fino al punto di ammettere l’adeguamento del suo metodo stesso alle finalità del regime, anche per quanto riguarda la retorica “preservazione” della purezza attraverso la “politica de- mografica” fascista.

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IN SEPARATE CLASSES. THE ESTABLISHMENT OF THE JEWISH SCHOOL IN THE PAPERS OF THE ARCHIVES OF THE JEWISH COMMUNITY

OF MODENA

IN CLASSI SEPARATE. L’ISTITUZIONE DELLA SCUOLA EBRAICA NELLE CARTE DELL’ARCHIVIO DELLA COMUNITÀ EBRAICA

DI MODENA

In 1938 Modena hosted one of the main Jewish communities in Emilia Romagna, and Jewishs were unexpect- edly hit by racial laws after years of integration and rich cultural exchange with the city. There were also many children and young people who, at the end of the 1930s, attended the city’s schools and who were suddenly removed from the classrooms and deprived of the possibility of continuing to study with their classmates in September 1938.

In the archive of the local Jewish community are preserved the papers that reconstruct the constitution of the classes, both through the requests of the pupils suddenly expelled and through the applications for employment that came from Jewish teachers from all over Italy. The correspondence with the superintendence and with the local institutions allows us to understand the effort and commitment that the community faced in order to give life to classes that were as similar as possible to those that the regime had just dismembered.

The search for suitable premises, the structuring of the programmes, the choice of personnel and the bureau- cracy faced by the community, which was called upon to quickly rebuild an apparent normality for its children, allow us to understand the impact that expulsion from the school system had on the spread and affirmation of racial persecution.

Modena thus becomes an interesting case study to analyze the upheaval of the educational system that racial laws have imposed on Jewish students and teachers, but also to highlight the ability of reaction of victims, and Jewish institutions in general, which in a short time have given rise to a “parallel” school system.

The correspondence of the time, kept in the archives of the community and escaped the persecutory raid, is still an unexplored source to reconstruct the months that followed the introduction of racial legislation. Through exchanges and communications between local and national political and educational institutions, it is possible to study the impact that legislation had on the Jewish component of school and education, but also on the lives of children, teachers and their families, suddenly forced to change their lives and future prospects.

Gli ebrei residenti nel 1938 a Modena, sede di una delle principali comunità ebraiche dell’Emilia Ro- magna e del nord Italia, sono stati colpiti inaspettatamente dopo anni di integrazione e di ricco scambio culturale con la città. Tanti erano anche i bambini e i ragazzi che, sul finire degli anni Trenta, frequenta- vano le scuole cittadine e che nel settembre del 1938 furono allontanati di colpo dalle aule, e privati della possibilità di continuare a studiare con i compagni.

Nell’archivio della locale comunità ebraica sono conservate le carte che ricostruiscono la costituzione delle classi, sia attraverso le richieste degli scolari improvvisamente espulsi sia attraverso le domande di assunzione che arrivarono da docenti ebrei di tutta Italia. Il fitto carteggio con il provveditorato e con le istituzioni locali permette di comprendere lo sforzo e l’impegno che la comunità affrontò per dare vita internamente a classi che fossero il più possibile simili a quelle che il regime aveva appena smembrato. La ricerca dei locali adatti, la strutturazione dei programmi, la scelta del personale e le peripezie buro- cratiche che dovette affrontare la Comunità, chiamata a ricostruire in fretta un’apparente normalità per i propri ragazzi, permettono di comprendere l’impatto profondo che l’espulsione dal sistema scolastico

Rivista di storia dell’educazione, 2/2019, pp. 153-172 Corresponding author:

ISSN2384-8294 – doi.org/10.4454/rse.v6i2.222 Giulia Dodi, giulia.dodi@libero.it (Università di Bologna)

ha avuto nella diffusione e nell’affermazione della persecuzione razziale.

Modena diventa così un caso di studio interessante per analizzare lo stravolgimento del sistema educativo che le leggi razziali hanno imposto agli studenti ed ai docenti ebrei, ma anche per mettere in luce la ca- pacità di reazione delle vittime, e delle istituzioni ebraiche in genere, che in poco tempo hanno dato vita ad un sistema scolastico “parallelo”.

I carteggi dell’epoca, conservati presso l’archivio della comunità e scampati alla razzia persecutoria, sono una fonte ancora inesplorata per ricostruire i mesi che seguirono l’introduzione della normativa razzia- le. Attraverso gli scambi e le comunicazioni tra gli enti politici e scolastici locali e nazionali è possibile studiare l’impatto che la legislazione ebbe sulla componente ebraica del mondo della scuola e dell’edu- cazione, ma anche sulla vita dei ragazzi, degli insegnanti e delle loro famiglie, improvvisamente costretti a stravolgere la propria vita e le proprie prospettive future.

Key words: Jewish school; anti-Semitism, racial laws; Jewish community of Modena.

Parole chiave: Scuola ebraica; antisemitismo; leggi razziali; comunità ebraica di Modena.

