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VENEZIAMUSICA e dintorni. Gondellieder, ossia Goethe e le canzoni da battello FONDAZIONE TEATRO LA FENICE DI VENEZIA

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Academic year: 2022

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VENEZIAMUSICA

e dintorni

G ondellieder, ossia G oethe

e le canzoni da battello

FONDAZIONE TEATRO LA FENICE DI VENEZIA

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Solisti della Venice Chamber Orchestra

Sabina Bakholdina violino Francesco Di Giorgio violoncello Tommaso Bagnati contrabbasso Maddalena Lotter flauto Giorgia Signoretto oboe Marco Dolfin clarinetto Marco Bottet fagotto Ilaria Torresan clavicembalo Andrea Torresan chitarra classica

il retro di copertina è un’opera originale di Sasha Vinci

sponsor tecnico Artesicura, la prima tutela integrale a 360° nel mondo dell’arte produttore esecutivo Associazione G&G

abito per Giulia Alberti Nicolao Atelier

trucco e parrucco per Giulia Alberti Monika & Umberto Beauty Salon per l’Associazione Culturale Italo-Tedesca di Venezia

Nevia Capello, presidente Paolo Marassi, direttore

per il Venice Centre for Digital and Public Humanities, Dipartimento di Studi Umanistici, Università Ca’ Foscari Venezia

Franz Fischer, direttore

Elisa Corrò, ricercatrice in digital cultural heritage e coordinamento riprese Linda Spinazzè, research facilitator

per aA29 Project Room

Gerardo Giurin, fondatore e direttore creativo

Antonio Cecora, cofondatore e amministratore delegato Lara Gaeta, director aA29 Reggio Emilia

Matilde Sambo, artista e filmmaker

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LIRICA E BALLETTO STAGIONE -

Opera inaugurale

Macbeth

Teatro La Fenice

venerdì 23 novembre 2018 ore 19.00 turno A in diretta su

domenica 25 novembre 2018 ore 15.30 turno B martedì 27 novembre 2018 ore 19.00 turno D

giovedì 29 novembre 2018 ore 19.00 turno E sabato 1 dicembre 2018 ore 15.30 turno C

Fondazione Teatro La Fenice

VENEZIAMUSICA

e dintorni

FONDAZIONE TEATRO LA FENICE

Gondellieder, ossia Goethe e le canzoni da battello

Teatro La Fenice

venerdì 18 settembre 2020 ore 19.00

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Angelica Kauffmann, Ritratto di Johann Wolfgang von Goethe (1787), Goethe Nationalmuseum, Weimar.

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SOMMARIO

La locandina 5

Johann Adolph Hasse, il divino Sassone: ovvero reggere agli insulti della Storia 7 di Nevia Capello

Un quadretto di vivacità veneziana

Goethe, Hasse e il riverbero delle barcarole nelle arti del Settecento 11 di Giulia Alberti, Diego Mantoan, Pietro Semenzato

Il copione 22

Biografie 35

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Balthasar Denner, Ritratto di Johann Adolph Hasse (ca.1740), Staatsoper, Dresda.

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Gondellieder, ossia Goethe e le canzoni da battello

testi di

Johann Wolfgang Goethe

dalle pagine del Diario veneziano (1786)

pubblicate nella «Italienische Reise», prima edizione 1816

tradotte da Nevia Capello in Goethe nel Veneto (Stamperia Valdonega, VR, 1986)

musica di

Johann Adolph Hasse

dalla raccolta Venetian Ballads

trascritta da Adamo Scola e pubblicata a Londra da Walsh (1742-1748) adattata da Pietro Semenzato per Edition Walhall, Magdeburgo, 2020

con la partecipazione straordinaria di

Ottavia Piccolo

soprano

Giulia Alberti

maestro concertatore e direttore

Pietro Semenzato

idea e adattamentoDiego Mantoan regiaChiara Clini

effetti visivi Sasha Vinci traduzioniNevia Capello assistente di produzione Anna Sanachina

Solisti dellaVenice Chamber Orchestra

nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice con il patrocinio e contributo del Goethe Institut

con il patrocinio del Consolato Generale della Repubblica Federale di Germania Milano realizzato da Associazione Culturale Italo-Tedesca di Venezia

e Venice Centre for Digital and Public Humanities, Dipartimento di Studi Umanistici, Università Ca’ Foscari Venezia

production partner aA29 Project Room

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Frontespizio del Demetrio di Johann Adolph Hasse (Teatro di San Giovanni Grisostomo, 1732).

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7

Sembra incredibile che una scoperta d’importanza storica vada ascritta a Don Nardino Mazzardis, il parroco di San Marcuola, il mio parroco, che nell’estate del 1982 mi invitava a raggiungerlo per presentarmi, con un senso di animata sorpresa, due documenti olografi rinvenuti nel suo archivio. Si trattava del testamento e del certificato di morte di Johann Adolph Hasse. Ne seguì la visita della chiesa, elegante fabbrica a pianta centrale costruita dal Massari, sul cui pavimento erano tracciati i perimetri di due tombe, che a malapena si scorgevano semicelate dalle file di banchi. Perfettamente affiancate. Nell’area centrale, recavano incisi i nomi di Johann Adolph Hasse e di Faustina Bordoni. Con una scrittura minuta e ordinata, il notaio aveva stilato in lingua italiana il testamento dettatogli da Hasse, impedito da un’incipiente cecità.

All’iniziale commozione, accentuatasi a un sopralluogo nella cantoria nel vedere le canne dell’organo (su cui aveva suonato Hasse) adagiate sul pavimento in un angolo, subentrò l’impellente urgenza di indagare la figura di un compositore che aveva imperato in Europa nel XVIII secolo, cui la storia ingrata ne aveva, a dir poco, cancellata la memoria.

Ero stimolata inoltre dal testo del documento, dal quale trapelava il carattere generoso e conciliante del compositore, già emerso allorché Hasse, nell’ultimo anno di soggiorno presso la corte di Vienna, aveva reagito alle critiche dei sostenitori di Christoph Willibald Gluck, astro nascente, trasferendosi nella sua amata Venezia – come oso immaginare – con un «mi no vado a combater», frutto di un atteggiamento assorbito nei lunghi anni di dimestichezza con la parlata ed il temperamento veneziano. Qui si rivolgeva espressamen- te alla figlia Maria, invitandola a condividere la sua scelta di lasciare in eredità ai domestici il loro guardaroba e varie suppellettili, a ricompensa della dedizione loro dimostrata nel corso di una vita. Il certificato di morte, redatto dal medico, parlava di un’influenza inte- stinale, che aveva portato Hasse nella tomba il 23 dicembre 1783, due anni dopo la morte dell’amata Faustina.

Ulteriori notizie arricchirono questo primo approccio, allorché entrai in contatto con la signora Tempke, una giornalista che curava un piccolo archivio di Hasse a Berge- dorf–Hamburg, sua città natale. Le feci pervenire copia dei documenti tradotti in tedesco.

Con il sostegno della Città di Venezia, venne programmata la celebrazione del Giubileo del «caro Sassone», come i melomani amavano chiamarlo nella sua epoca. La Hasse-Ge- sellschaft, Bergedorf, presentò nella Chiesa di San Marcuola, gremitissima, in presenza di

Johann Adolph Hasse, il divino Sassone: ovvero reggere agli insulti della Storia

di Nevia Capello*

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Rosalba Carriera, Ritratto di Faustina Bordoni (ca.1730), Ca’ Rezzonico, Venezia.

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9 tutte le reti televisive italiane, l’Oratorio di Hasse I pellegrini sul Golgotha per cinque voci soliste e orchestra. In onore di questa rinascita, nacque a Venezia l’Associazione Johann Adolph Hasse ad affiancare il lavoro dei partner tedeschi, incrementato dal successo del Giubileo. Nell’assunzione dei ruoli per favorire la promozione di Hasse e della sua ope- ra, l’Archivio di Bergedorf s’impegnava nella ricerca filologico–musicale e nella diffusione dell’opera di Hasse nei teatri europei; Venezia, nel restauro della Chiesa di San Marcuola, troppo spesso danneggiata dall’imperversare della marea. Con l’aiuto della sovrintendente Margherita Asso e della Curia patriarcale, la neonata associazione musicale raggiunse il suo intento, realizzando il consolidamento del tetto della Chiesa, seguito, grazie all’intervento della sovrintendente Nepi Sciré insieme con gli studenti dell’Accademia di Venezia – da una rimozione delle incrostazioni accumulatesi sulle parteti interne per il fumo delle can- dele, depositato nei secoli. Intanto Bergedorf faceva onore al suo impegno, approfondendo la ricerca dell’opera di Hasse e riuscendo a inserire le sue opere nella locandina dei teatri dell’opera di Dresda, Lipsia, Praga e Vienna.

