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A quattordici anni Charles d’Espagnac aveva conosciuto il nemico e l’ossessione, che avrebbe condizionato l’intera sua esistenza: la rivoluzione. Dopo che il 1789 francese e la Vandea avevano decimato la sua famiglia, in ossequio al proprio odio quel ragazzo, nato in Linguadoca nel 1775, aveva rinnegato il proprio nome e la propria patria. Per sfuggire alla persecuzione era emigrato prima in Inghilterra e poi in Spagna dove, dopo anni di militanza armata in difesa dell’ordine costituito, riuscì a circondare di un’aurea sinistra la nuova identità e il titolo guadagnato nel 1816: Carlos Conde d’España, ricordato dagli storici come “El fanático reaccionario” e uno de “los malos de la historia”1.

Personaggi come il conte di Spagna, conservatori, reazionari, assolutisti, legittimisti formarono la propria identità nel decennio che la storiografia spagnola definisce “la Decada Ominosa” o, scegliendo una categoria più neutra, la “Decada Absolutista”, che dal 1823 al 1833 vide Fernando VII destreggiarsi tra caute concessioni liberali e restaurazione.

Un barcamenarsi che agitò le acque della controrivoluzione, frantumandole in contrastanti correnti, che costrinse gli ultras a distinguersi dai moderados, a prendere persino le distanze dal legittimo monarca e a denunciare la vittoria tradita. Fu in quegli anni che si moltiplicarono i significati dei termini assolutismo, controrivoluzione, reazione: Fernando VII non aveva restaurato l’Inquisizione, si era allontanato dall’influenza ecclesiastica, aveva allentato la tensione con i liberali a partire dall’amnistia del maggio 1824 e con concessioni successive aveva persino aperto al loro ingresso, o meglio a quello dei più moderati, nelle istituzioni del Regno. Gli ultra-

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82 assolutisti di fronte a quella restaurazione esitante, contestarono la mancata realizzazione nelle pratiche di governo della tradizione integrale e si organizzarono in juntas e società segrete.

Continuarono d’altra parte a sperare che nel lungo periodo il legittimismo monarchico avrebbe avuto la meglio sulla deriva costituzionale, e in difesa dei suoi sacri principi entrarono a frotte nella milizia parallela dei Voluntarios Realistas, voluta dallo stesso Fernando VII. Si trattava di un corpo militare, frutto di questa “politica del doppio binario” del monarca verso liberali e assolutisti e della sua sfiducia nei confronti dell’esercito regolare, più volte ostaggio della vocazione politica dei suoi ufficiali, ostentata in occasione dei numerosi pronunciamentos.

I Voluntarios Realistas, che avrebbero dovuto raccogliere uomini dai diciotto ai cinquant’anni «no teniendo impedimento fisico, vicio indecoroso, malas costumbres, genio inquieto y provocador, ni que hayan sido castigados con pena, ó impuéstoseles nota vil por la justicia, ni los que se hallen procesados criminalmente»2, divennero una consistente forza armata

tanto consapevole del proprio ruolo di difesa dei principi realisti, da emulare l’interventismo politico dell’esercito spagnolo, sfuggendo spesso al controllo del potere regio. I contadini, i braccianti, gli artigiani furono coloro che nelle varie città spagnole aderirono con maggiore entusiasmo alla chiamata alle armi e, inquadrati in quelle truppe, compirono la propria iniziazione politica e la conversione all’odio nei confronti del liberalismo e della rivoluzione, indicati come responsabili della miseria in cui versavano. Mossi dalla paura del cambiamento, i realisti, che appartenevano ai ceti sociali inferiori, ma erano anche espressione del mondo militare, professionale, dell’alta nobiltà e dell’alto clero oltre che di quello rurale, prima ancora che per un re combattevano per la visione del mondo che incarnava, o meglio per le interpretazioni varie e molteplici che riuscivano a

2 Reglamento para los cuerpos de Voluntarios Realistas del Reino De Órden de S. M.,

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83 darne. Pacificavano e consolidavano la propria identità nel riconoscimento dei medesimi nemici assumendo, con un certo grado di incoerenza, forme organizzative che erano tipiche della moderna concezione della militanza politica. Così diventavano protagonisti di episodi di lotta diversi, che gli storici spesso hanno letto come premessa, origine, radice di quello che sarebbe stato il carlismo.