Gli ebrei a Modena, una storia secolare

La presenza ebraica in Emilia-Romagna affonda le sue radici nei secoli e si com- pone di ebrei del ceppo italiano, ai quali nel corso del tempo si sono uniti ebrei pro- venienti dal centro Europa e dalla Spagna, dando vita a comunità in cui si sono in- trecciate storie, tradizioni e riti in un caleidoscopio unico. Arrivati nel territorio di Modena a seguito della famiglia d’Este, gli ebrei ne hanno attraversato e scandito tutta la permanenza alla guida del ducato, partecipando poi ai moti risorgimentali di metà Ottocento e continuando a vivere in città dopo l’unificazione d’Italia (Papouchado 2007). Tuttavia nel corso del tempo la presenza degli ebrei nel territorio modenese si è sempre più assottigliata, passando dai circa 1.200 presenti intorno al 1850 alle poche centinaia che vi vivevano negli anni Trenta del Novecento; una situazione in linea con i mutamenti demografici e sociali che all’inizio del XX secolo spinsero gli ebrei italiani a trasferirsi nei maggiori centri economici del paese, dopo secoli vissuti dentro ai ghetti e limitati tanto negli spostamenti quanto nelle attività (Della Pergola 1976).

Sul finire del 1938, quindi, erano presenti circa 120 le famiglie ebraiche, vale a dire poco meno di 300 persone molto ben integrate nella vita economica e sociale della cit- tà, come dimostrava il fatto che alcuni tra loro avessero ricoperto importanti cariche politiche, fossero stati amministratori locali e fondatori di istituti di credito. Dal punto di vista culturale si trattava di una comunità piuttosto viva e vivace, in cui operavano templi di rito diverso, si organizzavano periodicamente corsi di lingua ebraica e lezio- ni di cultura generale erano tenute direttamente dal rabbino capo, rav. Levi (Fishman 2019, p. 85).

Si può affermare con certezza che costoro si pensavano e si definivano italiani, modenesi, certamente anche ebrei ma senza che ciò significasse nulla più che un’ap- partenenza religiosa e culturale fra le altre presenti in Italia, minoritaria ma non per questo di minore importanza, né sentita come conflittuale, o peggio pericolosa, per l’identità nazionale. Come per la gran parte degli ebrei italiani anche a Modena non c’era il sentore di quel che stava per accadere: la fiducia nella famiglia reale era for-

te e incondizionata, Mussolini non aveva mai dato prova di sentimenti apertamente antisemiti e non vi erano segnali che facessero pensare all’inizio imminente di una persecuzione senza precedenti.

Tutto ciò contribuì a rendere ancora più spaesati gli ebrei nel settembre del 1938, completamente impreparati all’emanazione dei provvedimenti che dapprima obbli- garono gli ebrei stranieri e tutti coloro che avevano acquisito la cittadinanza italiana dopo il 1919 a lasciare il paese, poi si rivolsero direttamente agli ebrei italiani, sconvol- gendone la vita e la quotidianità. La scuola diventò il primo laboratorio per sperimen- tare la discriminazione e l’allontanamento di tutti i sudditi ebrei, un provvedimento tanto improvviso quanto irrevocabile che colse di sorpresa e lasciò sgomento chi ne fu colpito. Fu tra i primi colpi di una politica che rapidamente portò all’emanazione di una serie di provvedimenti che cancellarono gli ebrei italiani da ogni ambito sociale, politico ed economico; lasciati soli ad affrontare la legislazione razzista dello stato, diventato improvvisamente nemico, e circondati dall’indifferenza di tanti amici e col- leghi, che accettarono passivamente l’ideologia della razza, non di rado giovandosi delle sue conseguenze pratiche.

Allo sbalordimento generale seguirono notizie confuse e contradditorie che, non di meno, contribuirono ad alimentare speranze ed illusioni di tanti ebrei modenesi, convinti che sarebbe bastato dimostrare il loro attaccamento all’Italia per non essere perseguitati, o che si trattasse di provvedimenti contrari alla volontà di Mussolini, e che quindi non avrebbero ottenuto la piena attuazione (Levi 1972). Non fu così, e anzi proprio la scuola si rivelò l’ambito in cui la persecuzione raggiunse i risultati più effi- caci, riuscendo ad arianizzare pressoché completamente le aule italiane e diffondendo capillarmente il modello educativo della razza, che segnò un’intera generazione di italiani, con conseguenze anche di lungo periodo.

Se l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane (UCII) si mostrò piuttosto debole e disorganizzata nel far fronte alla persecuzione fu a livello locale che si riscontrarono le risposte più decise e propositive, seppure ogni Comunità dovette far fronte alle esigenze specifiche del proprio gruppo di riferimento (Fishman 1988, 336-337). Tra difficoltà pratiche, scadenze e necessità burocratiche si mise in moto una risposta or- ganizzata e concreta alla persecuzione, la cui analisi storica permette di comprendere meglio come fu applicata la legislazione razziale e quale fu la reazione ebraica.

Nel documento View of Vol. 6 No. 2 (2019) (pagine 148-155)