GIUSEPPE FRASSO
IL CANTO XXXII DELL’INFERNO
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Nel canto XI dell’Inferno Dante fa illustrare da Virgilio quella che viene definita “struttura morale” del tenebroso regno; ai vv. 52-‐‑56 così spiega Virgilio:
La frode, ond’ogne coscïenza è mòrsa, può l’omo usare in colui che ‘n lui fida e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di rètro par ch’incida pur lo vinco d’amor che fa natura;
cioè: «la frode, colpa che non può non far rimordere la coscienza a chi la commette, in quanto colpa commessa con l’intervento della ragione, può essere operata contro chi si fida e contro chi non si fida (chi non ha nella borsa – imborsa 54 – la fiducia); questo ultimo modo (cioè verso chi non si fida), sembra colpire solo il legame naturale che lega un uomo a ogni altro uomo, proprio perché entrambi uomini». E con-‐‑ tinua (vv. 61-‐‑66):
Per l’altro modo quell’amor s’oblia che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto, di che la fede spezïal si cria;
onde nel cerchio minore, ov’è ‘l punto de l’universo in su che Dite siède, qualunque trade in etterno è consunto;
* Per la lettura di questo canto mi sono ampiamente avvalso dei commenti di segui-‐‑ to indicati, imprescindibili presupposti delle mie osservazioni: ALIGHIERI, La Divina Commedia, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier 1979; ALI-‐‑ GHIERI, Commedia, a cura di Emilio Pasquini e Antonio Quaglio, Milano, Garzanti 1987; ALIGHIERI, Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, I, Inferno, Milano, Mondadori 1991 (I Meridiani); ALIGHIERI, La Commedia, a cura di Bianca Gara-‐‑ velli, con la supervisione di Maria Corti, Milano, Bompiani 1993; ALIGHIERI, Commedia, Revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Roma, Carocci 2007. Ho inoltre tenu-‐‑ to presente SAVERIO BELLOMO, Tra giganti e traditori. Inf. XXXI-‐‑XXXII, in Esperimenti danteschi, a cura di Simone Invernizzi, Genova-‐‑Milano, Marietti 1820, 2009, pp. 241-‐‑51.
parafrasando: «Con l’altro tipo di frode, cioè quello verso chi si fida, si dimentica non solo l’amore naturale, ma anche quello che si genera da situazioni particolari, dove si crea una fiducia particolare (come è quella tra parenti, tra cittadini della stessa città, tra ospiti, tra benefat-‐‑ tori e beneficiati); per cui, chiunque tradisce questo rapporto di fiducia, è consumato in eterno, tormentato in eterno nel cerchio che ha minor diametro, il nono, là dove è il punto dell’universo nel quale si trova Lucifero».
Il nono cerchio dunque accoglie coloro che hanno tradito chi si fida; e il nono cerchio è anche l’ultimo dell’Inferno, quello in cui è po-‐‑ sto Lucifero, sul fondo del pozzo dei Giganti, nel ghiaccio perenne; nel nono cerchio è descritto il tristo buco sovra ‘l qual pontan (sopra il quale gravano) tutte le altre rocce 3 dell’imbuto infernale, quasi separato da un alto muro da ciò che lo precede; e il “tristo buco” necessita, per essere descritto in modo adeguato, di una lingua adatta, rispettosa del precetto della “convenienza”1. Ma il poeta, proprio mentre afferma la necessità di una lingua adeguata – evocando, come ha sottolineato Bellomo, Aen. VI, 625-‐‑27 – dichiara di non disporre di strumenti espressivi adatti a descriver fondo a tutto l’universo 8 (con dativo di van-‐‑ taggio in funzione di specificazione), affidandosi al topos, che sarà dominante nel Paradiso, della ineffabilità2.