In merito alla consapevolezza di quella fede e militanza politica tra i Voluntarios Realistas, per quanto si sia piuttosto concordi nel riconoscere nel «voluntariado en estado puro» un mito tradizionalista, è pur certo che coloro che aderirono al realismo prima, e al carlismo poi, sapevano quali istanze innestare sulle rivendicazioni legittimiste. Come ha scritto Jordi Canal:

El realismo y el carlismo les ofrecían una cobertura para defender sus privilegios o su simple sustento frente a la ofensiva del liberalismo y sus consecuencias, en un lenguaje y en el marco de una visión del mundo que no les eran en nada extraños. Cuestiones como las desamortizaciones eclesiástica y civil, la política tributaria aplicada por los gobiernos del Trienio, la decadencia de determinadas ocupaciones, la introducción de nuevos valores o el desmantelamiento de estructuras e instituciones tradicionales, sumados a elementos coyunturales como la crisis económica y a la efectividad de determinados canales de transmisión ideológica, se encontraban en los años veinte del siglo XIX en la base de las opciones contrarrevolucionarias3.

I dogmatici dell’assolutismo cominciarono ad assumere in quegli anni una fisionomia propria e a promuovere moti e cospirazioni che però, portati a termine, ebbero sempre lo stesso epilogo: i congiurati al muro sottoposti alle raffiche dei fucili reali nel nome di Sua Maestà. Così si concluse ad esempio

3 J. Canal, El carlismo. Dos siglos de contrarrevolución en España, Alianza Editorial,

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84 anche la rivolta degli agraviados o dei malcontents, come viene ricordata nella regione che le prestò le quinte, la Catalogna. Esplosa nel marzo 1827 durante un periodo di depressione economica, fu la prima occasione in cui i realisti, in larga maggioranza contadini spesso ispirati dal clero, iniziarono a chiamarsi carlisti, come affermava il console francese a Barcellona, che il 7 aprile trascrisse il grido di guerra dei malcontents: “Viva il Rey CARLO QUINTO”4.

Allora deposero le armi in fretta: dopo aver messo in subbuglio alcune città del Principato, Tortosa, Girona, Manresa e Vic e invocato la Santa Inquisizione, già a maggio dovettero constatare il loro fallimento e, subita la perdita di alcuni capi irreprensibili, arrestati e in fretta giustiziati, accettarono l’indulto che gli venne offerto per concludere le ostilità. Il risentimento covò in una Catalogna apparentemente pacificata fino a luglio, quando esplose con maggiore virulenza. Gli agraviados in questa occasione vollero evitare l’accusa di ribellione contro il legittimo sovrano, rifiutando decisamente l’appellativo di carlins e rinunciando al nome del futuro Pretendente a patrocinio delle proprie rivendicazioni. Si inneggiava al legittimo Re assoluto, alla Religione e ai martiri della lotta realista e il carisma dei capi guerriglieri, che in esilio alla frontiera francese avevano preparato la propria riscossa, riuscì a convincere e a coinvolgere molte città del centro e del Nord della Catalogna, lasciando dilagare la rivolta fino a Tarragona. Erano José Bonsoms, il “Jep dels Estanys”, che da giovane aveva partecipato alla guerra de la Independencia¸ Narciso Aprés che chiamavano “Pixola” o “Carnicer”, macellaio, in onore al suo mestiere, ma evocando anche ben altre abilità, o il veterano di guerra del Trienio, “Caragol”, la lumaca, Agustín Saperes o il frate francescano Pablo Orri, il cui nome di battaglia, “Padre Puñal”, non ha certo bisogno di spiegazioni. Conquistarono alle loro promesse conservatrici Cervera, Reus, Vic, Berga e

