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Estratti dal Diario veneziano (1786) di Johann Wolfgang Goethe tradotto da Nevia Capello

Testi delle canzoni veneziane dalle Venetian Ballads (1742-1748) di Johann Adolph Hasse selezionati da Giulia Alberti e Diego Mantoan

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serci forse una sola persona che mi conosca e quella certamente non m’incontrerà.

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«Me cavo dal seco» (vol.1–n.4) –– ––

[ SETTEMBRE, GIORNO DI SAN MICHELE, SERA]

Tutto ciò che si può dire su Venezia è già sta-to detsta-to e stampasta-to, perciò riporsta-to soltansta-to poche impressioni, così come le ricevo. L’i-dea fondamentale, che qui nuovamente mi sollecita, è sempre il popolo. Questa gente non è riparata su queste isole per capriccio;

fu la sorte a rendere la loro posizione così favorevole; il loro proliferare, la loro ricchez-za ne furono una conseguenricchez-za necessaria.

Si pigiarono in uno spazio sempre più ri-stretto; sotto i loro piedi sabbia e palude di-vennero roccia; le loro case cercarono l’aria, come alberi al chiuso; avari di ogni palmo di terreno e fin dall’inizio costretti in spa-zi angusti, lasciarono alle calli un’ampiezza non superiore alla distanza da casa a casa, ed agli uomini un certo passaggio e, per il resto, l’acqua subentrò per loro in luogo del-la strada, delle piazze, deldel-la fondamenta; in breve, il veneziano doveva farsi creatura di una nuova specie e così pure Venezia accetta un confronto soltanto con se stessa.

Dopo pranzo, mi lanciai nel labirinto della cit-tà senza una guida, consultando soltanto le re-gioni del cielo. Non si può immaginare quanto tutto sia stretto e affollato, se non lo si vede.

Trovai con facilità il Canal Grande e il Pon-te di Rialto. La vista è bella e spaziosa. Il Canale è disseminato d’ imbarcazioni e bru-lica di gondole, specialmente oggi che è la festa di San Michele. Le donne, indossati [ SETTEMBRE]

Così stava dunque scritto nel libro del de-stino, alla mia pagina, che avrei visto Vene-zia per la prima volta nel 1786 la sera del 28 settembre, alle cinque secondo il nostro orologio, entrando nelle lagune dalla Bren-ta e che, poco dopo, avrei potuto accedere a questa meravigliosa città insulare, a questa Repubblica di castori, e visitarla. Così Vene-zia, grazie al cielo, ora non è più per me una semplice parola, un nome che tanto e tanto spesso angustiò proprio me, che sono sta-to da sempre un nemico mortale del suono vuoto delle parole.

Come la prima gondola si accostò al Bur-chiello, mi risovvenne il mio primo giocat-tolo, cui non avevo forse più pensato da oltre vent’anni. Mio padre aveva portato un bel modellino di gondola da Venezia; gli era molto caro e aveva molto significato per me, quando vi potevo giocare. Così i primi rostri di lamiera, i neri felze delle gondole, tutti salutai come una vecchia conoscenza, e qua-si rievocasqua-si un’impresqua-sione della mia prima giovinezza, a lungo sopita.

Sono accomodato bene alla «Regina d’In-ghilterra», non lontano da piazza San Mar-co, il maggior vantaggio di questo alloggio.

La mia finestra guarda su uno stretto canale, fra alti edifici, subito sotto di me si trova un ponte a un arco solo e di fronte una callet-ta animacallet-ta. Quescallet-ta è la mia dimora e qui resterò per un certo tempo, finché non sarà pronto il mio plico per la Germania e finché non avrò attinto a sazietà dall’immagine di questa città.

Posso godere appieno della solitudine da me tanto spesso e nostalgicamente sospira-ta, ammesso che essa offra un godimento, poiché in nessun luogo ci si può sentire più soli che in un tale brulichio di folla, dove si è del tutto sconosciuti; a Venezia potrà

es-IL COPIONE 23

xei questi segni boni  d’un vero innamorà.

Quando che vù ridé forte ‘l cuor me ponzé in somma a parlar ciaro son molto cusinà.

Più stroleghi m’ha dito che un zorno all’improviso  m’ha da beccar un viso d’una gran rarità.

Vardé se i ve sa dir

quel che ha da intravegnir,  la strologia qua vedo per mi che no ha falà.