Di recente Giorgio Stabile, in Cosmologia, teologia e viaggio dantesco, contributo già apparso con altro titolo nel volume Dante e la filosofia della natura (Firenze, SISMEL 2007), ha scritto parole che bene giovano a comprendere l’incipit, tutto metalinguistico, di questo canto del-‐‑ l’Inferno3:
Caratteristica di ogni linguaggio, sia esso formalizzato o solo implicitamente pattuito, è infatti l’ipersensibilità del sistema alle variazioni anche minime di componenti anche minime. Il linguaggio poetico è un tipico esempio di questa ipersensibilità, caratterizzato com’è dalla stretta correlazione tra variazioni delle parti e alterazione del tutto […]. L’uso mirato del lessico [e degli altri accorgimenti, credo si possa aggiungere, pertinenti l’aspetto formale della lingua] diviene quindi misura della coscienza linguistica, cioè della cultura, dell’autore, il quale
1 Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, I, Inferno, cit., ad loc. 2 BELLOMO, Tra giganti e traditori. Inf. XXXI-‐‑XXXII, cit., p. 246.
3 GIORGIO STABILE, Cosmologia, teologia e viaggio dantesco, in L’idea e l’immagine dell’u-‐‑ niverso nell’opera di Dante. Atti del Convegno internazionale di studi. Ravenna, 12 no-‐‑ vembre 2005, Ravenna, Centro dantesco dei frati minori conventuali 2008, pp. 21-‐‑59, in part. p. 24.
quanto più esercita un consapevole dominio sul vasto sistema delle accezioni, tanto più è in grado di commisurarlo alle esigenze del suo sistema di concetti, che è il referente implicito del suo discorso e la ragione che presiede all’organizzazione del testo.
Ora, Dante, dando avvio al canto XXXII, s’accinge a descrivere, nonostante le dichiarazioni di inadeguatezza, il fondo dell’universo – e non solo dell’Inferno – non con variazioni minime, bensì con deter-‐‑ minata (seppur raffinatissima) violenza lessicale e rimica. E la violenza formale è inevitabile, perché la materia della quale il poeta s’impegna a dire lo esige: i traditori hanno peccato con scelta consa-‐‑ pevole e volontaria, non seguendo l’istinto; meritano dunque di essere posti nel più profondo dell’Inferno, vicino a Lucifero. E per descrivere l’orrore del luogo è necessario che anche la lingua dia piena espres-‐‑ sione alle sue potenzialità, con un registro adeguato.
Il poeta dunque dichiara la sua incapacità a usare rime aspre e chiocce 1, le uniche adatte nel contesto; come è noto non si tratta di una definizione generica, bensì tecnica; per aspre è inevitabile il rimando a Conv. IV, II 12-‐‑13:
E prometto di trattare di questa materia [Canzone: Le dolci rime d’amore ch’io solia: E poi che tempo mi par d’aspettare, / disporrò giù lo mio soave stile / ch’i’ ho tenuto nel trattar d’amore; / e dirò del valore, / per lo qual veramente omo è gentile, / con rima aspra e sottile 9-‐‑14] con rima aspra e sottile. Per che sapere si conviene che ‘rima’ si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente: strettamente s’intende pur quella concordanza che nell’ultima e penultima sillaba fare si suole; quando largamente s’intende, [s’intende] per tutto quel parlare che [in] numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade […]. E però dice “aspra” quanto al suono de lo dittato, che a tanta materia non conviene essere leno […]4.
E per chiocce il rinvio è a Inf. VII, 2, alla voce di Pluto, che il Buti defi-‐‑ nisce «stridente e rotta» e che, in quel canto, prende forma in rime (intese “strettamente”) aspre e rare, come è stato notato da Saccenti e ripreso da Inglese nel suo commento all’Inferno5, rime, più di recente,
4 ALIGHIERI, Convivio, a cura di Franca Brambilla Ageno, 2, Testo, Firenze, Le Lette-‐‑ re 1995 (Le opere di Dante, Edizione nazionale a cura della Società dantesca italiana, III), p. 269.
definite “petrose e rare”, da Guido Capovilla6.