4 J. Torras, La guerra de los Agraviados¸Universidad de Barcelona 1967, p. 200.

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85 Olot; Manresa divenne il loro quartier generale e sede dal 29 agosto della Junta Superior Provisional del Gobierno del Principado, dotata di un proprio organo di stampa “El Catalán Realista” e di diramazioni capillari in tutto il territorio controllato. Inizialmente la protesta dei malcontents aveva avuto il pieno sostegno, morale ed economico, della Chiesa, ma quando ci si rese conto che la rivolta era rimasta circoscritta al Principato Catalano e che il sovrano si preparava a reprimerla, vescovi e sacerdoti iniziarono a condannare la ribellione degli agraviados dalle colonne di riviste e gazzette. A costoro, sdegnato rispose “Pixola” con un duro proclama reso pubblico il 22 settembre a Llagostera, che faceva i nomi di autorevoli protagonisti del paesaggio politico nazionale, denunciandone il coinvolgimento nella cospirazione catalana:

Tiempo es ya de romper mi silencio para vindicarme con vosotros de la calumnia con que nos acusan todos los obispos del Principado en sus respectivas pastorales, atribuyendo nuestros eroico hechos á ser obra de sectarios jacobinos [...]. Algunos de éstos mismos prelados saben bien que los que ahora llaman cabecillas desnaturalizados nos hicieron saber palpablemente que el rey se habia hecho sectario, y que si no queriamos ver la religion destruida, debia elevarse al trono el infante Don Carlos: que en esta empresa estaban comprometidos los consejeros de Estado, Fray Cirilo Alameda, el duque del Infantado, el Excmo. Señor don Francisco Calomarde, ministro de Gracia y Justicia, el Inspector de Voluntarios Realistas don José María Carvajal, y otros varios personajes de primera gerarquía, contando con cuantos recursos eran precisos, tanto nacionales como extranjeros.5

Proprio nei giorni della pubblicazione di quel proclama Fernando si preparava ad intraprendere un viaggio in Catalogna per ricomporre l’ordine pubblico, dopo aver già provveduto alla sostituzione del marchese di Campo

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86 Sagrado con il sanguinario Conde de España alla guida della Capitanía General.

Non venne avviata alcuna indagine sulle connessioni tra le menti della rivolta e le più alte sfere dello Stato, ma chi aveva scelto di affiancare esplicitamente il proprio nome a quello dei malcontents venne spazzato via dalla dura repressione del Capitano generale. All’arrivo del conte la Junta di Manresa, formata da un gruppo di guerriglieri guidati da Bussons, si rifugiò sulla montagna di Berga, i pochi realisti che avevano provato a resistere vennero sterminati, alcuni frati ribelli, nascosti ancora in città, decapitati sul posto, i Voluntarios Realistas disarmati. Implacabile la marcia di Carlos d’España proseguì nella persecuzione degli ultimi malcontents a Berga, a Vich ed infine ad Ampurdan. Alla frontiera con la Francia l’insurrezione venne dichiarata ufficialmente conclusa e coloro che volontariamente consegnarono le armi poterono beneficiare dell’indulto.

Negli anni successivi sembrò che la disfatta dei malcontents fosse servita a scoraggiare i realisti dall’intraprendere altre azioni armate. Scoppiarono solo piccole scaramucce, che ebbero ancora come centro la Catalogna e i Paesi Baschi, finché non giunse il 1830 con la nuova regina napoletana, la Prammatica Sanzione e l’Infanta in fasce, e all’eco della rivoluzione liberale che risuonava in tutta Europa, non ribatterono furiose le grida di guerra dei carlisti.

Agli assolutisti era mancato fino ad allora un’identità unificante: erano legittimisti, realisti, apostolici finché non riuscirono a riconoscersi e a non dividersi, almeno formalmente, nel nome di un uomo che avrebbe rappresentato la conservazione, i principi del legittimismo, la tradizione cattolica: il Pretendente, l’Infante Don Carlos, che mise fine ad ogni confusione politica.

Emersa la questione successoria, nasceva così un fenomeno peculiare e straordinariamente persistente della storia spagnola, il carlismo, unico tra i legittimismi europei a sopravvivere per due secoli, per la sua paradossale

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87 capacità di modernizzarsi adattandosi ai tempi. Quello che riguarda il carlismo è un capitolo denso e lungo della vicenda della controrivoluzione europea, spesso penalizzato dalla storiografia che ha preferito studiarlo in posizione subordinata rispetto alla storia del liberalismo e della rivoluzione, come se la sua connotazione di storia della sconfitta, di storia frustrata fosse connaturata alle stesse istanze che rappresentava. Lo ha sottolineato Jordi Canal, che ha scritto:

Demasiado frequentemente se estudia la cuestión como si fuera evidente - ¿para quien? ¿para los contemporáneos o para el historiador? – la derrota de las opciones contrarrevolucionarias y las distintas historias nacionales son presentadas como la simple historia del despliegue de la sociedad y de los proyectos liberales. La contrarrevolución se convierte entonces, en consecuencia en una simple anécdota. Estudiar el objeto histórico en su propia especificidad no implica olvidar, no obstante, que revolución y contrarrevolución forman parte de un mismo proceso histórico y que establecen, entre ellas, una relación dialéctica permanente6.

