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Un'ebrea tedesca nell'era del totalitarismo

E d i t r i c e L a G i u n t i n a - V i a K i c a s o l i 2 6 , F i r e n z e

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^ ^ D E I LIBRI DEL MESE • •

Letterature

L A U R A RESTREPO, Il giaguaro al so-le, ed. orig. 1993, trad. dallo

spagno-lo di Alessandra Riccio, pp. 280, Lit 26.500, Frassinella Milano 2000

Laura Restrepo è la colombiana autrice e giornalista già nota pres-so il pubblico italiano per il ro-manzo Dolce Compagnia

(Frassi-nella 1997), spesso messa in rela-zione con il suo celebre compa-triota Gabriel Garcia Màrquez sia per il rapporto di stima che pub-blicamente li lega, sia per la scel-te della romanziera di unire nelle opere narrative allo stile giornali-stico d'indagine i voli impercetti-bili e straimpercetti-bilianti del realismo ma-gico. Nel Giaguaro al sole, i

Bar-ragàn e i Monsalve sono uniti da un intimo legame di sangue e dal-ia comune origine. Il deserto in cui sono nati e cresciuti ha abi-tuato il loro cuore a una legge du-ra e definitiva. Abbandonedu-ranno il rude entroterra per colpa della maledizione che li affligge, ma re-steranno fedeli alla sua legge, che li condurrà alla faida spietata e senza tregue, regolamento dei conti che non tornano mai. Figlia di una fiera morale, rigida innanzi-tutto con se stessa, la sua ferrea coerenza interna si riversa in fero-ci attacchi sul mondo esterno, e si scontra con le vittime dell'ira, la famiglia avversaria, ugualmente inghiottita nel vortice della ven-detta. Nasce così un gioco dalle regole ben precise, un tessuto fit-to la cui trama è stabilita da tradi-zioni secolari. Non vincerà altri se non la morte, che ha già gloriosa-mente esposto il vessillo sul muro del silenzio e sugli abiti scuri del-le donne dei Barragàn, fiere cu-stodi di una dignità rassegnata. Il rude Nando Barragàn, capostipite della lotta; Narciso il Lirico, che si dedica alla bella vita perché ne conosce la fragilità; Mani Monsal-ve, diviso tra la pulsione della vio-lenza e l'amore per Alina Jericó, che lo vuole lontano dai suoi lo-schi traffici: la vera storia è quel-la delle reazioni dei personaggi a un disegno immutabile e chiaro del destino che soffia loro sul col-lo, e la dimensione leggendaria che essi assumono grazie all'alo-ne della morte si fortifica e vieall'alo-ne sottolineata dalla voce popolare, il commento dialogato che ac-compagna tutta la narrazione ar-ricchendola e ampliandone il re-spiro.

EVA MILANO

C A R M E N BOULLOSA, Dorme, ed. orig.

1994, trad. dallo spagnolo di Anto-nella Ciabatti, pp. 130, Lit 22.000, Le Lettere, Firenze 2000

Chi è Claire? Fleurcy, il pirata, senza patria e vagabondo, un'in-dia senza nome violata da un no-bile spagnolo che non scende neanche da cavallo per posse-derla, quello stesso uomo, il con-te Enrique de Urquiza, mandato alla forca dal viceré della Nuova Spagna Filippo II. O ancora la gentile dama dalla salute cagio-nevole e dal cuor di leone, entu-siasta per gli spettacoli teatrali che il suo amico Pedro de Ocejo rappresenta per lei. D'identità mutevole, la protagonista è senz'altro qualcuno che si