Vedo che attenta forte  me sté a scoltar de gusto  no credo, che desgusto 

Su un terrapieno in riva all’acqua ho notato un ometto che raccontava storie in dialet-to veneziano a un numero imprecisadialet-to di ascoltatori. Purtroppo non riesco a capirlo, ma nessuno ride, solo raramente l’udito-rio, che di solito è costituito da una classe molto bassa, sorride. Inoltre l’uomo, a modo suo, non ha nulla di sorprendente o di ridi-colo, piuttosto qualcosa di molto adeguato all’ambiente; nel contempo un’ammirevole ricchezza espressiva e precisione, che rivela-no arte e riflessione nei suoi gesti.

gli abiti migliori, si recavano in pellegrinag-gio alla chiesa. Ho incontrato delle creature bellissime.

Ormai stanco, mi posi in una gondola, la-sciando alle spalle le anguste calli, e navigai verso la parte settentrionale del Canal Gran-de, così da godere dell’opposto spettacolo.

Passando attorno all’isola di Santa Chiara, scivolando sulla laguna, rientrando dal Ca-nale della Giudecca fin verso a piazza San Marco. E a un tratto mi ritrovai anch’io pa-drone del Mar Adriatico, così come si sente ogni veneziano che si adagia nella propria gondola. Ripensai allora al mio buon padre, il quale non sapeva far altro che raccontare di queste cose. Non capiterà anche a me, un giorno? Tutto ciò che mi circonda è degno di nota, una grande e rispettabile opera di forza umana assisa, un magnifico monumento non già di un singolo sovrano, bensì d’un popolo intero. E anche se la sua laguna dovesse in-terrarsi a poco a poco e vapori nocivi diffon-dersi sulle paludi, i suoi commerci indebolirsi e il suo potere tramontare, l’intero costrutto della Repubblica e la sua stessa essenza non parranno mai meno mirabili – neanche per un solo attimo. Venezia soggiace al tempo, come ogni cosa che abbia vita apparente.

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«Quel occhi me fé guerra» (vol.3–n.11) Quel occhi me fé guerra

E me ferisce ogn’ora, me fe trar dei sustoni

IL COPIONE 24

re di avvicinarmi sempre di più a lui. Nella Sala delle Antichità ho visto cose preziose.

Un panneggio di una Minerva, di una Cle-opatra; dico panneggio, perché il mio pen-siero respinge subito il restauro delle teste e delle braccia. Un Ganimede, che dovrebbe essere di Fidia e una famosa Leda, anche se solo frammenti; il primo restaurato bene, il secondo mediocremente, ma di un senti-mento elevato e profondo.

Non posso dimenticare la Carità; vi ha siste-mato anche la scala a chiocciola più bella del mondo, con un fuso aperto, ampio; i gradini di pietra incastonati nel muro e stratificati in modo che uno sorregga l’altro; non ci si stan-ca di salirla e ridiscenderla; Palladio stesso la riteneva riuscita, è veramente bellissima.

Tuttavia, la costruzione era troppo grande, come accade in taluni edifici dei tempi nuo-vi. L’artista non aveva soltanto presupposto che l’attuale monastero sarebbe stato abbat-tuto, bensì che pure le case limitrofe sareb-bero state comprate, e lì avranno esaurito i soldi e la voglia. Caro il mio destino, che fa-vorisci e immortali certe sciocchezze, perché non lasciasti che quest’opera si realizzasse?!

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«Per mi peno, idolo mio» (vol.2–n.15) Per mi peno, idolo mio,

dentro el petto son serio, no ghè caso più per mi.

Ve dirò la mia rason, Vegnì subito al balcon.

Madmosel, xé mi zamprì.

Son cortese, son francese, Tanto basto a dir cusì.

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Ho dunque sentito parlare in pubblico tre strani tipi sulla Piazza, che narravano storie a modo loro. Due predicatori. Due avvocati.

I commedianti, specialmente il Pantalone.

Hanno tutti qualcosa in comune, sia perché appartengono a una Nazione tutta compre-sa nel gioco della vita e dell’espressione ver-bale, sia perché si imitano a vicenda.

Essi hanno predilezione per certi gesti, che voglio tenere a mente e che, in genere, mi esercito a imitare, per narrarvi le storie alla loro stregua quando sarò di ritorno.