Vorrei chiudere questo excursus presentando al lettore alcune tappe significative della vita di Hasse, tanto ricca di eventi, per cui mi si perdoni la stringatezza che potrà solo stimo- lare il vostro interesse. Si deve alla sensibilità dei suoi genitori il precoce esordio in campo musicale di Hasse, nato il 25 marzo 1699, che a tredici anni aveva già raggiunto una conside- revole notorietà come tenore tra i cantanti del Teatro d’Opera di Amburgo. Nel 1722 il poeta della corte di Polonia a Dresda, Johann Ulrich König, suo protettore, lo mise a sovrintendere agli spettacoli del duca di Braunschweig. A diciotto anni Hasse fece eseguire nella medesi- ma città, con un discreto successo, la sua prima opera, l’Antigone. Conscio della necessità di approfondire gli studi di armonia, due anni più tardi iniziava il suo viaggio di noviziato in Italia. Approdò a Napoli, dove poté forse frequentare le lezioni di Nicola Porpora, alle quali seguirono più probabilmente gli studi con Alessandro Scarlatti. Su incarico di un ricco ban- chiere, scrisse la Serenata Marc’Antonio e Cleopatra, il cui successo fu determinante per la sua carriera che si sviluppò poi a Venezia. Qui conobbe Faustina Bordoni, la «nuova sirena» pu- pilla di Benedetto Marcello, dotata di una voce eccezionale. Sarà sua moglie e l’interprete di tutte le sue opere future. A Venezia compose l’Artaserse, cavallo di battaglia del Farinelli e fra le maggiori opere del Settecento, oltre al Miserere, considerato uno tra i maggiori capolavori della musica sacra. Ottenne anche la nomina di maestro di Cappella al Conservatorio degli Incurabili di Venezia. A lui vennero attribuite le tre antologie di Gondoliere o Canzonette veneziane pubblicate a Londra da John Walsh (1742-1748).

Invitato nel 1731 con Faustina alla corte di Polonia, fece eseguire a Dresda la Cleo- fide che gli valse la nomina ufficiale a Kappellmeister di Dresda diventando uno dei compo- sitori più ammirati e ambiti d’Europa. Le sue opere e composizioni furono rappresentate da Parigi a Vienna, da Dresda a Napoli, passando per tutte le principali piazze musicali italia- ne. Federico II di Prussia, avendo ascoltato un’opera di Hasse, ne espresse il plauso con una generosa ricompensa e lo volle a corte. Purtroppo Hasse ebbe un’amara delusione: nel 1755, nell’assedio di Dresda da parte dei Prussiani, perdette tutti i suoi manoscritti. Sentendosi trascurato e privo di protezione, lasciò Dresda e si diresse a Vienna, accettando l’incarico offertogli da Maria Teresa d’Austria di impartire lezioni di cembalo alla figlia Maria Anto- JOHANN ADOLPH HASSE, IL DIVINO SASSONE

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nietta. Nel 1773 tornò a Venezia con Faustina, dove aveva sempre mantenuto la sua dimora nel sestiere di Cannaregio, a San Marcuola, che raggiungeva annualmente in estate quando il principe elettore si recava in Polonia. Il suo decesso avvenne a Venezia a ottantaquattro anni. Le sue ultime composizioni furono un Te Deum e un Requiem, che aveva destinato a sé stesso e affidato a Joseph Schuster. Hasse ha saputo esprimere fino all’ultimo il suo amore per Venezia, che ha voluto eleggere a sua ultima dimora, guidato dall’idea che il semplice, il naturale e il patetico fossero più che sufficienti per affascinare l’orecchio e per toccare il cuore, cercando melodie genuine e spontanee. Charles Burney, che ne apprezzava il talento, gli riconosceva «scienza, eleganza e semplicità».

La presenza di Hasse è sempre tra noi e ci onora per la sua grandezza. Noi non ab- biamo saputo però mantenere il nostro impegno nei suoi confronti. Troverà realizzazione, il giorno in cui le canne del suo organo avranno riguadagnato la collocazione che loro spetta.

*Presidente ACIT di Venezia, Prüfungszentrum Goethe Institut

NEVIA CAPELLO

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IN INCOGNITO FRA CALLI E TEATRI

Il 28 settembre del 1786 alle cinque del pomeriggio, Goethe entrava con il Burchiello dalla Brenta nella laguna e, nell’intravvedere la sagoma di Venezia, giungeva a un incontro assai agognato.2 Da tempo aveva atteso di vedere con i propri occhi quella città anfibia, quella

‘Repubblica dei castori’ magnificata dal padre, dopo un viaggio compiuto quarant’anni pri- ma, da cui gli aveva recato un modellino di gondola.3 Fu proprio la vista dei primi rostri a risvegliare in Goethe il ricordo di meravigliosi racconti d’infanzia, quasi si fosse destato da un lungo sogno.4 Tappa importante della sua fuga italiana, Venezia – dove risiedette una dozzina di giorni – alimentò tutta la sua curiosità fanciullesca e i suoi interessi d’intellettua- le. Passava i giorni a osservare la delicata natura e la varia umanità della laguna, mentre tra- scorreva le sere a teatro per assistere a opere e concerti, commedie e tragedie. In nessun’altra città come a Venezia egli frequentò con tanta assiduità eventi culturali e manifestazioni pubbliche, scorgendo proprio nel teatro e nel popolo che vi affluiva la rappresentazione del- lo spirito indipendente e della maturità civica dei Veneziani.5 Nelle annotazioni del diario epistolare che tenne da Karlsbad a Venezia lodò, infatti, le proteste del pubblico dinnanzi allo sviluppo innaturale nella trama di una pièce di Carlo Gozzi, forse l’opera spagnolesca Amore assottiglia il cervello,6 tanto da costringere gli attori a intervenire per sedare gli animi (5 ottobre). Un’autentica epifania la ebbe, invece, quando al Teatro di San Luca assistette a Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni (10 ottobre), dove comprese come il popolo e la scena si fondessero in un tutt’uno durante la recita, divenendo l’uno lo specchio dell’altro ed entrambi custodi della polis come accadeva con il teatro per gli Ateniesi.7

Queste osservazioni in Goethe nacquero per un’immersione pressoché totale negli usi e nei costumi della Venezia tardo settecentesca, per quanto lo consentissero la sua com- prensione linguistica o la corretta traduzione dei suoi intermediari, poiché aveva scambiato il privilegio della sua posizione – ministro a Weimar e già elevato alla nobiltà – con quello dell’anonimato, viaggiando solo e in incognito, come un semplice mercante.8 Nel Diario l’ammirazione di Goethe per i Veneziani traspare con grande franchezza, nonostante la Se- renissima mostrasse i segni della stanchezza di un ordine troppo antico, incarnato dal volto anziano del doge col suo corteo (6 ottobre). Agli occhi del poeta tedesco Venezia assurgeva a

Un quadretto di vivacità veneziana

Goethe, Hasse e il riverbero delle barcarole nelle arti del Settecento

di Giulia Alberti, Diego Mantoan, Pietro Semenzato

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monumento non di un sovrano, bensì di un popolo intero, di un Volk inteso come entità uni- taria che si riconosce nei suoi modelli politici, sociali e culturali.9 Non che Goethe – ammi- nistratore sapiente quale si era dimostrato in Germania – non trovasse nulla da disapprovare nelle abitudini della città lagunare, come dimostrano le sue critiche circa l’asporto dei rifiuti (1 ottobre) e la scarsa pulizia dopo ogni pioggia (9 ottobre). Il giudizio sulla Roma oscu- rantista, tuttavia, non fece che accrescere l’alta considerazione per i Veneziani, un’opinione che non mutò d’una virgola nei trent’anni che separarono il Viaggio in Italia dalla sua pub- blicazione nel 1816, nonostante la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche avessero

ormai cambiato il mon- do.10 Colpisce la sostan- ziale adesione fra le due versioni, a dimostrazione che il Diario veneziano – redatto a caldo giorno per giorno e trasmesso a Charlotte von Stein, destinataria di un amo- re vissuto come pathos – conteneva già le impres- sioni definitive di Goethe su Venezia, una «imma- gine ricca, singolare e unica» (14 ott.).11

L’ESPERIENZA SONORA DELLA LAGUNA

Dal Diario si evince come Goethe avesse re- cepito un’immagine di Venezia caratterizzata da una rilevante dimensione sonora che comprendeva sia i rumori della città, sia la sua cultura mu- sicale. Per quanto con- cerne la prima, il poeta rimase colpito da oratori, ciarlatani, commedianti, commercianti e predica- tori che si esibivano nella pubblica piazza, perlopiù incrociati per caso.12 Ri-

Incisione dalle Baruffe chiozzotte (M. Baratti, ripubblicate nel 1915).

UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA

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13 guardo la seconda, Goethe non lesinò la ricerca di ascolti mirati per scoprire la ricca varietà di manifestazioni caratteristiche, dal teatro alla musica popolare. A questo proposito è bene sfatare il mito che lo voleva disinteressato e persino disinformato rispetto alla musica del suo tempo;13 al contrario, fu ascoltatore erudito e si applicò in prima persona alla trasposi- zione in musica di opere e poesie proprie, come nel caso del Wilhelm Meisters Lehrjahre.14 Spicca, inoltre, la sua passione per le opere di Mozart, tanto che al teatro di Weimar fece mettere in scena il Don Giovanni ben sessantotto volte.15 Per non parlare del suo apporto alla traduzione con L’impresario in angustie, un intermezzo metateatrale di Cimarosa,16 che volle dedicare alla pittrice Angelica Kauffmann, tenera compagna dei tempi romani.17 Le annotazioni di Goethe durante la permanenza in laguna vanno lette, pertanto, come l’opi- nione di una personalità assai pratica di musica – non solo come ascoltatore, ma soprattutto quale librettista e impresario. La prima tappa fu la visita all’Ospedale dei Mendicanti, per comprendere la preparazione di base attuata nei ‘conservatori’. Pur stimando le voci delle giovani allieve, il suo disappunto per il maestro che batteva rumorosamente il tempo con un rotolo di spartiti contro la grata, pratica assai comune in Francia, rende evidente la co- noscenza di Goethe in fatto di prassi esecutiva (3 ottobre). La stessa sera si recò al Teatro di San Moisé per assistere a un’opera non identificata che non gli piacque affatto, consi- derandola mal eseguita e priva di energia interiore. Sorprendente fu, invece, la scoperta delle canzoni da battello, a cui si riferisce designandole come i «canti dei barcaioli» o dei

«gondolieri» (6 ottobre).18 Seppur appaia casuale, questo incontro testimonia l’ubiquità e la peculiarità di tale repertorio – per certi versi si potrebbe affermare che gli stessi Veneziani ritenessero indispensabile un assaggio di tale genere musicale, fino al punto di organizzare esperienze apposite per ospiti stranieri. «Per questa sera mi ero procurato i famosi canti dei gondolieri», sono le parole del poeta, da cui si deduce come abbia volutamente richiesto di assistere a un concertino di barcarole.19 Il fatto che tale esperienza fosse relegata agli ultimi giorni della sua permanenza suggerisce l’ipotesi di come egli attribuisse un valore minore a questo repertorio, per quanto stuzzicasse, comunque, il suo interesse proto-antropologico o folkloristico. Non è un caso che Goethe segnali nel Diario con viva curiosità sia il conte- nuto aulico di taluni brani – legati ai versi del Tasso e dell’Ariosto – sia la presunta genesi complessiva del repertorio dei canti dei pescatori di Pellestrina.20

Lo stupore di Goethe si riflette nella sua descrizione in chiave estetica in chiave estetica, dai toni estatici, dei canti dei gondolieri, a dimostrazione del fatto che l’espe- rienza gli suscitò emozioni assai più forti rispetto di quelle provate di fronte al teatro musicale, con il quale aveva già confidenza. A ciò non contribuì soltanto l’assoluta man- canza di termini di paragone musicale, bensì soprattutto l’assenza di filtri intellettuali:

oltre a non conoscere il genere, Goethe non capiva il veneziano e, pertanto, poteva ag- grapparsi unicamente al contesto fisico-geografico dell’esecuzione oppure alle valutazio- ni spontanee derivate dall’atmosfera, dallo stato d’animo, tanto da attribuire la commo- zione alla personale Stimmung. Il poeta si dilunga nel descrivere le sensazioni acustiche legate alla prassi esecutiva; ricorda come venne fatto camminare fra i cantori, su e giù, ora avvicinandosi ora distanziandosi, così da avvertire il dischiudersi del senso profondo di tale canto. In parte è lecito sospettare che la mediazione dei suoi accompagnatori UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA

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abbia adulterato l’esperienza, alterandone la percezione, oppure perfino romanzandone alcuni aspetti. Fa sorridere che un simile atteggiamento esistesse fin dagli albori del grand tour e che potesse talora trarre in inganno anche un attento osservatore come Goethe, fino a scatenarne un profondo coinvolgimento. D’altronde Venezia era una città abituata da secoli a rallegrare i propri ospiti e lo faceva proponendo una vasta, quanto variegata gamma di esperienze culturali e di svago – basti pensare alla stessa genesi del teatro musicale ai tempi di Monteverdi, per non parlare della commedia e dei ridotti, degli intrattenitori di piazza e dei casini.21

VENEZIA IN IMMAGINI E CANZONI

Può apparire curioso che Goethe non si sia inte- ressato minimamente alla produzione artistica veneziana coeva, nono- stante essa rispecchiasse appieno i suoi interessi naturalistici e proto-et- nologici. Influenzato dalle idee classiciste di Winckelmann22, nel suo Diario sdegnò del tutto vedutisti e paesaggisti, che pure presentavano visioni urbane avventu- rose come quelle che egli cercava arrampicandosi sui campanili (30 set- tembre). Per non parlare dell’assenza di commenti circa la pittura di gene- re, come quella di Pietro Longhi o di Francesco Guardi, nonostante si prestasse quale corollario visivo ideale per la descri- zione letteraria che il po- eta fece di Venezia e dei suo abitanti.23 Proprio in Longhi si trovano scene che mostrano usi, costu- Gian Battista Tiepolo, Il banchetto di Cleopatra (1745–1747), Palazzo Labia,

Venezia.

UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA

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15 mi e intrattenimenti della società lagunare, fra cui figurano diversi riferimenti a momenti musicali.24 In primis si ricorda Il concertino (1741) alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nel quale si scorgono tre esecutori che suonano da fogli manoscritti sciolti, come accadeva per il repertorio delle canzonette veneziane.25 Due violinisti sono in veste da camera, sono forse i giovani allievi della famiglia benestante, mentre il terzo con occhiali e giacca scura pare essere il maestro di musica. Nella collezione di Ca’ Rezzonico si scorge un suonatore nella Polenta (1735-1741), e sono, inoltre, conservati alcuni disegni che raffigurano musicisti impegnati negli intrattenimenti privati.26 Vi è infine Il concertino (1750-1755) all’Accademia di Brera che presenta, in- vece, due esecutrici, con fogli singoli manoscritti, ritratte in un’occasione familiare.27 Abbondano nelle rappresentazioni di Longhi i momenti musicali ascrivibili al re- pertorio delle canzoni da battello, così come do- vevano abbondare nella quotidianità veneziana dell’epoca, al punto che perfino Giambattista Tiepolo trovò il modo di collocare dei musici – an- cora un piccolo comples- so con fogli manoscritti sciolti – sopra la scena del Banchetto di Cleopa- tra negli affreschi per il salone di Palazzo Labia (1745–1747).28 L’episo- dio antico è collocato nell’atmosfera dei ricevi- menti, ovvero dei ‘freschi’

veneziani, un momen- to che pure per Tiepolo – nonostante le diverse stratificazioni storiciste tipiche della sua pittura – risultava inscindibile dall’accompagnamento musicale.29

Pietro Longhi, Il concertino (1741), Gallerie dell’Accademia, Venezia.

UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA

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Vi sono alcune interessanti coincidenze che legano gli affreschi di Tiepolo a Johann Adolph Hasse, celebre a Venezia per i suoi successi teatrali dal 1728 in avanti, il quale proprio negli stessi anni delle decorazioni pittoriche collaborava con Angelo Maria Labia fornendo alcune operine per il suo teatro di marionette a San Girolamo, fra cui si ricorda Lo starnuto d’Ercole (1745).30 E sempre nel periodo, fra il 1742 e il 1748, uscivano a nome del compositore tedesco i tre volumi editi a Londra dal Walsh che andavano sotto il titolo di Venetian Ballads Compos’d by Sig.r Hasse and all the Celebrated Italian Masters. La raccolta ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione della canzone da battello, trattandosi del corpus a stampa più esteso – oltre duecento brani – e l’unico conservato al di fuori di Venezia, dove invece il repertorio circolava perlopiù in antologie manoscritte.31 La titolarità di Hasse – del quale la raccolta include un solo brano certo su testo di Metastasio, Grazie agl’inganni tuoi – fu probabilmente usata come espediente pubblicitario, data la sua notorietà a livello europeo, ma si possono circostanziare le relazioni con Adamo Scola, il copista che diede alle stampe i volumi.32 Virtuoso di origini napoletane trapiantato a Londra, dove fu attivo come clavicembalista dal 1728 al 1748, Scola non ebbe il successo sperato sulle scene della capita-

Frontespizio delle Venetian Ballads di Johann Adolph Hasse (Walsh, Londra 1742)

UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA

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17 le inglese, motivo per cui ripiegò spesso sull’attività editoriale sfruttando le sue conoscenze dirette con alcune delle celebrità musicali italiane dell’epoca.33 Nel 1734 si occupò dell’e- dizione londinese dell’oratorio David e Betsabea di Nicola Porpora34, poi nel 1739 stampò trenta sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti35, impreziosite da un frontespizio dell’incisore Jacopo Amiconi, molto vicino a Farinelli.26 Quest’ultimo era stato collega negli anni londinesi dell’acclamata cantante veneziana Faustina Bordoni, che in seguito sposò Hasse in un chiacchierato matrimonio segreto a Venezia nel 1730.37 A sua volta Hasse era giunto a Napoli nel 1722 per perfezionarsi con Alessandro Scarlatti, padre di Domenico, facendo la conoscenza di Pietro Metastasio per poi avviare la propria carriera con enorme successo dal 1725 assieme a un Farinelli appena ventenne.38 Non bastasse questa fitta rete di relazioni incrociate, è notevole come la dedica «a Sua Eccellenza Carlo Sackvill Conte di Middelsex» nelle Venetian Ballads si sovrapponga a quella di Hasse – dieci anni prima – per Il Demetrio su testo di Metastasio e con Faustina protagonista al Teatro Grimani di San Grisostomo, quando l’allora giovane rampollo inglese era presente a Venezia per il Carne- vale in una tappa del suo grand tour.39 In forza di queste circostanze è lecito supporre che Scola e Hasse si conoscessero fin dai tempi degli studi a Napoli. Dopo le edizioni di Porpora e Scarlatti, Scola evidentemente andava cercando un altro repertorio da pubblicare per sbar- care il lunario, cosicché, forse, domandò al vecchio amico tedesco, ormai divenuto celebre, di mandargli qualcosa. Difficile sapere se Scola avesse già in mente le canzoni veneziane che la stessa Faustina amava eseguire; magari furono proprio lei e il marito a suggerire di racco- gliere quei brani enormemente diffusi in laguna. A ogni modo duecento e più brani finirono per essere dati alle stampe in una versione ripulita, grazie alla quale si ricava un’immagine sonora vivissima della Venezia settecentesca.

FRA LIRISMI E TEATRO DI COMMEDIA

A lungo la storia della musica e ancor più le odierne istituzioni musicali hanno obliato la canzone veneziana, nonostante la diffusione e l’ammirazione cui furono soggette nel Set- tecento, per non parlare del richiamo esplicito a quel tratto di venezianità riscontrabile in talune opere ottocentesche – si pensi fra gli altri all’Elisir d’amore di Donizetti, Un ballo in maschera di Verdi, Les Contes d’Hoffmann di Offenbach. La recente sfortuna di questo repertorio è dovuta forse all’equivoco circa la sua presunta semplicità e al gusto popolare. Si trattava piuttosto di un genere leggero – ossia volutamente in contrasto con la tradizione impegnata del teatro musicale barocco – che all’analisi rivela caratteristiche del tutto ana- loghe ai Notturni.40 L’utilizzo del veneziano enfatizzava ancor più la distanza dalla lirica e l’accostamento, invece, ai sentimenti della città e dei suoi abitanti. Il linguaggio utilizzato si sovrappone perfettamente a quello del teatro di commedia, oppure agli intermezzi musicali, come quelli di Carlo Goldoni, facendo ricorso a termini popolari. Ci si imbatte, ad esempio, nella parola ‘mamera’ o ‘mamara’ – ossia bertuccia, dunque intesa come modo di apostrofare una persona per la sua stoltezza – sia nell’avvio delle Baruffe chiozzotte che nella canzone Cos’è sta cossa. Sempre Goldoni dimostrò la centralità di questo repertorio per ricreare in scena l’atmosfera dell’epoca, collocando una canzonetta in apertura (atto I, scena 1) sia nel Bugiardo sia – alla francese – nella Vedova scaltra.41 Proprio come nel teatro di commedia o UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA

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negli intermezzi, il soggetto delle canzoni veneziane risulta realistico e immediato, lezioso e, talvolta, condito di allusioni erotiche poco velate.42 Colpisce a tal proposito l’opinione di Saverio Bettinelli che già a fine Settecento lodava «certe facili canzonette veneziane grazio- sissime, sparse di prosetta e di negligenza».43 Il problema linguistico delle canzoni veneziane è dato, però, dalla loro struttura strofica che spesso provoca la mancata sovrapposizione fra sillabazione e linea melodica e che va pertanto adeguata via via per non risultare innaturale.

In quanto alle tipologie, nelle Venetian Ballads, come in altre antologie, ne ricorrono varie, quali la serenata galante, il canto popolare, il personaggio di commedia, la poesia mu- sicata o persino canzoni d’autore celebre. La struttura, invece, rimane pressoché invariata, a voce sola con basso continuo e rigidamente strofica con la melodia intonata su due parti secondo la forma binaria AB in tempo andante, laddove nella seconda sezione cala in genere un’armonia oscura risolta sul finale proprio come nella forma lirica delle arie d’opera italiana della prima metà dell’Ottocento.44 Tuttavia si possono riscontrare dei riverberi nella lirica già molto prima, perfino in Mozart, a giudicare dalla serenata strofica Deh, vieni alla finestra di Don Giovanni, oppure dalla somiglianza melodica con l’aria di Dorabella «È amore un ladroncello».45 Circa la prassi esecutiva, le canzoni veneziane erano spesso suonate da ter-

Pagina di spartito dalle Venetian Ballads di Johann Adolph Hasse (Walsh, Londra 1742)

UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA 18

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zetti – melodia, linea del basso e basso realizzato da uno strumento polifonico – a una o due voci, come testimoniato da Charles Burney46, pertanto il ruolo fondamentale lo giocavano i cantanti – soprani, sopranisti, contraltini e tenori – fra cui figuravano cantatrici ricono- sciute come Rosanna Scalfi o la stessa Faustina Bordoni.47 Per favorire la trasversalità del repertorio la scrittura delle barcarole è tendenzialmente centrale, ma si riscontrano tessiture assai acute che si adattano probabilmente al falsettone maschile per i sovracuti in uso fino alle farse rossiniane.48

La canzone da battello nel Settecento veneziano costituiva dunque un macro-ge- nere che riassumeva un vasto repertorio di ariette e riempiva atmosfericamente i ‘freschi’ e il Carnevale, nei palazzi e nelle calli, nelle barche e nelle ville. La pervasività delle canzoni da battello nel loro secolo di massimo splendore ritrae una Venezia immersa nella musica leggera e cantabile in ogni suo angolo. Siamo di fronte a un genere «povero ma illustre», come ebbe a definirlo il musicologo Giovanni Morelli – un genere squisitamente veneziano tramandatoci da due grandi artisti tedeschi.

UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA 19

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Note

1 Il saggio è stato concordato dai tre autori e risulta suddiviso nei seguenti paragrafi: i primi due sono scritti da Diego Mantoan, il terzo da quest’ultimo (per le parti storico artistiche) assieme a Giulia Alberti (per la parte musicologica), il quarto infine da Giulia Alberti (per la parte linguistica e teatrale) assieme a Pietro Semenzato (per la parte compositiva e la prassi esecutiva).

2 Per la Italienische Reise si fa riferimento all’edizione Berlino: Verlag der Contumax, 2016.

3 Per il viaggio del padre del 1740 cfr.: Mönig, K., Venedig als urbanes Kunstwerk. Heidelberg: Winter Verlag, 2012.

4 Cfr. Mayer, M., Goethes Venedig. Berlino, Suhrkamp, 2015.5

5 Puszkar, N., Goethes Volksbegriff und Habermas’ Begriff der Lebenswelt, «German Studies Review», Vol.30/1, p.81.

6 Gutiérrez Carou, J., Il teatro spagnolesco di Carlo Gozzi, Venezia, Lineadacqua 2011, pp.307–322.

7 Puszkar, Goethes Volksbegriff, p.88.

8 Cfr. Gretzschel, M., Babovic, T., Goethe in Weimar. Amburgo, Ellert & Richter, 2005.

9 Mommsen, W., Die politischen Anschauungen Goethes. Stuttgart: Deutsche Verlags-Anstalt, 1948, p.227.

10 Puszkar, Goethes Volksbegriff, p.89.

11 Cfr. Capello, N., Goethe nel Veneto. Verona, Stamperia Valdonega, 1986.

12 Puszkar, Goethes Volksbegriff, p.75.

13 Istel, E.,Goethe and Music, «The Musical Quarterly», Vol.14/2, 1928, p.216.

14 Selbmann, R., Noch einmal und immer wieder, In Goethe und die Musik, Hettche, W., Selbmann, R. (a cura di).

Würzburg, Königshausen & Neumann, 2012, pp.51-65.