D’altra parte, Dante in De vulgari eloquentia II VII 4-‐‑5, chiarendo le prerogative proprie delle parole adatte al volgare illustre, quello che cioè deve essere usato dai poeti ‘tragici’ volgari, presenta le parole che non possono essere accolte in questa variante del volgare:
In quorum numero nec puerilia propter sui simplicitatem ut mamma et babbo, mate et pate, nec muliebria propter sui mollitiem, ut dolciada et placevole, nec silvestria propter austeritatem, ut greggia et cetra, nec urbana lubrica et reburra, ut femina et corpo, ullo modo poteris conlocare.
Inoltre indicando, di contro, i vocaboli, che dopo attenta opera di cri-‐‑ bratura, restano nel setaccio, Dante, e contrario, fornisce un’altra esemplificazione di parole che non possono accedere al volgare illustre, esemplificazione utile nel contesto presente (anche se, ovvia-‐‑ mente, la riflessione dantesca – l’ho già sottolineato – si indirizza alla tradizione poetica lirica; d’altro canto è inevitabile guardare alla pro-‐‑ duzione dantesca nel suo insieme proprio dalla specola della Commedia):
Et pexa vocamus illa que, trisillaba vel vicinisima trisillabitati, sine aspiratione, sine accentu acuto vel circumflexo, sine z vel x duplicibus, sine duarum liquidarum geminatione vel positione inmediate post mutam […]7.
Ma per tornare all’incipit del canto, ci si trova lì dinnanzi a una di-‐‑ chiarazione di inadeguatezza che viene però subito negata in re, con la scelta, nelle rime intese ora largamente, cioè come componimento in generale, come canto potremmo dire, di un lessico comico fin dal v. 4,
6 GUIDO CAPOVILLA, Rime ‘petrose’ e rare nella ‘Commedia’, in Dante e i «pre-‐‑danteschi». Alcuni sondaggi, Padova, Unipress 2009, pp. 113-‐‑37. Alcuni cenni anche a Inf. XXXIII: pp. 114-‐‑15.
7 ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, in ALIGHIERI, Opere minori, II, a cura di P.V. Mengaldo et alii, Milano-‐‑Napoli, Ricciardi 1979, pp. 3-‐‑237, in part. pp. 193-‐‑97. Di seguito la traduzione di Mengaldo (del quale si dovrà leggere attentamente anche il commento a questi passi): «Nel novero dei quali non potrai in alcun modo collocare né gli infantili per la loro elementarità, come mamma e babbo, mate e pate, né i femminei per la loro mollezza, come dolciada e placevole, né gli agresti per la loro ruvidezza, come greggia e cetra, né infine quelli cittadini o leccati o invece scaruffati, come femina e corpo […]». «E definiamo ben pettinati i vocaboli trisillabici o molto vicini al trisillabismo, senza aspirazione, senza accento acuto o circonflesso, senza le conso-‐‑ nanti doppie z e x, senza liquide geminate o poste subito dopo una muta […]».