Quest’oggi, festa di San Francesco, sono stato nella sua chiesa alle Vigne. La sono-ra voce di un cappuccino esono-ra accompagnata dal gridare dei venditori fuori della chiesa, come da un’antifona; io stavo sull’uscio del-la chiesa fra i due e l’effetto era abbastanza bizzarro da ascoltare.

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«Cara la mia Ninetta» (vol.3–n.22) –– ––

[ IL  OTTOBRE ]

Per prima cosa mi affrettai verso la Carità:

trovai nelle opere del Palladio, ch’egli aveva progettato un edificio nel quale si prefiggeva di riprodurre le abitazioni private degli anti-chi, s’intende dei ceti più elevati.

Mi precipitai qui con la massima ansietà, ma ahimè, di compiuto non è che la decima parte. Ma anche questa è degna del suo nio divino. Una perfezione nella pianta ge-nerale ed una precisione nell’esecuzione del lavoro, che finora non avevo mai conosciu-to, anche sotto il profilo tecnico, poiché la maggior parte è costruita in mattoni: un’e-sattezza incomparabile.

Oggi ho tracciato dei disegni sulla scorta delle sue opere e desidero con tutto il

cuo-IL COPIONE 25

[IL  OTTOBRE]

Una giornata magnifica da mane a notte!

Andai fino a Pellestrina, di fronte a Chiog-gia, dove sorgono le grandi opere che la Re-pubblica fa erigere contro il mare; esse sono di pietra squadrata e devono propriamente consolidare la lunga lingua di terra che se-para le lagune dal mare: un’impresa alta-mente necessaria ed importante.

Se ora Venezia esiste ed esistono le sue iso-le, i suoi canali, che intersecano le paludi e sono percorsi anche nei periodi di marea, questo si deve all’impegno e alla diligenza dell’uomo; e questo impegno e diligenza de-vono conservarla.

Il mare può penetrare nelle lagune soltan-to in due punti, presso il Castello, di fronte all’Arsenale, e all’altra estremità del Lido, presso Chioggia. II flusso vi penetra soli-tamente due volte al giorno e, due volte al giorno, il riflusso ritira l’acqua sempre per la stessa via, sempre nella stessa direzione:

riempie i canali, ricopre i luoghi paludosi e rifluisce quindi, lasciando le terre più eleva-te, se non proprio asciuteleva-te, tuttavia visibili, e si adagia nei canali. Ben altro sarebbe se l’acqua, a poco a poco, cercasse altri varchi, aggredisse la lingua di terra, scorresse avanti e indietro a capriccio.

Per evitare questo, i Veneziani devono pro-teggere il Lido con ogni possibile mezzo.

In casi straordinari, come quelli in cui il mare cresce oltremisura, è pur sempre un bene che questo possa accadere soltanto per due vie e che il resto rimanga precluso; esso non può dunque penetrare tanto veloce-mente, né con tanta violenza, e deve inoltre, in poche ore, sottomettersi alla legge del ri-flusso, mitigando cosi il suo furore.

Quanto al resto, Venezia non ha nulla da te-mere; la lentezza con la quale il mare si ritira le garantisce millenni di vita ed i Veneziani, [IL  OTTOBRE]

Ieri sera opera a San Moisè. Nulla di vera-mente soddisfacente. Al testo poetico, alla musica, agli attori stessi mancava quella for-za interiore che sola può elevare al sublime.

Non che tutto fosse cattivo; anche le due protagoniste hanno fatto del loro meglio, non tanto nel recitare bene la parte, quanto per mostrarsi e per piacere. È pur sempre qualcosa. Sono due graziose figure, dalla bella voce, garbatamente vivaci ed attraen-ti. Fra i ruoli maschili non c’è, al contrario, proprio nessuno che abbia forza interiore, né voglia di accattivarsi il pubblico. Neppure una voce decisamente brillante.

Il balletto, povero d’invenzione, fu nel com-plesso fischiato. Alcuni ballerini bellissimi però e delle ballerine, le quali si son fatte pure un dovere di far conoscere al pubblico ogni bella parte del proprio corpo, furono applauditi per bene.

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«Grazie agl’inganni tuoi» (vol.1–n.3) Grazie agl’inganni tuoi

al fin respiro o Nice.

Al fin d’un infelice ebber gli Dèi pietà.

Sento dai lacci tuoi sento che l’alma è sciolta;

Non sogno questa volta, non sogno libertà.

Quando lo stral spezzai, Confesso il mio rossore Spezzar m’ intesi il core, Mi parve di morir.