na-sconde, che trova nell'agnizione, d'elezione o coatta, la via di fuga a un'identità scomoda. Per un de-stino che asseconda la sua predi-sposizione a trascendere le cate-gorie, la sua storia la porterà a es-sere ricca e povera, india e spa-gnola, uomo e donna, e sul suo corpo travestito si scateneranno le reazioni della gente del Nuovo Mondo. Claire si fa specchio che riflette le modalità dei rapporti che si stabiliscono tra gli esponenti dei vari livelli sociali in quella Città del Messico frastornata dal recen-te ingresso degli spagnoli, colta nel pieno sviluppo della nuova cultura del meticciato. Figlia di una prostituta francese e di chis-sà chi altro, Claire rinnega il suo corpo di donna per scegliersi un'identità congeniale e vivere nei panni di un predatore dei mari, senza costrizioni e sottoposto a poche leggi che non siano quella del fioretto. La capitale della Nuo-va Spagna, culla dimessa di un mondo antico, attirerà Claire a sé, donandole la salvezza dispensata dalle acque vergini sconosciute ai conquistatori. Riprenderà il pos-sesso della sua identità sessuale e della serenità della propria con-sapevolezza in cambio di un rap-porto esclusivo con quella terra che la tratterrà a sé come per un incantesimo. La protagonista è l'eletta, promessa dormiente della rivincita del popolo indio, già spoglio di qualunque altra speci-ficazione d'identità, Altro generi-co, conquistato e ridotto al silen-zio forzato. Carmen Boullosa, messicana, poetessa e scrittrice versata al romanzo storico, ripro-duce con una salda base docu-mentaristica lo spaccato di un mondo confusionario e in fase di grossi cambiamenti, e gioca ba-roccamente con maschere ed eti-chette a confondere ruoli e idee, fino a che il confronto e lo stesso caos non rivelano il bandolo del-l'identità.

( E . M . )

A L I C E M C D E R M O T T , Il nostro caro Bil-l y , ed. orig. 1998, trad. daBil-lBil-l'ingBil-lese di

Laura Noulian, pp. 319, Lit 29.000, Garzanti, Milano 2000

È stato recentemente proposto ai lettori, in una scorrevole tradu-zione italiana, questo romanzo di Alice McDermott, autrice ameri-cana attiva dagli anni ottanta e vincitrice nel 1998 del National Book Award. La storia è semplice: Billy, un giovanotto timido e un po' poeta, che si attira la simpatia di tutti (Charming Billy è il titolo

ori-ginale del libro) si innamora di Eva, una paffuta ragazza irlande-se che fa temporaneamente la baby-sitter insieme alla sorella Mary. È un breve incontro estivo, sulle spiagge di Long Island. In-sieme a Billy c'è Dennis, cugino e amico, che corteggia Mary. Ma Eva deve ripartire. Billy comincia a scriverle, vuole sposarla, le manda dei soldi perché si paghi il viaggio per gli Stati Uniti. Eva non risponde. Dennis viene a sapere da Mary che Eva non intende tor-nare: si sposa in Irlanda. Che fa-re? Finisce per dire a Billy che Eva è morta. Ma la bugia avrà un "potere terribile". Billy non parlerà più di Eva, e dopo il matrimonio con la slavata Maeve (ma la ama?) comincerà a bere fra lo

sconcerto e i vani tentativi di aiu-to dei parenti. Passano quasi trent'anni, e Billy farà un viaggio in Irlanda e scoprirà che Eva, un po' invecchiava, con famiglia, ge-stisce una pompa di benzina. Ai ritorno, Billy andrà di filato a Long Island, dove non aveva più voluto mettere piede, a spiegarsi con Dennis. Non drammaticamente, come nulla è palesemente dram-matico in questo romanzo.

FLAVIA DE STEINKUHL

B E R Y L B A I N B R I D G E , Master Geòr-gie, ed. orig. 1998, trad. dall'inglese

di Neelam Srivastava, pp. 174, Lit 26.000, Fazi, Roma 2000

Beryl Bainbridge è un tipo alla Juliette Greco anche se più gio-vane di un decennio, un'incallita fumatrice dalla voce roca in un appartamento londinese costella-to di santini (si definisce una con-versa cattolica non praticante). Viene da Liverpool, la città vento-sa di slums e dune che fa da

sfon-do ai primi due capitoli del suo ul-timo romanzo, questo intrigante e appassionante Master Geòrgie.

Come il titolo, è un libro secco che non fornisce autocommenti ma fa scorrere sei "tavole" con le loro date (dal 1846 al 1854) sotto gli occhi increduli del lettore, ta-vole che rimandano sempre a una fotografia che vi viene scattata e che sono narrate alternativamente da tre personaggi: Myrtle, la tro-vatella presa in casa dallo stu-dente e poi medico Geòrgie Hardy e di lui innamorata; Pom-pey, un monellaccio che diventa factotum e amante di Geòrgie, nonché fotografo; il dottor Potter, scienziato cognato di Geòrgie che lo segue nel 1854 prima a Costantinopoli e poi in Crimea. Come nei due romanzi preceden-ti, dedicati alia spedizione di Ro-bert Scott all'Antartide ( Un'avven-tura micidiale, Anabasi, 1995) e al

naufragio del Titanio (Ognuno per sé, Fazi, 1998), Beryl Bainbridge

è attirata dalle catastrofi, per cui ci porta da una Liverpool di nor-mali orrori quotidiani al teatro di una guerra disastrosa e incom-prensibile (qualcuno ricorda per-ché si combatté a Sebastopoli?) dove i sudditi dei pacifici regnan-ti europei si scannarono efficien-temente, e il colera e la disorga-nizzazione fecero il resto. Ma per descrivere tutto ciò Bainbridge non sfodera una scrittura emotiva, né ammannisce decine di pagine di pseudodocumentazione e ra-gionamenti sulla guerra di Cri-mea; proietta invece una serie di fotogrammi gelidi, che possono ri-cordare il Woyzeck di Buchner.