15 Hettche, Selbmann, Goethe und die Musik, p.9.

16 Istel, Goethe and Music, pp.225–226.

17 Cfr. Naumann, U., Geträumtes Glück: Angelica Kauffmann und Goethe. Berlino: Suhrkamp, 2012.

18 Istel, Goethe and Music, p.224.

19 «Auf heute Abend hatte ich mir den famosen Gesang der Schiffer bestellt […]» (6 ott.)

20 La tipologia mista delle canzoni riportata da Goethe trova riscontro nella varietà di generi contenuta nelle antologie settecentesche.

21 Mantoan, D., Prove generali di teatro musicale in Laguna, «Venezia Arti», vol. 22–23, pp.84–88.

22 A tal proposito bisogna considerare che Goethe era stato influenzato dalle posizioni di Winckelmann e attri- buiva valore all’arte raffigurativa prevalentemente nella misura in cui trattasse argomenti antichi. Questo spiega quanto poco si interessò alla pittura veneziana coeva, se non quella dei grandi maestri del passato quali Tiziano e Veronese, del quale apprezzò La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro (1565–67) a Palazzo Pisani Moretta (8 ott.). Heusler, A., Goethe und die italienische Kunst. Paderborn: Salzwasser, [1891] 2012, pp.5-6.

23 Bagemihl, R., Pietro Longhi and Venetian Life, «Metropolitan Museum Journal», vol. 23, 1988, pp.233–247.

24 Fra questi si segnala di incerta collocazione Il concertino, forse del 1752, in cui Longhi presenta una canta- trice accompagnata da un suonatore di mandola in ambito domestico: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Pie- tro_Longhi_008.jpg

25 Rif. Pietro Longhi, Il concertino, Catalogo 466, 1741, olio su tela, Dono Girolamo Contarini (1838).

26 Si vedano nella collezione di Ca’ Rezzonico i disegni carboncino e gessetto bianco di Pietro Longhi: (1) Il suonatore di mandolino; Inv. 557; cat. 996; (2) Suonatore di mandola; Inv. 443; cat. 1025; (3) Suonatore di mandola seduto; studi di teste e di gambe; Inv. 455; cat. 1071

27 Rif. Pietro Longhi, Il concertino, Inv. 2084, 1750-55, olio su tela, acquisto 1911.

28 Fahy, E., Tiepolo’s Meeting of Antony and Cleopatra, «The Burlington Magazine», vol. 113/825, 1971, pp.737–736.

29 Pignatti, T., Tiepolo’s Revival of the Venetian Golden Age, «Bulletin of the American Academy of Arts and Sciences», vol. 46/6, 1993, pp.31–39.

30 Mellace, R., Johann Adolf Hasse, Palermo, L’Epos 2004, pp.57–58.

31 Morelli, G., Un genere povero ma illustre, in Canzoni da battello, Barcellona, S., Titton, G. (a cura di). Venezia, Regione Veneto, 1990, p. 5.

32 Sirch, L., Piras, M., Notturno italiano, «Rivista Italiana di Musicologia», Vol. 40/1–2, 2005, p.167.

20 UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA

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33Cfr. Scola, Adamo in Highfill, P.H., Burnim, K.A., Langhans, E.A., A biographical dictionary of actors, actresses, musicians, dancers, managers and other stage personnel in London 1660 - 1800, Vol. 13.

34 Mattei, L., Porpora e l’oratorio all’italiana, in Nicola Porpora musicista europeo, Pitarresi, G., Macavino N. (a cura di), Reggio Calabria, Laruffo 2011, p.161.

35 Kirkpatrick, R., Domenico Scarlatti’s Early Keyboard Works, «The Musical Quarterly», vol. 37/2, 1951, p.145.

36 Clark, J., His Own Worst Enemy, «Early Music», Vol. 13/4, 1985, p.543.

37 Woyke, S.M., Faustina Bordoni, Francoforte, Peter Lang 2010, pp.56-59.

38 Mellace, Hasse, pp. 38-40.

39 Si veda il frontespizio del Demetrio (1732): https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Johann_Adolph_Has- se_-_Demetrio-titlepage_of_the_libretto-Venice_1732.png

40 Sirch, Piras, Notturno italiano, pp.166-167.

41 Cfr. Goldoni, C., Commedie. Mangini, N., Ortolani, G. (a cura di), Torino, Utet 2013.

42 Barcellona, S., La canzone da battello nel Settecento veneziano, in Canzoni da battello, p. 9.

43 Bettinelli, S., Lettere sopra gli epigrammi (1792), in Illuministi italiani, II. Milano–Napoli, Ricciardi, 1969, p.1226.

44 Sirch, Piras, Notturno italiano, pp.169-171.

45 La si confronti con l’incipit della canzone veneziana Quel occhi me fé guerra.

46 Burney, C., Viaggio musicale in Italia (trad. Fubini, E.). Torino, EDT 1979, p.137.

47 Barcellona, La canzone da battello, p.10.

48 Si rammenti a tal proposito l’aria di Dorvil «Vedrò qual sommo incanto» nella Scala di seta.

21 UN QUADRETTO DI VIVACITÀ VENEZIANA

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Gondellieder, ossia Goethe e le canzoni da battello

Estratti dal Diario veneziano (1786) di Johann Wolfgang Goethe tradotto da Nevia Capello

Testi delle canzoni veneziane dalle Venetian Ballads (1742-1748) di Johann Adolph Hasse selezionati da Giulia Alberti e Diego Mantoan

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serci forse una sola persona che mi conosca e quella certamente non m’incontrerà.

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«Me cavo dal seco» (vol.1–n.4) –– ––

[ SETTEMBRE, GIORNO DI SAN MICHELE, SERA]

Tutto ciò che si può dire su Venezia è già sta- to detto e stampato, perciò riporto soltanto poche impressioni, così come le ricevo. L’i- dea fondamentale, che qui nuovamente mi sollecita, è sempre il popolo. Questa gente non è riparata su queste isole per capriccio;

fu la sorte a rendere la loro posizione così favorevole; il loro proliferare, la loro ricchez- za ne furono una conseguenza necessaria.

Si pigiarono in uno spazio sempre più ri- stretto; sotto i loro piedi sabbia e palude di- vennero roccia; le loro case cercarono l’aria, come alberi al chiuso; avari di ogni palmo di terreno e fin dall’inizio costretti in spa- zi angusti, lasciarono alle calli un’ampiezza non superiore alla distanza da casa a casa, ed agli uomini un certo passaggio e, per il resto, l’acqua subentrò per loro in luogo del- la strada, delle piazze, della fondamenta; in breve, il veneziano doveva farsi creatura di una nuova specie e così pure Venezia accetta un confronto soltanto con se stessa.

Dopo pranzo, mi lanciai nel labirinto della cit- tà senza una guida, consultando soltanto le re- gioni del cielo. Non si può immaginare quanto tutto sia stretto e affollato, se non lo si vede.

Trovai con facilità il Canal Grande e il Pon- te di Rialto. La vista è bella e spaziosa. Il Canale è disseminato d’ imbarcazioni e bru- lica di gondole, specialmente oggi che è la festa di San Michele. Le donne, indossati [ SETTEMBRE]

Così stava dunque scritto nel libro del de- stino, alla mia pagina, che avrei visto Vene- zia per la prima volta nel 1786 la sera del 28 settembre, alle cinque secondo il nostro orologio, entrando nelle lagune dalla Bren- ta e che, poco dopo, avrei potuto accedere a questa meravigliosa città insulare, a questa Repubblica di castori, e visitarla. Così Vene- zia, grazie al cielo, ora non è più per me una semplice parola, un nome che tanto e tanto spesso angustiò proprio me, che sono sta- to da sempre un nemico mortale del suono vuoto delle parole.

Come la prima gondola si accostò al Bur- chiello, mi risovvenne il mio primo giocat- tolo, cui non avevo forse più pensato da oltre vent’anni. Mio padre aveva portato un bel modellino di gondola da Venezia; gli era molto caro e aveva molto significato per me, quando vi potevo giocare. Così i primi rostri di lamiera, i neri felze delle gondole, tutti salutai come una vecchia conoscenza, e qua- si rievocassi un’impressione della mia prima giovinezza, a lungo sopita.

