CONSUMI FATTORI PRODUTTIVI A FECONDITÀ RIPETUTA –
5.2. Le grandezze e i parametri di riferimento dell’equilibrio econo- econo-mico
È opportuno sottolineare come l’esposizione fin qui condotta si sia basata sulla correlazione tra consumi totali, indistintamente considera-ti, e ricchezza prodotta25, in un’ottica essenzialmente soggettiva, ossia riferita all’azienda intesa quale organismo riconducibile al soggetto proprietario.
Ciò, effettivamente emerge sia nell’ipotesi in cui il riferimento ri-sulti ristretto alla grandezza differenziale destinata alla remunerazione degli oneri figurativi (reddito dell’imprenditore), sia nel caso in cui la stessa, per quanto riferita all’azienda, appaia come un reddito lordo dello stesso imprenditore26.
È per questo motivo che, nel momento in cui il calcolo del reddito risulta operato secondo le modalità precedentemente viste, l’espres-sione reddito di impresa può apparire non appropriata se riferita alla sola grandezza differenziale che, come appena ricordato, si correla, invece, direttamente con la copertura delle utilizzazioni dei fattori pro-duttivi conferiti dall’imprenditore. Conseguentemente, laddove con l’espressione reddito si intendesse riferirsi all’intero organismo azien-dale, considerato a sé stante, ecco che risulta appropriata l’espressione reddito dell’impresa, con la relativa configurazione27.
Peraltro, laddove l’angolo di visualizzazione risultasse rivolto all’a-zienda quale entità in cui convergono gli interessi di più parti sociali (quindi oltre ai proprietari, anche i lavoratori dipendenti, i finanziatori
25 Si consideri tra questi anche il prelievo fiscale che pure, ricordiamo, genera un costo connesso ad un consumo di servizi, ossia i servizi pubblici che lo Stato dovrebbe garantire.
26 Tale interpretazione può correlarsi alla visione che inquadra l’azienda quale fattore di produ-zione. M.L. FRASER, Pensiero e linguaggio, cit., p. 343. In ambito aziendale: G. ZAPPA, Il reddito, cit., pp. 346-347.
27 P.E. CASSANDRO, Le aziende, cit., pp. 188-189.
esterni e lo Stato) la ricchezza prodotta potrà meglio configurarsi rife-rendosi ad una grandezza diversa dal reddito, identificabile nel valore aggiunto28.
Differentemente dalla configurazione del reddito, la grandezza va-lore aggiunto tende a confrontare la ricchezza prodotta (derivante dal-le vendite) con dal-le utilizzazioni di fattori produttivi non direttamente ri-conducibili al fattore lavoro (sia esso dipendente o connesso all’opera imprenditoriale), alla struttura (consumi/ammortamenti) ed al fattore capitale (di fonte propria o di terzi), favorendo con ciò l’analisi della distribuzione della ricchezza prodotta dall’azienda tra le varie parti sociali direttamente coinvolte.
RICCHEZZA PRODOTTA (RICAVI VENDITE) – CONSUMI FATTORI PRODUTTIVI A FECONDITÀ SEMPLICE –
• fattori tecnici materiali ed immateriali = VALORE AGGIUNTO
Riservando la nostra attenzione alla grandezza reddito, evidenzia-mo come la relativa definizione finora richiamata, connessa a quella di equilibrio economico, appaia essenzialmente basata sull’individuazio-ne dell’eccedenza derivante dal confronto tra il flusso di ricavi conse-guito ed il flusso di costi sostenuto in un dato periodo.
Al riguardo, si è già evidenziato che per essere in presenza di red-dito non è sufficiente un risultato economico positivo di semplice ec-cedenza dei ricavi sui costi (ciò che contabilmente si chiama utile di esercizio), ma occorre che tale eccedenza sia tale da remunerare ade-guatamente quelli che si sono denominati oneri figurativi, e cioè:
– la remunerazione del capitale investito;
– il premio per il rischio di impresa;
– il salario direzionale.
Da ciò discende l’esigenza di individuare i relativi parametri di ri-ferimento che consentano di attribuire al risultato economico il carat-tere di «congruità», ossia il significato di reddito.