Oltre tutto il lettore sta sempre spiando gli indizi che i narratori lasciano cadere nei loro resocon-ti per capire quali siano in effetresocon-ti i rapporti fra di loro e che cosa mai stia accadendo. Perfino la realtà più immediata (il sesso e la morte) appare non meno problematica in questo vuoto conoscitivo in cui tutti annaspano. Ecco Pompey verso il finale: "Vidi uno dei nostri fucilieri seduti dritto nel fango, gli occhi spalancati e la sommità del-la testa aperta come un uovo aldel-la coque... Mi allungai verso Myrtle e la presi fra le braccia... Non riu-scii a penetrarla. Mi permise di accarezzare il suo orifizio ma quando tentai di andare oltre si

ri-fiutò. Non insistetti, dato che non era una faccenda molto importan-te..." Il tragico si congiunge all'u-morismo e a una dominante grot-tesca. Ed è qui forse che Bain-bridge si rivela figlia prosciugata ma non indegna di Dickens. Ma-ster Geòrgie è un romanzo da

leg-gere e rilegleg-gere, nella sua pre-gnante concisione. Bainbridge è riuscita a scrivere un romanzo storico senza'banalità, a rispar-miarci chiacchiere e moralismi, a proiettare la storia in un'aura me-tafisica senza disperderne la spe-cificità.

M A S S I M O BACIGALUPO

W I L L I A M V O L L M A N N , Puttane per Gloria, trad. dall'inglese di Antonio

Scurati, pp. 203, Lit 22.000, Monda-dori, Milano 2000

Ci vuole un bel coraggio, am-mettiamolo, per raccontare certe storie, certi ambienti e non ricade-re tanto nel facile moralismo quan-to in una maldestra parodia di Bukowski. Ci vuole coraggio ma soprattutto talento, due qualità che non mancano a William Voll-mann. Poco conosciuto in Italia - sono stati tradotti solo Storie di farfalle (Fanucci, 1999) e un paio

di racconti - Vollmann è uno degli scrittori più interessanti dell'attuale scena letteraria statunitense. Fin dal titolo, Whores for Gloria

impo-ne una lettura sfuggente, carica di sensi che si sovrappongono senza escludersi a vicenda. Un america-no legge Puttane per Gloria, ma

sente risuonare anche "guerre per

gloria": due possibilità, due alter-native, entrambe valide e presenti nel romanzo. Jimmy è un reduce del Vietnam che si aggira come un fantasma per le strade del Tender-loin, downtown di San Francisco,

quartiere a luci rosse abitato solo da puttane, magnaccia, drogati e barboni. Jimmy tira avanti spen-dendo il magro assegno dell'assi-stenza sociale con le prostitute: ma il soddisfacimento sessuale è del tutto secondario. Quello che compra non è sesso ma racconti, ricordi, una memoria per ridare consistenza e corpo alla propria ossessione, Gloria, la donna ama-ta e lonama-tana, forse inesistente. Il romanzo fonda tutta la propria for-za sulla continua infrazione della dialettica binaria: corpo e fanta-sma, realtà e delirio si scambiano di posto così spesso da annullare qualsiasi tentativo di contrapposi-zione. Quella di Jimmy è una realtà fluida e sfuggente come il sogno, in cui è normale che i ricor-di che lui compra dalle prostitute diventino la memoria di Gloria, contribuendo a renderla poco a poco più reale. Ma proprio nel mo-mento in cui Gloria sembra mate-rializzarsi e assumere un corpo, a Jimmy sfugge tutto di mano facen-dolo precipitare in un vortice di au-todistruzione quasi liberatoria. An-che i corpi, ed è forse la cosa An-che più colpisce, sono colti nella loro realtà fluida, mutevole e transito-ria, catturati nell'esatto momento in cui, come in un quadro di Ba-con, passano dall'essere corpo al-l'essere soltanto carne. Carne da macello, viene automatico scrive-re, come le prostitute e gli ex sol-dati - gli unici personaggi del li-bro - due facce di una stessa me-daglia, il Cuore Purpureo (un'ono-rificenza dell'esercito americano

che più volte fa capolino nel libro) di una America senza memoria e pietà, pronta a rimuovere ai margi-ni chi ha combattuto per lei, per la sua gloria. Quella di Vollmann, an-cora come la pittura di Bacon, è una scrittura che non riesce più a essere eloquente, ma ha solo brandelli di storia dolente senza alcuna speranza di ricomposizio-ne o incorporazioricomposizio-ne.

