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HARRY COLLINS, TREVOR PINCH, Il golem tecnologico. Dalla nube di Cer-nobyl' ai missili Patriot, ed. orig.

1998, trad. dall'inglese di Luca Pa-glieri, premessa di Massimiliano Bucchi, pp. 212, Lit 32.000, Edizio-ni di ComuEdizio-nità, Torino 2000

Il golem è una metafora fre-quente quando si parla della tec-nologia, cioè di un'impresa che, concepita dall'uomo per il pro-prio vantaggio, talora gli sfugge di mano con effetti disastrosi. La classica distinzione tra scienza e applicazioni oggi sfuma sempre più e viene sostituita da un rap-porto articolato e faticoso. So-prattutto per effetto degli inve-stimenti il passaggio dal labora-torio al mercato si compie in tempi brevissimi: se da una par-te il denaro accelera tutto ciò in cui si riversa, dall'altra oggi ten-de ad alimentare solo le ricerche che promettono applicazioni a breve. Ciò ha portato, nel Nove-cento, al sorpasso della scienza da parte della tecnica.

Per i Greci conoscere qualco-sa significava possederne una teoria esplicita e precisa. L'Oc-cidente ha ereditato questa pro-pensione per la razionalità esplicita e per la precisione teo-rica e ha sempre reputato l'in-telligenza speculativa, che co-struisce i teoremi della matema-tica o gli edifici della metafisica,

superiore all'intelligenza prati-ca, che ci consente di attraver-sare incolumi una strada o di guidare un'automobile nel traf-fico cittadino. Il culmine della scienza occidentale viene rag-giunto con la formalizzazione matematica.

Oggi le cose sono cambiate. La tecnica, specie quella legata all'informazione e alla biologia, si sviluppa in modo così rapido e tumultuoso che la teoria non riesce più a starle dietro. La ve-locità e la complessità della tec-nica impediscono alla scienza di tracciarne un quadro esplicati-vo coerente e completo e di for-nire risposte certe ai problemi applicativi: che cosa accadrà se userò la tal medicina, se devierò il corso di questo fiume, se mo-dificherò il corredo genetico di questa specie? La nostra capa-cità di agire, inducendo cam-biamenti durevoli e talora irre-versibili, è ormai molto più svi-luppata della capacità di preve-dere gli effetti dei nostri inter-venti.

Questo libro ha il merito di calare l'intricato rapporto tra scienza e tecnologia in una realtà fatta di pesantezze mate-riali e difficoltà attuative, e di mettere in luce il groviglio ine-stricabile di giudizi a priori, ri-costruzioni razionali, semplifi-cazioni teoriche, implisemplifi-cazioni

sociali ed economiche in cui la tecnologia si trova sempre invi-luppata.

(Che il rapporto tra scienza e tecnologia sia complicato viene confermato da un'osservazione che fa riflettere: se, come sosten-gono alcuni, la tecnologia è una "dimostrazione" o "verifica" della scienza, come mai i falli-menti della prima non sono mai considerati fallimenti anche del-la seconda? Questa dissimmetria farebbe sospettare, contro l'evi-denza dei fatti, che dal punto di vista epistemologico la tecnolo-gia non abbia nulla da dire. Per converso, in altri casi - sempre più numerosi nonostante gli sforzi e talora gli anatemi dei teorici - , vale il reciproco: la tec-nica funziona anche se la spie-gazione razionale manca o porta a conclusioni avverse. Quali considerazioni epistemologiche trarre di qui?)

La tesi principale del libro è che da lontano tutto sembra semplice e chiaro, ma quando ci si avvicina ai minuti partico-lari, cioè si passa dal "dire" al "fare", nascono problemi spes-so inspes-solubili. Come già notava Leopardi, da lontano tutto ap-pare bello e placato (un po' com'era in matematica prima che il calcolatore ci costringes-se a tener conto del tempo, del-la capacità di calcolo, deldel-la pre-cisione dei risultati e così via). Ma vista da vicino la tecnologia è così complessa che la scienza ha poco da dire. Per tradizione, dalla scienza ci si aspettano ri-sposte forti e chiare (come indi-ca l'abuso irritante e lacrimevo-le dell' aggettivo "scientifico"),

mentre qualunque problema reale ammette una pluralità di soluzioni, prove e interpreta-zioni, ciascuna delle quali con-tiene una parte di verità e, in-sieme, può essere smontata e confutata in un tribunale, cioè nel luogo in cui la parola dell'e-sperto deve venire a patti con la parola degli altri e con la vita e col destino delle persone.