Sono accomodato bene alla «Regina d’In- ghilterra», non lontano da piazza San Mar- co, il maggior vantaggio di questo alloggio.

La mia finestra guarda su uno stretto canale, fra alti edifici, subito sotto di me si trova un ponte a un arco solo e di fronte una callet- ta animata. Questa è la mia dimora e qui resterò per un certo tempo, finché non sarà pronto il mio plico per la Germania e finché non avrò attinto a sazietà dall’immagine di questa città.

Posso godere appieno della solitudine da me tanto spesso e nostalgicamente sospira- ta, ammesso che essa offra un godimento, poiché in nessun luogo ci si può sentire più soli che in un tale brulichio di folla, dove si è del tutto sconosciuti; a Venezia potrà es-

IL COPIONE 23

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xei questi segni boni  d’un vero innamorà.

Quando che vù ridé forte ‘l cuor me ponzé in somma a parlar ciaro son molto cusinà.

Più stroleghi m’ha dito che un zorno all’improviso  m’ha da beccar un viso d’una gran rarità.

Vardé se i ve sa dir

quel che ha da intravegnir,  la strologia qua vedo per mi che no ha falà.

Vedo che attenta forte  me sté a scoltar de gusto  no credo, che desgusto  vù me faré provar. 

Speranza assae me dà  quel muso che xe là no fazzo altre parole so che me volé amar.

–– ––

[IL  OTTOBRE]

Su un terrapieno in riva all’acqua ho notato un ometto che raccontava storie in dialet- to veneziano a un numero imprecisato di ascoltatori. Purtroppo non riesco a capirlo, ma nessuno ride, solo raramente l’udito- rio, che di solito è costituito da una classe molto bassa, sorride. Inoltre l’uomo, a modo suo, non ha nulla di sorprendente o di ridi- colo, piuttosto qualcosa di molto adeguato all’ambiente; nel contempo un’ammirevole ricchezza espressiva e precisione, che rivela- no arte e riflessione nei suoi gesti.

gli abiti migliori, si recavano in pellegrinag- gio alla chiesa. Ho incontrato delle creature bellissime.

Ormai stanco, mi posi in una gondola, la- sciando alle spalle le anguste calli, e navigai verso la parte settentrionale del Canal Gran- de, così da godere dell’opposto spettacolo.

Passando attorno all’isola di Santa Chiara, scivolando sulla laguna, rientrando dal Ca- nale della Giudecca fin verso a piazza San Marco. E a un tratto mi ritrovai anch’io pa- drone del Mar Adriatico, così come si sente ogni veneziano che si adagia nella propria gondola. Ripensai allora al mio buon padre, il quale non sapeva far altro che raccontare di queste cose. Non capiterà anche a me, un giorno? Tutto ciò che mi circonda è degno di nota, una grande e rispettabile opera di forza umana assisa, un magnifico monumento non già di un singolo sovrano, bensì d’un popolo intero. E anche se la sua laguna dovesse in- terrarsi a poco a poco e vapori nocivi diffon- dersi sulle paludi, i suoi commerci indebolirsi e il suo potere tramontare, l’intero costrutto della Repubblica e la sua stessa essenza non parranno mai meno mirabili – neanche per un solo attimo. Venezia soggiace al tempo, come ogni cosa che abbia vita apparente.

–– ––

«Quel occhi me fé guerra» (vol.3–n.11) Quel occhi me fé guerra

E me ferisce ogn’ora, più cara m’innamora quel vostro bel bocchin.

Insomma me piasé, no so se lo credé.

Ch’abbia tutto in sconquasso Stò gramo coresin.

Co me de un’occiadina me fe trar dei sustoni

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re di avvicinarmi sempre di più a lui. Nella Sala delle Antichità ho visto cose preziose.

Un panneggio di una Minerva, di una Cle- opatra; dico panneggio, perché il mio pen- siero respinge subito il restauro delle teste e delle braccia. Un Ganimede, che dovrebbe essere di Fidia e una famosa Leda, anche se solo frammenti; il primo restaurato bene, il secondo mediocremente, ma di un senti- mento elevato e profondo.

Non posso dimenticare la Carità; vi ha siste- mato anche la scala a chiocciola più bella del mondo, con un fuso aperto, ampio; i gradini di pietra incastonati nel muro e stratificati in modo che uno sorregga l’altro; non ci si stan- ca di salirla e ridiscenderla; Palladio stesso la riteneva riuscita, è veramente bellissima.

Tuttavia, la costruzione era troppo grande, come accade in taluni edifici dei tempi nuo- vi. L’artista non aveva soltanto presupposto che l’attuale monastero sarebbe stato abbat- tuto, bensì che pure le case limitrofe sareb- bero state comprate, e lì avranno esaurito i soldi e la voglia. Caro il mio destino, che fa- vorisci e immortali certe sciocchezze, perché non lasciasti che quest’opera si realizzasse?!

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«Per mi peno, idolo mio» (vol.2–n.15) Per mi peno, idolo mio,

dentro el petto son serio, no ghè caso più per mi.

Ve dirò la mia rason, Vegnì subito al balcon.

Madmosel, xé mi zamprì.

Son cortese, son francese, Tanto basto a dir cusì.

–– ––

Ho dunque sentito parlare in pubblico tre strani tipi sulla Piazza, che narravano storie a modo loro. Due predicatori. Due avvocati.

I commedianti, specialmente il Pantalone.

Hanno tutti qualcosa in comune, sia perché appartengono a una Nazione tutta compre- sa nel gioco della vita e dell’espressione ver- bale, sia perché si imitano a vicenda.

Essi hanno predilezione per certi gesti, che voglio tenere a mente e che, in genere, mi esercito a imitare, per narrarvi le storie alla loro stregua quando sarò di ritorno.

Quest’oggi, festa di San Francesco, sono stato nella sua chiesa alle Vigne. La sono- ra voce di un cappuccino era accompagnata dal gridare dei venditori fuori della chiesa, come da un’antifona; io stavo sull’uscio del- la chiesa fra i due e l’effetto era abbastanza bizzarro da ascoltare.

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«Cara la mia Ninetta» (vol.3–n.22) –– ––

[ IL  OTTOBRE ]

Per prima cosa mi affrettai verso la Carità:

trovai nelle opere del Palladio, ch’egli aveva progettato un edificio nel quale si prefiggeva di riprodurre le abitazioni private degli anti- chi, s’intende dei ceti più elevati.

Mi precipitai qui con la massima ansietà, ma ahimè, di compiuto non è che la decima parte. Ma anche questa è degna del suo ge- nio divino. Una perfezione nella pianta ge- nerale ed una precisione nell’esecuzione del lavoro, che finora non avevo mai conosciu- to, anche sotto il profilo tecnico, poiché la maggior parte è costruita in mattoni: un’e- sattezza incomparabile.

Oggi ho tracciato dei disegni sulla scorta delle sue opere e desidero con tutto il cuo-

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[IL  OTTOBRE]

Una giornata magnifica da mane a notte!

Andai fino a Pellestrina, di fronte a Chiog- gia, dove sorgono le grandi opere che la Re- pubblica fa erigere contro il mare; esse sono di pietra squadrata e devono propriamente consolidare la lunga lingua di terra che se- para le lagune dal mare: un’impresa alta- mente necessaria ed importante.

Se ora Venezia esiste ed esistono le sue iso- le, i suoi canali, che intersecano le paludi e sono percorsi anche nei periodi di marea, questo si deve all’impegno e alla diligenza dell’uomo; e questo impegno e diligenza de- vono conservarla.

Il mare può penetrare nelle lagune soltan- to in due punti, presso il Castello, di fronte all’Arsenale, e all’altra estremità del Lido, presso Chioggia. II flusso vi penetra soli- tamente due volte al giorno e, due volte al giorno, il riflusso ritira l’acqua sempre per la stessa via, sempre nella stessa direzione:

riempie i canali, ricopre i luoghi paludosi e rifluisce quindi, lasciando le terre più eleva- te, se non proprio asciutte, tuttavia visibili, e si adagia nei canali. Ben altro sarebbe se l’acqua, a poco a poco, cercasse altri varchi, aggredisse la lingua di terra, scorresse avanti e indietro a capriccio.

Per evitare questo, i Veneziani devono pro- teggere il Lido con ogni possibile mezzo.

In casi straordinari, come quelli in cui il mare cresce oltremisura, è pur sempre un bene che questo possa accadere soltanto per due vie e che il resto rimanga precluso; esso non può dunque penetrare tanto veloce- mente, né con tanta violenza, e deve inoltre, in poche ore, sottomettersi alla legge del ri- flusso, mitigando cosi il suo furore.