FRANCESCO GUGLIERI

FRANCESCA GHIDINI, Abitata da un grido. La poesia e l'arte di Silvia Plath,

pp. 109, Lit 18.000, Liguori, Napoli 2000

Il saggio di Francesca Ghidini su Silvia Plath approfondisce con coerenza il rapporto fra il clima, la retorica e la strategia della guerra fredda e l'arte e la personalità del-la poetessa americana che scri-veva proprio tra gli anni cinquanta e sessanta. Se "la poesia è la so-la arma che abbiamo", come ha scritto Alien Ginsberg, la poesia di Silvia Plath più che esprimere una protesta esprime rifiuto; è poesia contro. Segni di un disagio personale, le poesie di Silvia Plath sono ambivalenti frutti di una ge-stazione a rischio. L'incombere della catastrofe nucleare e il clima di paralisi espressiva e creativa prodotto dalla guerra fredda sono solo alcuni degli ostacoli incontra-ti dall'arincontra-tista. Silvia Plath si pro-nuncia anche contro i modelli femminili proposti dalla società americana, sia quello consumista, sia quello moralista che chiede al-la donna americana di rinunciare alla corporeità. Usando gli stessi stilemi degli slogan pubblicitari la poetessa di Boston privilegia il non senso e le rime musicali per creare attrito con un linguaggio che è violento, che seziona il cor-po e che privilegia l'emarginato, la vittima, il perseguitato. Anche l'immaginario mitico della scrittri-ce rispecchia il disagio di vivere senza condividere i valori imposti dalla società contemporanea. La luna e Medusa, due elementi ri-correnti nella sua versificazione, sono figure scomode. Da sempre simboli associati alla femminilità, essi ricoprono qui ruoli inquietanti e divengono icone delia violenza: "muse della guerra fredda" le de-finisce Francesca Ghidini. Que-st'ultima segue lo sviluppo della scrittura di Silvia Plath dalla giovi-nezza, quando ancora le influen-ze dei poeti modernisti (Eliot e Pound) erano evidenti, sino agli anni della maturità e del suicidio, quando la voce della poetessa trentenne si identifica con un io che cerca la propria affermazione in nome della diversità. Se II ramo d'oro di Frazer e La dea bianca di

Graves erano stati punti di riferi-mento culturali per la costruzione di un immaginario mitico, allo stesso modo gli studi sul "doppio" di Otto Rank e di Freud vengono assunti dalla poetessa a emblema della propria condizione esisten-ziale. Perfetta ragazza americana che impersona il mito di chi si fa da sé - studentessa modello che si mantiene grazie a borse di stu-dio conquistate per merito - , la Plath cova in sé un'altra Silvia, poetessa maledetta, che canta il non compiuto: "Abbiamo tanto camminato. È finita".

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libri del mese

Ivo ANDRIG, Poesie scelte, a cura di

Stevka Smitran, testo serbo-croato a fronte, pp. 148, Lit 25.000, Le Lettere, Firenze 2000

Dopo le poesie raccolte in Ex Ponto- pubblicate in traduzione

ita-liana nel lontano 1968 (Ivo Andric',

Ex Ponto e altre opere, Fabbri,

1968) - , appare ora un volume che comprende una sessantina fra le più belle poesie andriciane, a parti-re dalla prima composta, del 1911,