Non mancano svolte e cambiamenti nella storia della controrivoluzione, su cui Joseph De Maistre scriveva “ne sera point une révolution contraire, mais le contraire de la révolution”7: continuità non significa infatti

immutabilità, come ha sottolineato lo stesso Arno Mayer studiando The Persistence of the Old Regime8, la cui periodizzazione, 1848-1918, può

essere utile per allungare verso il basso i tradizionali limiti cronologici, 1770-1850, indicati da testi classici come quello di Jacques Godechot, La

6 J. Canal, Repensar la historia de la contrarrevolución en la Europa del siglo XIX, in

AA.VV., El Carlismo en su tiempo: geografías de la contrarrevolución, Gobierno de Navarra, Pamplona 2008, p. 20.

7 J. De Maistre, Considérations sur la France, Libraire de a Société Bibliographique, Paris

1880 [1796], p. 178.

8 A. J. Mayer, The Persistence of the Old Regime: Europe to the Great War, Croom Helm

Publishers, London 1981, traduzione italiana Il potere dell’Ancien Régime fino alla prima

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88 contre-révolution. Doctrine et action 1789-18049. Del resto la

controrivoluzione è sottoposta alle tensioni che le impone la dimensione internazionale, che le appartiene tanto quanto appartiene a liberalismo e rivoluzione: c’è infatti un’internazionale bianca, non cosmopolita, che in Spagna trova un punto di riferimento e un modello imprescindibile. Francisco Savalls, Rafael Tristany, José Borges sono ad esempio i nomi di alcuni carlisti che esportarono le loro convinzioni conservatrici, che allargarono i confini del campo della loro militanza armata fino in Italia, dove combatterono tra il 1840 e il 1872. Così come diversi furono i francesi, gli italiani, persino gli inglesi che negli anni della guerra de los siete años scelsero di farsi coinvolgere nella questione iberica per combattere al fianco di Don Carlos.

Il carlismo può dunque essere considerato uno dei primi movimenti controrivoluzionari di massa, eterogeneo e interclassista, strutturato e rafforzato intorno ad un mito vittimista che convinceva gli attori economici, sociali e culturali travolti dalla trasformazione liberale e capitalistica ottocentesca.

Carlos pretendeva che i suoi seguaci fossero “Toda la nación”, un’ambizione molto lontana dalla realtà, sebbene tutti gli strati sociali della nazione fossero ben rappresentati nella protesta carlista, ognuno con la propria personale motivazione per rimpiangere l’ancien régime e rivendicare i diritti dinastici del Pretendente. A guidarli e ad organizzarli dalle retrovie erano molti membri del clero, soprattutto di quello regolare, che avevano già sperimentato le conseguenze del liberalismo sui loro beni: nazionalizzazione e vendita. Nella loro opera di persuasione sulle conseguenze infauste del cambiamento politico erano sostenuti da piccoli notabili rurali, da burocrati, militari e intellettuali reazionari che non avevano alcun timore a mescolarsi con le grandi masse contadine pur di

9 J. Godechot, La contre-révolution. Doctrine et action 1789-1804, Presses Universitaires

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89 trovare braccia che difendessero la causa carlista e i vecchi privilegi acquisiti ponendosi a servizio dei Borboni nell’amministrazione locale del territorio. Era questa propensione che li distingueva da coloro che non avevano mostrato alcun entusiasmo nei confronti dell’Infante e delle sue pretese, la nobiltà e i grandi proprietari terrieri, convinti in gran parte che a rappresentare una reale minaccia per l’ordine sociale e la proprietà fossero proprio le masse contadine e proletarie, che seguendo il Pretendente e compiendo al suo seguito il proprio apprendistato alla politica avrebbero potuto presto imparare ad avanzare ben altre rivendicazioni, che non le innocue richieste dinastiche di Don Carlos.