Ma per uscir di guai, Per non vedersi oppresso,

Finché lo scrivano legge, il tempo si ferma, mentre l’avvocato, se vuol parlare, ha a di-sposizione un preciso lasso di tempo. Come l’avvocato apre bocca…

AVVOCATO …dixeme dove sta scritto! Xe un’aberrasion che la ga podesto donar roba de cui no gaveva potestà!

L’orologio viene sollevato e subito riposto, non appena quegli tace. L’abile avvocato sa bene come interrompere la noia con i suoi frizzi, e il pubblico si sbellica sguaiatamente dalle risa alle sue battute.

AVVOCATO …la Dogaressa no si ofenda, se ghe digo bricconcela!

Il lettore recita appunto un documento, nel quale uno degli inquisiti disponeva libera-mente dei beni che non gli appartenevano di diritto. L’avvocato lo pregò di leggere più lentamente, e come pronunciò le parole…

SCRIVANO …io regalo, io dispongo!

AVVOCATO …Cossa vustu regalar? Cossa ti disponi? Diavola d’una povarassa affamà!

Ti, che no te appartien nulla a sto mondo!

Ma proprio in sto punto ti vieni a dir, che ti vol regalar, ti vol disporre… ti, che no ti gà niente!

Scoppiò una risata senza fine, malgrado l’o-rologio fu subito adagiato. Il lettore conti-nuò a borbottare e rivolse all’avvocato uno sguardo provocatorio; ma questi sono tutti numeri concordati!

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difendendo accortamente i loro canali, sa-pranno mantenere inalterato il loro domi-nio sulle acque.

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«No me ciamé incostante» (vol.1–n.7) –– ––

[ OTTOBRE]

Quest’oggi invece ho visto un altro tipo di commedia, che mi ha divertito di più: ho sentito discutere pubblicamente una cau-sa a Palazzo Ducale. Uno degli avvocati, che parlava, era la perfetta caricatura di un

‘Buffo’: figura bassa e tozza, ma in continuo gesticolare; profilo spiccatamente marcato, una voce metallica e di una tale foga, come se quello che diceva gli fosse scaturito dal più profondo del cuore. Io la chiamo una commedia, perché, molto probabilmente, quando ha luogo questo spettacolo pubbli-co, tutto è già stato fissato, e anche i giudici sanno già quello che diranno.

Uno scrivano secco, in abito nero consunto, un grosso quaderno in mano, si accingeva a fungere da lettore. Inoltre la sala era stipata di spettatori e uditori. Questa volta si trat-tava di una lite importantissima, dato che l’accusa era contro il Doge stesso, o meglio contro la sua consorte. Colpiva specialmen-te la fantasia dei veneziani, il fatto che la do-garessa fosse costretta a comparire dentro al proprio palazzo di fronte a loro.

SCRIVANO …Parché cosí xe usanza di sta Repubblica Serenissima, che un fideicom-misso no pol dirse proprietario, se ghe xe parenti in vita, sani e savi, però el pol passar la commission…

IL COPIONE 27

cuni scaricatoi della Piazzetta di S. Marco che, come nella grande Piazza, sono stati av-vedutamente predisposti per lo scolo dell’ac-qua. Se capita un giorno di maltempo c’è un fango insopportabile. Tutti imprecano, tutti maledicono e, salendo e scendendo dai ponti, tutti si insudiciano i mantelli, i tabarri; e poiché indossano scarpe e calze eleganti, s’inzaccherano tutti, e non si tratta del solito fango, ma di una mota corrosiva.

Se poi il tempo si rimette al bello, nessuno pensa più alla pulizia. Se chi comanda in questa città lo volesse, si potrebbe far tutto;

vorrei sapere se hanno dei motivi politici per lasciare tutto così, o se si lascia tutto correre per un’incomparabile negligenza.

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«Son qua putazze care» (vol.1–n.12) Son qua Putazze Care

s’el scoa camin ve preme, son lesto, comandeme, son qua ve voi servir.

Se ‘l camin sporco avessi, g’ho za la scoa de rusto, v’obedirò con gusto e spero de sortir.

Benché i vostri camini no li ho provai gnancora lassé che vegna sora  e a mi lasseme far.

Benché la scoa sia frusta el manego xé niovo  vardelo e si ve giovo prencipié a comandar.

Su ressolvé per tempo  no fé che perda el gusto  che qua l’osé me frusto e niente no farò.