Al crepuscolo (apparsa sulla rivista

"Bosanska vila"), seguita dalle liri-che delle raccolte Ex Ponto ( 1918) e Inquietudini (1920), per concludere

con le ultime composizioni poetiche

La fine (1970) e Né dei né preghie-re... (1973), incluse nella raccolta Cosa sogno e cosa mi accade,

pubblicata postuma nel 1976. La curatrice del volume, Stevka Smi-tran, porta il lettore a scoprire l'at-tualità e la modernità delle poesie di Andric individuandovi una

conce-zione tragica della vita, e ossessioni del passato che ritiene utili guide in questo percorso poetico, caratteriz-zato da alcuni motivi-chiave: il dolo-re come espdolo-ressione dell'anima sla-va, l'oblio e la morte a esso legati in diverse sfumature, quindi la malin-conia come consapevolezza del-l'imperfezione che l'uomo cerca di colmare attraverso l'arte, la poesia, la narrazione, e, infine, la solitudine quale estrema condizione del di-stacco di Andric, che con tutta la sua opera (poetica e narrativa) ha descritto straordinariamente "quel piccolo fazzoletto di terra 'in mezzo al mondo' chiamato Bosnia". Nella parte conclusiva dell'introduzione, prendendo in considerazione le teo-rie della traduzione, si cerca di illu-strare il percorso traduttivo seguito, il cui scopo era riscrivere "le pro-prietà metaforiche della lingua ser-bo-croata (...) in italiano", identifi-cando le differenze tra questi versi e la poesia occidentale, per sfruttarne

i punti d'incontro. Le poesie annoia-ne in traduzioannoia-ne italiana si possono così definire fedeli ma libere, con particolare cura per il momento foni-co-semantico. Questi versi sono, secondo la dichiarazione della stes-sa Smitran, "organizzati senza alcu-na disciplialcu-na metrica come vuole la tradizione modernista" e "disposti secondo i criteri di una nuova lin-gua".

LJILJANA BANJANIN

PERSIDA LAZAREVIC D I GIACOMO, I

ro-manzi-cronache di Ivo Andric, pp. 125,

Lit 20.000, Campus, Pescara 2000

L'autrice propone una rilettura dei due romanzi principali di Ivo Andric (// ponte sulla Drina e La cro-naca di Travnik, entrambi del 1945)

attraverso gli elementi che li unisco-no, quello storico della cronaca e

P H I L I P K . DICK, Trilogia di Valis, ed.

orig. 1981-82, trad. dall'inglese di De-lio Zinoni e Vittorio Curtoni, 3 voli., pp. 288+252+257, Lit 39.000, Monda-dori, Milano 2000

Philip K. Dick è stato uno scrit-tore di fantascienza, che ha cer-cato inutilmente di essere ricono-sciuto come scrittore mainstream

(cfr. "L'Indice", 2000, n. 3), e che ha finito per diventare qualcosa che rende del tutto inutilizzabile la distinzione tra l'una e l'altra cosa. I lettori italiani sono da anni letteral-mente subissati dai suoi numero-sissimi libri, e questo ha forse l'in-conveniente di non consentire, ai meno informati, di distinguere quella che in fondo non è altro che fantascienza da quattro soldi (nel senso di quelli che guadagnava lui scrivendola) da romanzi asso-lutamente straordinari, come gli ultimi che scrisse - agli inizi degli anni ottanta - e che vanno sotto il

titolo di Trilogia di Valis. Il

pannel-lo centrale della tripannel-logia, Divina in-vasione, è un romanzo di

fanta-scienza in senso stretto, e proprio per questo è stato pubblicato nel-la colnel-lana "Urania" di Mondadori - come romanzo a sé - sin dal 1986; ma è anche la storia di un secondo Avvento, e la lettura del primo capitolo (una decina di pa-gine) è sufficiente a confermare la genialità di Dick e la sua consape-volezza letteraria. Valis e La tra-smigrazione di Timothy Archer,

in-vece, potrebbero essere definiti come i resoconti metafinzionali di un'esperienza autobiografica di carattere soprannaturale; il mo di verità, insomma, nel massi-mo della finzione. Ma chiedersi a quale genere appartengano non ha senso, come non ha senso chiedersi se Dick fosse pazzo o

quello romanzesco delle leggende e del folclore, ai quali, secondo lei, bisogna aggiungere la concezione del tempo e dello spazio del tutto particolari nello stile andriciano: un processo circolare nel quale il pas-sato annuncia i! futuro, rendendo l'uomo consapevole dell'incertezza dell'avvenire. Lo spazio diventa un mosaico, un testimone partecipe e nello stesso tempo impotente del futuro incerto. In II ponte sulla Drina

lo spazio assume la sua impotenza sia nel senso verticale (verticale è la porta che divide le tre zone: il cie-lo, la terra, il sottosuolo), sia in quel-lo orizzontale (orizzontali sono le ar-cate che collegano le due sponde, l'Oriente con l'Occidente). In La

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