«io premerei…il suco» che, tra l’altro fa attrito con il termine di tono culto concetto, dal v. 5 con il toscanismo crudo abbo (unica occorrenza della Commedia, in rima con gabbo e babbo), dai lemmi di colore comico mamma e babbo al v. 78. E una dichiarazione di inadeguatezza che con-‐‑ tinuerà, nei fatti, a essere negata per l’intero canto dove si inseguono rime rare e con consonante doppia in uscita (solo qualche esempio: -‐‑occe 1 : 3; -‐‑icchi 26 : 28 : 30 con voce onomatopeica; -‐‑olli 44 : 46 : 48; -‐‑ecchi 50 : 52 : 54; -‐‑azzi 68 : 70 : 72 intrecciata con -‐‑ezzo 71 : 73 :75; -‐‑elle 107 : 109 : 111; -‐‑ello 122 : 124 : 126; -‐‑ecca 137 : 139 ecc.), versi tronchi (con esso un colpo per la man d’Artù 62; col capo sì ch’i’ non veggi’oltre più 64; se tosco sé, ben sai omai chi fu 66), lessico comico (come, oltre le paro-‐‑ le già indicate, pecore o zebe 15, rana 31, cicogna 36, becchi 50 – con non casuale prelievo dal mondo animale – péste 79, per calpesti – , cutica-‐‑ gna 97, latrando 105 – e ancora latri 108 – mascelle 107, ecc.) e sintagmi e locuzioni di identica impronta (pigliare a gabbo 7, fitta in gelatina 60, visi cagnazzi 70, gelati guazzi 72, non mi dar più lagna 95, lingua pronta 114, stanno freschi 117, segò… la gorgiera 120, se quella con ch’io parlo non si secca 139, ecc.), proprio quelle rime, “largamente e strettamente” intese, “aspre e chiocce” delle quali il poeta denuncia la mancanza. Subito dopo questa dichiarazione di inadeguatezza, a ribadire l’aprirsi di uno spazio nuovo, quasi una cantica entro la cantica che abbraccia i 3 canti finali, il poeta innalza un’invocazione alle Muse, riprendendo un mito, ricordato da Orazio, Ars poetica, 394-‐‑96 (e trattato da Stazio, Tebaide VIII, 232-‐‑33; X, 873-‐‑77), il mito del poeta Anfione che, solo con il suono della cetra, convinse le pietre del monte Citerone a scen-‐‑ dere dal monte stesso e a costruire le mura che cinsero Tebe9. Ma l’invocazione automaticamente stabilisce un altro rapporto: come An-‐‑ fione cinse Tebe di mura, la definì come città, così Dante, novello Anfione, s’accinge a edificare una nuova Tebe, come non casualmente dimostrano le vicende e le pene di alcuni dannati che il poeta metterà in scena e, in particolare, la prima e l’ultima coppia di anime del can-‐‑ to10.
Dopo questa complessa e impegnativa introduzione, il poeta si lancia, vv. 13-‐‑15, in una exclamatio, mossa non dalla crudezza delle pene – delle quali non si è ancora detto – ma dalla efferatezza del
8 In ALIGHIERI, La Commedia, a cura di B. Garavelli, cit., ad vv. si sottolinea il contra-‐‑ sto tra la locuzione comica «premere il suco» e il lemma, di stile culto, «concetto». Ma si veda anche: ALIGHIERI, La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, cit., ad loc. Per abbo: Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, I, Inferno, cit., ad loc.
9 Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, I, Inferno, cit., ad loc. 10 Ivi, p. 938. Sintetico e efficace: ALIGHIERI, Commedia, Revisione del testo e com-‐‑ mento di G. Inglese, cit., ad loc.
peccato e dall’abiezione dei peccatori, le cui colpe sono note al lettore, almeno in generale, alla luce di Inf. XI: «O anime malnate, spregevoli (mal creata plèbe, con un singolare collettivo) sopra tutte le altre, che siete nel luogo del quale (o, secondo un’altra interpretazione, dal quale11) è difficile parlare per il disgusto che genera, meglio sarebbe stato per voi se foste nati pecore o capre, animali, esseri privi di ragio-‐‑ ne e, dunque, incapaci di peccare con un atto di ragione, come atto di ragione è il peccato del tradimento».
Ma, immediatamente dopo l’esclamazione, il poeta riprende la narrazione, lasciandoci intendere che il gigante Antèo, curvandosi, li aveva deposti molto più in basso dei suoi piedi, poggiati probabil-‐‑ mente su un alto gradino12; Dante, mentre guarda ancora a l’alto muro 18, ode una voce – nell’Inf. i primi contatti con i dannati o i loro custo-‐‑ di sono, nella più parte dei casi, uditivi13 – che lo invita a procedere con attenzione così da non calpestare le teste de’ fratei miseri lassi 21. Il sintagma fratei miseri lassi ha dato adito a diverse interpretazioni; al-‐‑ cuni hanno voluto vedere un rimando ai due fratelli Alberti dei quali Dante dirà più avanti, ma l’espressione pare contradditoria con la fe-‐‑ rocia dimostrata dai due fratelli, l’uno nei confronti dell’altro14; altri, come Bosco e Reggio, secondo me in modo più convincente, hanno pensato che l’espressione valga “«fratelli anche tuoi», in quanto uo-‐‑ mini, vivi o morti che siano”15; infine si è pure pensato di intendere fratei, con valore generico di gruppo, così come famiglia a Inf. XV, 22: così adocchiato da cotal famiglia, cioè le schiera dei sodomiti16.