«Se i fulmini del cielo» (vol.3–n.17) Se i fulmini del cielo

vien zoso a rompicollo, da vu mai no me molo Bettina in verità.

Che vegna pur bravazzi Con spade e con spontoni.

Mai quelli sarà boni scazzarme via de qua.

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[ OTTOBRE ]

Se solo tenessero più pulita la loro città, ciò che sarebbe tanto necessario quanto facile e veramente di grande importanza per quanto ne può conseguire nei secoli a venire. Così ad esempio, è vietato con grave ammenda di riversare alcunché nei canali e di gettarvi immondizie. Non si impedisce però ad un improvviso acquazzone di andare a scova-re tutti i rifiuti accumulati negli angoli e di trascinarli nei canali, anzi, e ciò che è an-cor peggio, di portare le immondizie negli scaricatoi destinati soltanto allo scolo delle acque, disperdendole.

Ho attraversato alcuni quartieri e mi sono recato sulla Piazza; ed essendo appunto do-menica, ho fatto le mie considerazioni sulla sporcizia delle vie. Certamente esisterà un qualche regolamento di polizia in materia.

La gente butta le immondizie negli angoli e vedo anche dei grandi battelli andare su e giù, sostare in certi punti, e portare via la spazzatura; è gente delle isole circostan-ti, che la utilizza come concime. Ma è pur sempre imperdonabile che questa città non sia più pulita, dal momento che essa è vera-mente strutturata per esserlo, così come per qualsiasi città olandese.

Ho visto perfino otturati e pieni d’acqua

al-IL COPIONE 28

ora, quel «Bravo! bravi!» che gl’italiani han-no sempre in bocca, e quindi a un tratto han-non si sentono onorare anche i morti con questo attributo.

La tragedia di ieri mi ha insegnato qualcosa.

Ho visto con quanta abilità il Gozzi abbia saputo fondere le maschere con le figure tragiche. Questo è in verità lo spettacolo per tale popolo, che non vuole venir scos-so in maniera rude. Esscos-so non prende parte alle disgrazie altrui con intima sensibilità, si rallegra soltanto se l’eroe parla bene, poiché qui si dà molta importanza all’eloquio; e poi vogliono ridere o far dire qualche facezia.

Fu divertente quando il Tiranno consegnò a suo figlio la spada, pretendendo che questi uccidesse, Iì per lì, la propria sposa; il popolo cominciò a palesare a gran voce il proprio disappunto, e poco mancò che l’opera non fosse interrotta e che si chiedesse al vecchio di riprendere la sua spada. In tal caso tutto lo svolgimento sarebbe andato a rotoli. Una tale situazione era sciocca e innaturale, e il popolo lo capì subito.

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«Perdonami o mia cara» (vol.1–n.20) –– ––

[ OTTOBRE]

Siamo in un continuo correre attraverso la città, per osservarne il suo operare ed il suo agire e scoprire uno dopo l’altro i suoi tesori.

Palazzo Pisani Moretta: un Paolo Veronese che ci può dare un’idea di tutto il valore del Maestro. La famiglia di Dario che si ingi-nocchia davanti ad Alessandro ed Efesto. È di grande freschezza, come se fosse stato di-pinto ieri e qui risulta la sua arte suprema di riprodurre attraverso i cangianti colori locali Ve pentiré po quando 

no ghe sarà più tempo  o ben demoghe drento  o pur che via anderò.

Se ve ciappasse fuogo imbestialia seressi e presto ciameressi dove xé ‘I scoa camin.

All’ora dell’affronto dopo aver visto la tragedia e, prima di an-dare a letto, te la racconto. Il pezzo non è cattivo. L’autore aveva messo in fila, uno dopo l’altro, tutti i ‘matadori’ della tragedia e gli attori hanno recitato bene. Le situazio-ni, per la maggior parte, erano note; alcune però più nuove e riuscitissime. Alla fine non mancò altro, che i due padri s’infilzassero

All’ora dell’affronto dopo aver visto la tragedia e, prima di an-dare a letto, te la racconto. Il pezzo non è cattivo. L’autore aveva messo in fila, uno dopo l’altro, tutti i ‘matadori’ della tragedia e gli attori hanno recitato bene. Le situazio-ni, per la maggior parte, erano note; alcune però più nuove e riuscitissime. Alla fine non mancò altro, che i due padri s’infilzassero

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