Quanto al resto, Venezia non ha nulla da te- mere; la lentezza con la quale il mare si ritira le garantisce millenni di vita ed i Veneziani, [IL  OTTOBRE]

Ieri sera opera a San Moisè. Nulla di vera- mente soddisfacente. Al testo poetico, alla musica, agli attori stessi mancava quella for- za interiore che sola può elevare al sublime.

Non che tutto fosse cattivo; anche le due protagoniste hanno fatto del loro meglio, non tanto nel recitare bene la parte, quanto per mostrarsi e per piacere. È pur sempre qualcosa. Sono due graziose figure, dalla bella voce, garbatamente vivaci ed attraen- ti. Fra i ruoli maschili non c’è, al contrario, proprio nessuno che abbia forza interiore, né voglia di accattivarsi il pubblico. Neppure una voce decisamente brillante.

Il balletto, povero d’invenzione, fu nel com- plesso fischiato. Alcuni ballerini bellissimi però e delle ballerine, le quali si son fatte pure un dovere di far conoscere al pubblico ogni bella parte del proprio corpo, furono applauditi per bene.

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«Grazie agl’inganni tuoi» (vol.1–n.3) Grazie agl’inganni tuoi

al fin respiro o Nice.

Al fin d’un infelice ebber gli Dèi pietà.

Sento dai lacci tuoi sento che l’alma è sciolta;

Non sogno questa volta, non sogno libertà.

Quando lo stral spezzai, Confesso il mio rossore Spezzar m’ intesi il core, Mi parve di morir.

Ma per uscir di guai, Per non vedersi oppresso, Per racquistar se stesso, Tutto si può soffrir.

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Finché lo scrivano legge, il tempo si ferma, mentre l’avvocato, se vuol parlare, ha a di- sposizione un preciso lasso di tempo. Come l’avvocato apre bocca…

AVVOCATO …dixeme dove sta scritto! Xe un’aberrasion che la ga podesto donar roba de cui no gaveva potestà!

L’orologio viene sollevato e subito riposto, non appena quegli tace. L’abile avvocato sa bene come interrompere la noia con i suoi frizzi, e il pubblico si sbellica sguaiatamente dalle risa alle sue battute.

AVVOCATO …la Dogaressa no si ofenda, se ghe digo bricconcela!

Il lettore recita appunto un documento, nel quale uno degli inquisiti disponeva libera- mente dei beni che non gli appartenevano di diritto. L’avvocato lo pregò di leggere più lentamente, e come pronunciò le parole…

SCRIVANO …io regalo, io dispongo!

AVVOCATO …Cossa vustu regalar? Cossa ti disponi? Diavola d’una povarassa affamà!

Ti, che no te appartien nulla a sto mondo!

Ma proprio in sto punto ti vieni a dir, che ti vol regalar, ti vol disporre… ti, che no ti gà niente!

Scoppiò una risata senza fine, malgrado l’o- rologio fu subito adagiato. Il lettore conti- nuò a borbottare e rivolse all’avvocato uno sguardo provocatorio; ma questi sono tutti numeri concordati!

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difendendo accortamente i loro canali, sa- pranno mantenere inalterato il loro domi- nio sulle acque.

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«No me ciamé incostante» (vol.1–n.7) –– ––

[ OTTOBRE]

Quest’oggi invece ho visto un altro tipo di commedia, che mi ha divertito di più: ho sentito discutere pubblicamente una cau- sa a Palazzo Ducale. Uno degli avvocati, che parlava, era la perfetta caricatura di un

‘Buffo’: figura bassa e tozza, ma in continuo gesticolare; profilo spiccatamente marcato, una voce metallica e di una tale foga, come se quello che diceva gli fosse scaturito dal più profondo del cuore. Io la chiamo una commedia, perché, molto probabilmente, quando ha luogo questo spettacolo pubbli- co, tutto è già stato fissato, e anche i giudici sanno già quello che diranno.

Uno scrivano secco, in abito nero consunto, un grosso quaderno in mano, si accingeva a fungere da lettore. Inoltre la sala era stipata di spettatori e uditori. Questa volta si trat- tava di una lite importantissima, dato che l’accusa era contro il Doge stesso, o meglio contro la sua consorte. Colpiva specialmen- te la fantasia dei veneziani, il fatto che la do- garessa fosse costretta a comparire dentro al proprio palazzo di fronte a loro.

SCRIVANO …Parché cosí xe usanza di sta Repubblica Serenissima, che un fideicom- misso no pol dirse proprietario, se ghe xe parenti in vita, sani e savi, però el pol passar la commission…

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cuni scaricatoi della Piazzetta di S. Marco che, come nella grande Piazza, sono stati av- vedutamente predisposti per lo scolo dell’ac- qua. Se capita un giorno di maltempo c’è un fango insopportabile. Tutti imprecano, tutti maledicono e, salendo e scendendo dai ponti, tutti si insudiciano i mantelli, i tabarri; e poiché indossano scarpe e calze eleganti, s’inzaccherano tutti, e non si tratta del solito fango, ma di una mota corrosiva.

Se poi il tempo si rimette al bello, nessuno pensa più alla pulizia. Se chi comanda in questa città lo volesse, si potrebbe far tutto;

vorrei sapere se hanno dei motivi politici per lasciare tutto così, o se si lascia tutto correre per un’incomparabile negligenza.

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«Son qua putazze care» (vol.1–n.12) Son qua Putazze Care

s’el scoa camin ve preme, son lesto, comandeme, son qua ve voi servir.

Se ‘l camin sporco avessi, g’ho za la scoa de rusto, v’obedirò con gusto e spero de sortir.

Benché i vostri camini no li ho provai gnancora lassé che vegna sora  e a mi lasseme far.

Benché la scoa sia frusta el manego xé niovo  vardelo e si ve giovo prencipié a comandar.

Su ressolvé per tempo  no fé che perda el gusto  che qua l’osé me frusto e niente no farò.

«Se i fulmini del cielo» (vol.3–n.17) Se i fulmini del cielo

vien zoso a rompicollo, da vu mai no me molo Bettina in verità.

Che vegna pur bravazzi Con spade e con spontoni.

Mai quelli sarà boni scazzarme via de qua.

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[ OTTOBRE ]

Se solo tenessero più pulita la loro città, ciò che sarebbe tanto necessario quanto facile e veramente di grande importanza per quanto ne può conseguire nei secoli a venire. Così ad esempio, è vietato con grave ammenda di riversare alcunché nei canali e di gettarvi immondizie. Non si impedisce però ad un improvviso acquazzone di andare a scova- re tutti i rifiuti accumulati negli angoli e di trascinarli nei canali, anzi, e ciò che è an- cor peggio, di portare le immondizie negli scaricatoi destinati soltanto allo scolo delle acque, disperdendole.

Ho attraversato alcuni quartieri e mi sono recato sulla Piazza; ed essendo appunto do- menica, ho fatto le mie considerazioni sulla sporcizia delle vie. Certamente esisterà un qualche regolamento di polizia in materia.

La gente butta le immondizie negli angoli e vedo anche dei grandi battelli andare su e giù, sostare in certi punti, e portare via la spazzatura; è gente delle isole circostan- ti, che la utilizza come concime. Ma è pur sempre imperdonabile che questa città non sia più pulita, dal momento che essa è vera- mente strutturata per esserlo, così come per qualsiasi città olandese.

Ho visto perfino otturati e pieni d’acqua al-

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ora, quel «Bravo! bravi!» che gl’italiani han- no sempre in bocca, e quindi a un tratto non si sentono onorare anche i morti con questo attributo.

La tragedia di ieri mi ha insegnato qualcosa.

Ho visto con quanta abilità il Gozzi abbia saputo fondere le maschere con le figure tragiche. Questo è in verità lo spettacolo per tale popolo, che non vuole venir scos- so in maniera rude. Esso non prende parte alle disgrazie altrui con intima sensibilità, si rallegra soltanto se l’eroe parla bene, poiché qui si dà molta importanza all’eloquio; e poi vogliono ridere o far dire qualche facezia.

Fu divertente quando il Tiranno consegnò a suo figlio la spada, pretendendo che questi uccidesse, Iì per lì, la propria sposa; il popolo cominciò a palesare a gran voce il proprio disappunto, e poco mancò che l’opera non fosse interrotta e che si chiedesse al vecchio di riprendere la sua spada. In tal caso tutto lo svolgimento sarebbe andato a rotoli. Una tale situazione era sciocca e innaturale, e il popolo lo capì subito.