Comunque sia, è la voce anonima che induce Dante, inteso a guar-‐‑ dare l’alto muro, a prendere consapevolezza di quanto lo circonda: un lago che per gèlo / avea di vetro e non d’acqua sembiante 23-‐‑24; è Cocìto, il cui nome non viene fatto (anche se Virgilio – Inf. XXXI, 123 – aveva chiesto a Anteo di portarli dove Cocito la freddura sèrra), Cocito dove convergono le acque degli altri tre fiumi infernali, Acheronte, Stige e Flegetonte, ma che, essendo posto nel fondo dell’Inferno, non può scorrere, ma dilaga a formare uno stagno – i Cocyti stagna di Aen. VI
11 ALIGHIERI, La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, cit., ad loc. 12 La precisazione sulla collocazione di Anteo in ALIGHIERI, La Commedia, a cura di B. Garavelli, cit., ad vv. 13-‐‑21.
13 ALIGHIERI, La Commedia, a cura di B. Garavelli, cit., ad vv. 22-‐‑24.
14 ALIGHIERI, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, I, Inferno, cit., ad loc.
15 ALIGHIERI, La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, cit., ad loc. 16 ALIGHIERI, La Commedia, a cura di B. Garavelli, cit., ad vv. 13-‐‑21. La Garavelli avanza anche l’ipotesi che l’espressione possa «avere lo stesso valore ironico e sarcastico del sì fatta famiglia di Inf. XXX, 88, usato con disprezzo davvero fuori luogo da maestro Adamo per i falsatori di cui lui stesso condivide la condizione».
323 –, uno stagno le cui acque sono congelate per l’eternità, e gelate per il vento che è generato dal moto delle ali di Lucifero17. Facile rinviare per lo spettacolo che si apre davanti agli occhi di Dante alle Petrose, in particolare a Io son venuto, dove, ai vv. 59-‐‑61, Dante dice: la terra fa un suol che par di smalto, / e l’acqua morta si converte in vetro / per la freddura che di fuor la sèrra18.
Dante divide in quattro zone questo lago gelato: Caina per i tradi-‐‑ tori dei parenti; qui i dannati hanno la testa fuori del giaccio, possono piegarla verso il basso, così che le lacrime fluiscono in giù; Antenora per i traditori politici (canti XXXII-‐‑XXXIII); i dannati, pur avendo la testa fuori del ghiaccio, non potrebbero chinarla e le lacrime che sgorgano dagli occhi, subito gelando, formerebbero una crosta vitrea sugli occhi medesimi; tuttavia, secondo un recente esegeta, il fatto sa-‐‑ rebbe contraddetto dal v. 10519; a meno che non si voglia vedere – così almeno mi pare – nell’abbassare gli occhi da parte del dannato lì de-‐‑ scritto un suo estremo sforzo per sfuggire al riconoscimento da parte di Dante e non una situazione di stato perenne; Tolomea per i traditori degli ospiti (canto XXXIII), dove solo il viso dei dannati emerge dal ghiaccio; infine Giudecca per i traditori dei benefattori (XXXIV): i dannati sono del tutto sepolti nel ghiaccio e traspaiono come festuca in vetro (XXXIV 12). Si potrebbe dire che vi è, insomma, una sorta di cli-‐‑ max ascendente nella durezza della pena passando da una zona all’altra (o, se non altro, da Caina e Antenora, a Tolomea e a Giudec-‐‑ ca). Ma perché domina il ghiaccio, là dove Lucifero è ficcato? Il lago di ghiaccio pare opporsi al lago di luce di Par. XXXIII, 100-‐‑11420; inoltre mi sembra che una spiegazione chiara si ricavi da Par. XXXIII, 7-‐‑8; S. Bernardo dice alla Vergine: Nel ventre tuo si riaccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore; nel