I contadini dal canto loro preferivano rispondere all’appello carlista che consideravano rassicurante nella misura in cui non metteva a repentaglio l’economia morale e i valori tradizionali del mondo rurale e in considerazione del fatto che gli interventi della nuova politica agraria impregnata di principi liberali non avevano minimamente migliorato le loro condizioni di vita. Il desiderio di tornare ai mores maiorum e la scelta della Chiesa come propria paladina in ogni caso non sembravano loro opzioni incoerenti rispetto alla continuazione della lotta contro le vessazioni feudali, a cominciare dalla decima più volte abolita e restaurata a partire dal XVIII secolo, che rappresentava la più odiosa servitù per i lavoratori della terra e che in fretta entrò tra le motivazioni che avrebbero provocato il disincanto contadino nei confronti del carlismo. Quando i finanziamenti alla causa da parte dei conventi iniziarono a crollare infatti, i guerriglieri si diedero alle rapine e ai soprusi nelle campagne e combattere per il Pretendente non sembrò più tanto conveniente ai volontari di Don Carlos, che voltarono le spalle a colui che pochi anni prima avevano riconosciuto come legittimo sovrano, arruolandosi nelle sue file come se “fuesen a una fiesta mayor”. Fino agli ultimi mesi della sua vita Fernando VII aveva provato a contenere il protagonismo del fratello, che nei giorni dell’esilio portoghese lasciava che innumerevoli proclami carlisti invadessero il suolo spagnolo. «Yo no

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90 puedo impedir la publicación de unos papeles que necesariamente debían pasar por tantas manos» si giustificava da Ramalhao, città dalla quale il sovrano gli chiedeva insistentemente di spostarsi, convinto che fosse troppo vicina al suo regno.

Te daré gusto y te obedeceré en todo. – replicava ancora Carlos – Partiré lo más pronto que me sea posible para los Estados Pontificios, no por la beleza, delicia y atractivos del país, que para mi es de muy poco peso, sino porque tú lo quieres, tú, que eres mi Rey y señor, a quien obedeceré en cuanto sea compatible con mi conciencia; pero ahora viene el Corpus, y pienso santificarlo lo mejor que pueda en Mafra, y no sé por qué te admira que yo prefiriese quedarme en Portugal, habiéndome probado tan bien su clima y a toda mi familia y no siendo lo mismo viajar que estarse quieto. Yo no te dije que temiese el perecer yo y toda mi familia, sino que si nos íbamos a embarcar en Lisboa podía culquiera contagiarse al pasar por aquella atmósfera10.

Com’era prevedibile in realtà avrebbe dovuto essere il sovrano ad avere di che temere per la propria salute e infatti quella fu una delle ultime missive da parte del fratello che la vita gli concesse di leggere. Morto Fernando VII, la tranquillità della monarchia venne irrimediabilmente compromessa. Le sue spoglie vennero esposte per tre giorni nella grande sala del Trono per poi essere trasportate all’Escorial, i Voluntarios Realistas fecero la guardia al Palazzo Reale, come da tradizione, e la tranquillità della Capitale lasciò sperare per qualche giorno che il Regno avrebbe accolto con favore la reggenza di Maria Cristina e l’avvento di Isabella come legittima erede al trono. Il 3 ottobre sulla “Gaceta de Madrid” venne pubblicata la decisione testamentaria di Fernando di designare Maria Cristina come reggente fino alla maggiore età dell’Infanta Isabella. Il giorno dopo venne dato alle

10 Carlos a Fernando, Ramalhao 21 de Mayo de 1833, pubblicato in J. C. Clemente, Bases

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91 stampe anche un manifesto firmato dalla stessa Reina gobernadora con il chiaro intento di impressionare i sudditi spagnoli, ma soprattutto le corti straniere che avrebbero dovuto procedere in fretta al suo riconoscimento, garantendo un’impossibile continuità nella gestione del Regno:

La Religion y la Monarquía, primeros elementos de vida para la España, serán respetadas, protegídas, mantenidas por Mí en todo su vigor y pureza [...]. Yo mantendré religiosamente la forma y las leyes

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