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«Perdonami o mia cara» (vol.1–n.20) –– ––

[ OTTOBRE]

Siamo in un continuo correre attraverso la città, per osservarne il suo operare ed il suo agire e scoprire uno dopo l’altro i suoi tesori.

Palazzo Pisani Moretta: un Paolo Veronese che ci può dare un’idea di tutto il valore del Maestro. La famiglia di Dario che si ingi- nocchia davanti ad Alessandro ed Efesto. È di grande freschezza, come se fosse stato di- pinto ieri e qui risulta la sua arte suprema di riprodurre attraverso i cangianti colori locali Ve pentiré po quando 

no ghe sarà più tempo  o ben demoghe drento  o pur che via anderò.

Se ve ciappasse fuogo imbestialia seressi e presto ciameressi dove xé ‘I scoa camin.

All’ora dell’affronto certo vorria reffarme e si vorria ingrassarme nel vostro bruseghin.

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[IL  OTTOBRE, NOTTE]

Ritorno alla mia camera ancora ridendo dopo aver visto la tragedia e, prima di an- dare a letto, te la racconto. Il pezzo non è cattivo. L’autore aveva messo in fila, uno dopo l’altro, tutti i ‘matadori’ della tragedia e gli attori hanno recitato bene. Le situazio- ni, per la maggior parte, erano note; alcune però più nuove e riuscitissime. Alla fine non mancò altro, che i due padri s’infilzassero vicendevolmente a duello; ciò che riuscì bene. Dopodiché, in mezzo ad un fragore di battimani, calò il sipario. Ma l’applauso s’intensificò, venne gridato «Fuora» e, alla fine, le due coppie principali si degnarono di sgusciar fuori da dietro il telone, di fare i loro inchini e di uscire dal lato opposto.

Il pubblico non era ancora soddisfatto, ma continuava a battere le mani ed a gridare:

«I morti!». Questo durò finché anche i due vecchi non si presentarono e s’inchinarono;

allora alcune voci gridarono: «Bravi i mor- ti!» Furono molto applauditi e quindi se ne andarono.

Questa frase perde molto, se non si hanno sempre nell’orecchio, cosi come tocca a me

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e star in magna ora ghé piase più che ‘l pol.

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[ OTTOBRE]

Questa sera sono salito sul campanile di San Marco. Poiché recentemente avevo visto dall’alto le lagune nella loro magnificenza, nell’ora del flusso, volevo vederle anche nel loro aspetto più dimesso, nell’ora del riflus- so. Fa uno strano effetto vedere apparire ovunque la terraferma, laddove poco prima c’era uno specchio d’acqua. Le isole non sono più isole. La zona paludosa è coperta da piante acquatiche e, proprio per questo, essa è destinata un po’ alla volta a sollevarsi, quantunque le maree l’aggrediscano e im- perversino costantemente, senza dar tregua alla vegetazione.

Le maree sono seguite dai suoi abitanti.

Su dei gradini ho visto oggi l’operare delle chiocciole marine, delle patelle, dei gran- ciporri, e mi sono molto divertito. Appena questi animali si sono impadroniti delle piatte pareti, subito il mare si ritira poco a poco, così come era giunto. Al principio quel brulichio non capisce, a cosa si sia ag- grappato, e spera sempre che la marea salata ritorni; tuttavia non arriva, il sole punge e secca velocemente, e così parte la ritirata.

Proprio in questa occasione i granciporri cercano la loro preda. Non si può vedere nulla di più meraviglioso e buffo delle mo- venze di queste creature costituite da un corpo tondo e due lunghe tenaglie, giacché le altre zampette non si notano. Avanzano come sui trampoli e, appena una patella si muove da sotto la sua conchiglia, attacca- no per infilare la tenaglia nel pertugio fra la conchiglia e il pavimento, così da scoper- chiarla e divorare il mollusco. La patella si una preziosa armonia, senza una tonalità co-

mune che pervada tutta l’opera. Quando un dipinto ha sofferto non lo si ravvisa. Quanto al costume, basti pensare ch’egli ha voluto dipingere un soggetto del sedicesimo secolo, e pertanto tutto va bene. La principessina più giovane è una topina proprio ammodo ed ha un visino veramente caparbio.

Scuola di San Rocco: la confraternita si è ar- ricchita specialmente in seguito a una pesti- lenza, poiché le anime pie rendevano grazie a questo Santo patrono e alla «Santissima Ver- gine» per la liberazione dal flagello, che, dopo aver imperversato da marzo a novembre, era spontaneamente cessato verso l’inverno.

Oggi mi colpì veramente il pensiero, di come l’uomo si aggrappi con autentica gioia all’irrazionale, purché gli venga presentato razionalmente; perciò ci si dovrebbe ralle- grare d’essere poeti. Che bella invenzione sia la Madre di Dio non lo si comprende se non in seno al Cattolicesimo. Una «Vergine» con il figlio tra le braccia, che è «Santissima Ver- gine» proprio per aver messo al mondo un figlio. È un fenomeno davanti al quale i no- stri sensi stanno quietamente sopiti, che ha in sé una certa grazia poetica, di cui tanto ci si rallegra e di fronte al quale non ci è consentito di pensare assolutamente a nulla.

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«Che pianti che fracasso» (vol.3–n.8) Che pianti che fracasso

che fa sempre sto puttello, l’è tondo, longo e grosso e papa sempre el vuole papà sempre el vol.

È vero no’l gà denti, ma el magna che el devora,

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distanti essi sono l’uno dall’altro, tanto più la canzone affascina; se l’ascoltatore si trova fra i due, sta proprio nel punto giusto.

Lo attribuii alla mia disposizione interio- re, ma il mio vecchio gondoliere, mi disse:

«È singolare come quel canto intenerisca, e molto più quando è più ben cantato».

Egli mi narrò come le donne del Lido, spe- cialmente quelle delle spiagge più remote di Malamocco e Pellestrina, pure cantasse- ro il Tasso su tali e consimili melodie. Esse hanno la consuetudine, quando i loro uo- mini sono in mare per la pesca, di sedersi la sera sulla riva, d’intonare questi canti a voce spiegata, finché da lontano non sen- tono riecheggiare la voce dei loro cari; e in tal modo s’intrattengono scambievolmente.

Per farmi udire ciò, essi scesero sulla riva del- la Giudecca e si separarono lungo il canale.

Camminavo fra di loro su e giù, così da lasciare sempre quello, che stava iniziando a cantare, avvicinandomi di nuovo a quel- lo, che aveva terminato. Fu allora che mi si schiuse il senso di quel canto. Quale voce da lontano risuona in maniera molto particola- re, come un lamento senza tristezza.

È bellissimo. Si può facilmente immaginare come uno che ascolti da vicino non possa provare tutto il piacere che danno queste voci in lotta con le onde del mare. Hanno in sé un che d’incredibile che commuove fino alle lacrime.

È il canto di un’anima solitaria che spazia in lontananza, affinché un’altra anima solitaria la senta e le risponda.

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«Amor già che son colto» (vol.2–n.35) Amor già che son colto

di due begl’occhi all’esca attacca subito alla pietra, non appena perce-

pisce la vicinanza del nemico, al quale man- ca la forza per sopraffare il potente muscolo del tenero animaletto.

Nonostante sia rimasto a osservare la riti- rata di questo brulichio per ore, non ho vi- sto un solo granciporro capace di ottenere il suo scopo.

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«So che la mia costanza» (vol.1–n.6) –– ––

[ OTTOBRE]

Questa sera mi ero accaparrato il celebre canto dei gondolieri, che intonano il Tasso e l’Ariosto su proprie melodie.

Al chiaro di luna montai su una gondola, uno dei cantori a prora, l’altro a poppa. Ini- ziarono la loro canzone e cantarono alter- nandosi verso dopo verso. La melodia, che conosciamo grazie a Rousseau, è una media via fra il corale e il recitativo, conserva sem- pre lo stesso ritmo senza avere battute. An- che la modulazione rimane uguale; solo che, a seconda del contenuto del verso, giovan- dosi di una sorta di declamazione, ne muta- no il tono e la misura. Ma proprio questa è l’anima e la vita del canto.

Siede sulla sponda di un’isola, di un cana- le, su una barca e, con una voce penetrante (il popolo apprezza più di tutto la forza), fa echeggiare il suo canto nella più vasta lonta- nanza. Ed esso si diffonde sul placido spec- chio delle acque. Un altro, che sa la melodia, lo coglie da lontano, comprende le parole e risponde con il verso successivo; poi il pri- mo gli subentra e così l’uno è sempre l’eco dell’altro; ed il canto prosegue per tutta la notte, li diverte senza stancarli. Quanto più

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