Ne segue una delusione nei confronti (dell'immagine ro-mantica) della scienza che non può lasciarci indifferenti, ma che non deve neppure farci va-gheggiare un grembo materno e rassicurante che ci protegga dall'errore. Biso-gna accettare l'incertezza in-trinseca del no-stro rapporto col mondo e vi-vere nello stretto

margine tra la rigidità e il caos, altrimenti il giudizio sulla tecno-scienza oscilla sterilmente tra perfezione e fallimento. E, quel-la di Collins e Pinch, un'esorta-zione al realismo equilibrato: "Eliminiamo il mistero e il fon-damentalismo e vedremo la tec-nologia di frontiera come l'ap-plicazione dell'esperienza in cir-costanze di prova", cioè inedite.

Attraverso l'analisi puntiglio-sa e illuminante di sette casi specifici, che vanno dall'effica-cia dei missili Patriot durante la guerra del Golfo alle conse-guenze in Gran Bretagna del-l'incidente di Cernobil', gli au-tori illustrano una serie di pun-ti: non esistono soluzioni certe e ogni decisione è frutto di un compromesso; i modelli mate-matici non possono sostituire del tutto una lunga esperienza sul campo (e viceversa); l'anali-si dei calcoli non fornisce una scala di accettabilità dei rischi. Il caso degli allevatori del Cum-berland dimostra come nei con-fronti degli scienziati si passi fa-cilmente dal rispetto al sospetto quando la supponenza e la se-gretezza degli specialisti preval-gano sulla comunicazione scam-bievole.

Un altro punto delicato su cui il libro getta luce riguarda il co-siddetto "regresso" dello speri-mentatore o, nel caso specifico, del tecnologo: curiosa locuzione per alludere al circolo vizioso per cui da un esperimento non si può ottenere un risultato univo-co nei univo-confronti di un'ipotesi perché non si può essere sicuri che l'esperimento sia stato con-dotto in modo adeguato finché non si è certi che il risultato sia corretto. Ma della correttezza del risultato si fa garante l'ade-guatezza dell'esperimento e a sua volta di questa adeguatezza ci dà conferma la correttezza del risultato. In pratica, poiché l'e-sperimento non può né confer-mare né confutare l'ipotesi sotto verifica, è la posizione a priori dello sperimentatore nei con-fronti dell'ipotesi che gli consen-te di giudicare la bontà dell'e-sperimento, innescando una sor-ta di sor-tautologia (si veda il capito-lo sull'origine del petrolio). Questo gioco epistemologico spiega come la tanto decantata "oggettività delle cifre" sia una chimera che non ci salva dalle controversie interpretative (mi

viene in mente il calculemus leib-niziano...).

Insomma, il libro ha un forte sapore sistemico e induce a pen-sare: l'invito a complessificare la visione, ad analizzare i problemi da vicino, collocandoli nel loro contesto socioculturale (e mora-le) più ampio e a non cadere nel-le tradizionali dicotomie del vero e del falso tanto care agli specia-listi suona fin troppo persuasivo nell'epoca in cui il vessillo della complessità sventola dappertut-to. È quindi alquanto sorpren-dente che Collins e Pinch, citan-do dal loro libro precedente, de-dicato al golem della scien-za Il golem.

Tut-to quello che do-vremmo sapere sulla scienza,

1995; Dedalo, 1995, ricadano in uno slogan che sembra riduzionistico e for-se è soltanto sbagliato: "Il golem della scienza non può essere bia-simato per i suoi sbagli, perché quegli sbagli sono i nostri". Dov'è la linea di demarcazione tra "noi" e "la scienza"? E biso-gna davvero incolpare qualcuno degli sbagli, visto che sbagliando s'impara?

Buona la premessa di Massi-miliano Bucchi, desolante la

tra-duzione. • NOVITÀ Claudio Moreschini

Stona dell'ermetismo

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