28 Potrebbe parlarsi di una sorta di reddito globale del soggetto aziendale e dei dipendenti dell’a-zienda. P.E. CASSANDRO, Il profitto dell’impresa e la sua determinazione, in Rassegna Economica, Napoli, n. 5, 1967. Sul contenuto informativo e sulla portata sociale della grandezza ‘valore aggiun-to’: G. CATTURI. Lezioni di economia aziendale, Cedam, Padova, 1997, p. 616 e ss.
Partendo dalla remunerazione del capitale di rischio, si evidenzia come la stessa costituisca un calcolo di interesse, in termini di rendi-mento, quale compenso per l’utilizzo di un capitale29.
In proposito, alcune brevi considerazioni, si rendono opportune in ordine ai due elementi costitutivi del calcolo, ossia la base di riferi-mento (il capitale) ed il tasso di remunerazione.
Sotto il primo profilo, è da ritenere ragionevole una base che tenga conto anche di quella parte delle riserve costituita da ‘capitale degli azionisti’, quantunque siffatta impostazione si connetta maggiormente con la misurazione dell’efficienza spazio-temporale delle imprese, più che con la determinazione delle remunerazioni effettive da corrispon-dere agli azionisti30.
Passando al secondo elemento (tasso di remunerazione), il riferi-mento fondamentale per valutare la convenienza dell’imprenditore o dei soci ad investire nell’impresa specifica, è costituito dal tasso di rendimento degli investimenti privi di rischio e cioè dal rendimento che i capitali apportati avrebbero potuto avere se investiti in impieghi alternativi senza rischio o a rischio limitato, ciò ovviamente tenendo conto dai riflessi derivanti dall’effetto inflativo.
In effetti, tale parametro, seppure non completamente privo di ri-schio, rappresenta, tuttavia, il riferimento che per durata e sicurezza appare come la migliore approssimazione della componente di cui trattasi. In sostanza, tale criterio, denominato del tasso-opportunità, si basa sulla convenienza per «l’investitore» ad impiegare capitali ad un tasso di rendimento non inferiore a quello derivante da investimenti alternativi riscontrabili sul mercato31.
Strettamente connesso con la determinazione dell’interesse di com-puto del capitale è l’elemento che considera il cosiddetto rischio di impresa e cioè del rischio economico riferibile all’attività intrapresa,
29 A ben vedere, più che di interesse è opportuno parlare di rendimento atteso che:
– l’interesse nasce da precise norme contrattuali concordate dai soggetti che procedono ad una operazione di finanziamento;
– il rendimento esprime la resa di un capitale investito in un’attività, non rivelando quindi alcuna predeterminazione.
Sulla differenza in questione: C. SORCI, Lezioni, cit., p. 485-486.
30 In relazione a tale evenienza, nelle società quotate sorge la necessità per il management di pro-cedere all’adozione degli opportuni accorgimenti al fine di fornire un’adeguata informazione agli azionisti in merito all’incidenza che tali rinunce generano o possono generare in termini di crescita del rispettivo valore azionario. Crescita non sempre agevolmente desumibile dai conti di bilancio e/o dalla quotazione di borsa. Per gli opportuni approfondimenti sul tema: L. GUATRI, La teoria di creazione del valore. Una via Europea, Egea, Milano, 1991.
31 L’opportunity cost consiste nel sacrificio connesso ad un risultato a cui si rinuncia nel momen-to in cui si opera una scelta operativa a scapimomen-to di un’altra alternativa immediatamente successiva per vantaggio. Sul punto, ci sia consentito il rinvio al nostro studio: Opportunity Cost e decisioni aziendali, Cacucci, Bari, 1996, p. 37 e ss.
quale rischio che l’incerto affluire dei ricavi non sia tendenzialmente atto a fronteggiare nel dinamismo dell’ambiente le esigenze di con-grua remunerazione dei fattori produttivi32. Tale rischio si manifesta, inoltre, con l’eventualità di non poter smobilizzare tempestivamente il capitale investito nell’azienda33.
Da tale complesso di elementi deriva che la partecipazione dei ri-schi ai processi produttivi avviene per mezzo delle operazioni conse-guenti le scelte aziendali che li contemplano e, benché tale parteci-pazione non produca alcun flusso di utilità essi possono considerarsi fattori sui generis, in quanto la loro presenza è ugualmente avvertita ed ha dei riflessi sugli andamenti economicofinanziari dell’azienda34. Conseguentemente, ne deriva l’esigenza di aumentare la remunerazio-ne del capitale di apporto appunto del cosiddetto «premio di rischio», la cui entità varierà in funzione del grado di rischio rivelato dalla spe-cifica attività esercitata35.