ventre della Vergine si è riacceso nuovamente l’amore tra Dio e l’uomo e grazie al caldo di questo amore è fiorita nella pace eterna del Paradiso la rosa dei beati. L’amore è calore, ma Lucifero è la negazione dell’amore, dunque è negazione del calore, cioè è gelo. Si noterà che, nel canto, alcune anime guardano verso il basso, negando ciò che è proprio dell’uomo, cioè guardare verso il cielo, a indicare la loro non apparte-‐‑ nenza, dato il peccato commesso, al consorzio umano: forse anche a
17 La memoria virgiliana è ricordata in: ALIGHIERI, La Commedia, a cura di B. Gara-‐‑ velli, cit., ad vv. 22-‐‑24
18 ALIGHIERI, Rime, edizione commentata a cura di Domenico De Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo 2005, 9 (C). Per il clima “petroso” dell’ultimo cerchio dell’Inf. si veda la bibl. indicata in ALIGHIERI, La Commedia, a cura di B. Garavelli, cit., ad vv. 1-‐‑6.
19 BELLOMO, Tra giganti e traditori. Inf. XXXI-‐‑XXXII, cit., p. 247.
20 ALIGHIERI, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, I, Inferno, cit., ad v. 23.
questo si dovrà la notevole presenza, nel canto, di riferimenti agli animali (becchi, rana, cicogna, latrare ecc.)21.
Dante, dunque, vede un lago coperto di uno strato di ghiaccio tale che, per instaurare una similitudine adeguata a illustrarne le caratteri-‐‑ stiche, il poeta si muove dal Danubio al Don, evocati secondo i nomi antichi o vicini all’originale, all’Italia: «Non il Danubio (Danoia 26 dal lat. Danuvius) in Austria (Osterlicchi 26, da ted. Oesterreich, instauran-‐‑ do così una rima con Tambernicchi 28: cricchi 30), non il Don (Tanaì 27, dal lat. Tànais) sotto il freddo cielo settentrionale produssero, nell’in-‐‑ verno (di verno 26), un così spesso strato di ghiaccio sopra le loro ac-‐‑ que fluenti, come era quello che si presentava davanti ai miei occhi; che se vi fosse caduto sopra il monte Tambura o il Pania (Pietrapana dal lat. Petra Apuana), entrambi rilievi della Versilia, non avrebbe scricchiolato (fatto cricchi con onomatopea, in rima) neppure l’orlo». E dentro questo lago, Dante personaggio può vedere, all’inizio, una distesa di teste, solo teste (forse con rimando alla pena della decapita-‐‑ zione, riservata ai traditori politici, come rammenta Bellomo, pena evocata a v. 12022); dice il poeta: «come stanno le rane col muso fuori dell’acqua, nei mesi estivi (quando sogna / di spigolar sovente la villana 32-‐‑33, cioè in una stagione durante la quale la temperatura è opposta a quella di Cocito23), così quelle anime, illividite dal freddo, erano im-‐‑ merse nel ghiaccio fino al volto (insin là dove appar vergogna 34), battendo i denti e emettendo lo stesso rumore che fanno le cicogne col becco» (è lo «stridore di denti» del Vangelo – per es. Matteo 13, 50 e Matteo 22, 13 – disumanizzato nel verso della cicogna). Ognuna di esse tiene il viso rivolto verso il basso e il freddo che le tormenta si manife-‐‑ sta attraverso la bocca (‘il battere i denti’, che, tra l’altro appare essere l’unico rumore percepibile nella Caina); attraverso gli occhi che lacri-‐‑ mano si palesa invece la sofferenza della dannazione (il cor tristo 38, le lacrime non sono di pentimento, perché altrimenti le anime non sa-‐‑ rebbero nell’Inferno; altri esegeti pensano che il cor tristo si palesi con