Circa il salario direzionale, è opportuno sottolineare che tale onere figurativo è un elemento presente sostanzialmente nelle sole imprese individuali e, in qualche misura, nelle società di persone. Esso è co-stituito dalla remunerazione che spetta per l’opera direzionale svolta dall’imprenditore nell’ambito della sua azienda, che si potrebbe para-metrare con i valori medi riscontrabili nei compensi corrisposti per at-tività direzionale svolta in aziende similari, per atat-tività e dimensione36. Il ragionamento fin qui condotto, inerente la congruità della gran-dezza reddito, rischia di non apparire pienamente corretto, nel mo-mento in cui si prescindesse dalle modalità di formazione dei com-ponenti attraverso il cui confronto si perviene al risultato economico.
In sostanza, il concetto di reddito per essere correttamente inteso non può basarsi solo sulla congruità dell’eccedenza dei ricavi sui costi, ma dovrebbe anche considerare la congruità, nel senso di razionale formazione dei componenti da cui l’eccedenza stessa scaturisce,
sen-32 G. FERRERO, Impresa, cit., p. 117.
33 Ai fini applicativi la misura complessiva del rischio dovrebbe, quindi, fondarsi sull’analisi di vari fattori che, oltre a considerare aspetti puramente finanziari, attengano le caratteristiche della combinazione produttiva.
34 U. BERTINI, Introduzione allo studio dei rischi nell’economia aziendale, Giuffrè, Milano, 1987, p. 238.
35 Da una diversa angolazione si può sostenere che il rischio economico di impresa grava, sep-pure con diverse graduazioni, oltre che sull’imprenditore capitalista, anche su tutti coloro che par-tecipano all’attività aziendale conferendo lavoro e capitale (lavoratori dipendenti, finanziatori). G.
ZAPPA, Le produzioni, cit., pp. 226-228. Tuttavia, la previsione di una remunerazione «incrementa-le» riservata esclusivamente al rischio dell’imprenditore può spiegarsi con il carattere di residualità che la relativa remunerazione assume rispetto a quelle dei lavoratori dipendenti e dei finanziatori esterni.
36 P.E. CASSANDRO, Il profitto, cit.
za cioè distorsioni connesse variamente alla presenza di costi sottodi-mensionati o a ricavi sovradisottodi-mensionati, ciò con possibili effetti nega-tivi a scapito di altre componenti sociali dell’azienda e dell’ambiente esterno alla stessa, ambiente inteso anche in senso ecologico. Solo, in tal caso, infatti, si sarà in presenza di una piena condizione di econo-micità37.
Quindi, il concetto di reddito per poter essere correttamente inteso, non deve basarsi solo sulla congruità dell’eccedenza dei ricavi sui co-sti, ma anche sulla congruità dei suoi componenti, senza cioè distor-sioni connesse ad esempio alla presenza di contenimenti di costi in relazione a salari sottodimensionati o ancora a ricavi di vendita elevati diretta conseguenza di situazioni di tipo monopolistico, ciò con pos-sibili effetti negativi a scapito delle altre componenti sociali dell’a-zienda (lavoratori, finanziatori, ecc.) e dell’economia delle famiglie di appartenenza degli individui penalizzati (ma anche di altre aziende di produzione), soprattutto nel momento in cui lo stipendio/salario de-gli stessi rappresenta l’unica fonte di reddito per il nucleo familiare.
In tal caso, si dovrebbe, invero, parlare di situazione di economicità parziale.
Anche dal lato dei ricavi, occorrerebbe a rigore considerarne la congruità, ciò avendo riguardo ovviamente ai clienti. Nel ricordare che i consumatori finali rappresentano la variabile fondamentale per il successo dell’azienda, si ribadisce come l’attività aziendale costituisca lo strumento attraverso cui si procede al soddisfacimento di bisogni, compresi quelli del consumatore che attraverso l’acquisizione del pro-dotto o del servizio offerto dall’azienda procede, infatti, al soddisfaci-mento del proprio bisogno.