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T H O M A S PAINE, L'età della ragione, a

cura di Erica Joy Mannucci, pp. 132, Lit 17.000, Ibis, Como 2000

Nel 1793, mentre era in Francia, dove era stato eletto deputato della Convenzione, e poco prima di esse-re incarcerato dal governo giacobi-no in quanto amico dei girondini, Thomas Paine cominciò a scrivere quello che sarebbe stato il suo ulti-mo libro: L'età della ragione. Prima

dell'arresto Paine riuscì a completa-re solo la prima parte dell'opera (quella che ora viene presentata ai lettori italiani), mentre la seconda sarà composta in prigione. Il libro esprime una posizione di teismo ra-dicale: tutte le religioni rivelate sono considerate deviazioni rispetto a una religione naturale a cui ciascun uo-mo può arrivare per mezzo della ra-gione. Si può fissare un'equazione tra la critica politica di Paine e quel-la religiosa. In entrambi i casi egli si scaglia contro l'eredità del passato che ha creato sistemi oppressivi che si mantengono per la forza di inte-ressi costituiti, ma che non reggono di fronte alla critica razionale. In que-sto senso la religione rivelata può es-sere vista come l'equivalente della monarchia in politica. L'argomento di fondo di Paine è quello del creato

come prova evidente della esistenza di Dio, ricavabile dall'osservazione del mondo e delle sue leggi di fun-zionamento, che l'uomo può scopri-re ma non può modificascopri-re. In questo Paine non è particolarmente origina-le, e si serve di argomenti da tempo consolidati. Basti pensare che tra le sue fonti c'è Spinoza. Tuttavia se le argomentazioni sono quelle avanza-te già nella letavanza-teratura seicenavanza-tesca, il libro risente di una diversa atmosfe-ra cultuatmosfe-rale, quella del newtonianesi-mo che, con la scoperta della gravi-tazione universale come legge di funzionamento dell'universo, aveva dato nuova forza agli argomenti tei-sti. D'altronde, più che per l'origina-lità intrinseca, il libro di Paine va va-lutato per la sua capacità di divulga-re argomenti difficili a beneficio di un pubblico non colto, anzi spesso ap-pena alfabetizzato. Se al lettore odierno possono suonare ingenue alcune affermazioni dell'autore o pa-rere troppo disinvolto il modo con il quale risolve importanti questioni teologiche, occorre riportare lo scrit-to al clima del momenscrit-to e ai fini che si proponeva. In tal senso assai utile risulta l'introduzione della curatrice, che fornisce gli elementi necessari per storicizzare un testo che, ancora più degli altri di Paine, per essere correttamente inteso dev'essere contestualizzato.

MAURIZIO GRIFFO

ISAIAH BERLIN, Due concetti di libertà,

ed. orig. 1958, postfaz. di Mario Ric-ciardi, pp. 115, Lit 25.000, Feltrinelli, Milano 2000

Questo saggio di Isaiah Berlin è considerato ormai un classico del pensiero politico del Novecento. Pubblicato già in versione italiana in diverse raccolte di saggi, viene qui presentato per la prima volta in vo-lume autonomo, arricchito di una postfazione che ricostruisce l'itine-rario intellettuale di Berlin. Nel suo scritto, Berlin riprende il famoso di-scorso di Constant sulla libertà de-gli antichi e dei moderni, ma dialo-ga soprattutto con Mill. La distin-zione analitica tra libertà "negativa" (o libertà da) e libertà "positiva" (o

libertà di) viene svolta e

argomenta-ta con l'intento esplicito di difende-re la prima (e il pluralismo che vi è connesso) contro gli attacchi della seconda. Secondo Berlin, la neces-sità di non essere ostacolati nelle proprie scelte è cosa diversa dal bi-sogno di sentirsi padroni di se stes-si, e la risposta alla domanda "Che cosa sono libero di fare?" è da tene-re distinta dalla risposta alla do-manda "Chi mi governa?". Pertanto, il "non-impedimento" della tradizio-ne liberale va distinto dall"'autono-mia" della tradizione democratica; a tal punto che è possibile afferma-re che la libertà negativa "non è

in-compatibile con qualche forma di autocrazia". Mostrando come sia pericoloso affidarsi alla sola libertà positiva - poiché dal principio di autogoverno razionale è assai faci-le passare al governo degli esperti e al totalitarismo - Berlin afferma che qualunque significato di libertà non può prescindere da un minimo di libertà negativa. In questa pro-spettiva, il problema di quanta

au-torità debba essere esercitata pre-vaie sul problema di chi eserciti la

medesima autorità.

TOMMASO GRECO

E V A CLVOLANI, La sovversione esteti-ca. Arte e pensiero libertario tra Otto-cento e NoveOtto-cento, pp. 204, Lit 25.000,

Elèuthera, Milano 2000

La ricerca di Eva Civolani si svi-luppa lungo due percorsi analitici, complementari e convergenti. Il pri-mo affronta le concezioni estetiche dei teorici classici dell'anarchismo. Per Proudhon l'arte ha la funzione di conciliare il giusto con l'utile, di contribuire al miglioramento dei co-stumi, all'elevazione morale e quin-di al perfezionamento degli uomini. Bakunin difende il valore proget-tuale, universale, etico e libertario dell'arte. Per Kropotkin essa riveste

il ruolo di recupero della dimensio-ne estetica dell'esistenza, soffocata dall'industrialismo, mentre per Tol-stoj è strumento di comunione fra gli uomini, attraverso lo scambio di sentimenti di eguaglianza e frater-nità. I primi decenni del Novecento, con l'impatto della psicoanalisi e la disillusione per la realtà dell'autori-tarismo sovietico, coincidono con una svolta anche nell'estetica liber-taria: l'accento si sposta dall'analisi dello sfruttamento a quella del do-minio. Se per Pelloutier e per l'a-narcosindacalismo, l'arte deve creare dei ribelli, per teorici come Rocker, Goldman, Bergman, l'arte non è più un fattore marginale del processo rivoluzionario, ma diviene un vettore della denuncia dell'auto-ritarismo politico, che indossa le vesti della massificazione delle co-scienze, propria dei totalitarismi moderni. Se l'anarchismo presta at-tenzione all'arte, anche l'arte non è lontana dall'anarchia. Il secondo iti-nerario coglie, infatti, il movimento opposto di avvicinamento degli ar-tisti agli ideali libertari, a volte con-sapevolmente, come in Courbet o in Pissarro, a volte in modo più im-plicito, tramite l'esaltazione dell'in-dividuo, la volontà iconoclasta, la critica della morale borghese, com'è accaduto con il dadaismo o con il surrealismo.

n.3 ^ I N D I C E

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^SCHEDE

DEI LIBRI DEL MESE • • •

Internazionale

S A R A GENTILE, Mitterrand il monarca repubblicano. La trasmissione del cari-sma nella V Repubblica, pp. 185,

Lit 32.000, Angeli, Milano 2000

A due anni da Capo carismatico e democrazia: il caso De Gaulle,

Sara Gentile affronta, in un'ottica analoga, la figura di Frangois Mit-terrand. Dapprima ne considera gli studi, l'iniziale fascinazione per il colonnello ultraconservatore La Rocque, la cattura e l'internamento a opera dei nazisti, la fuga, l'impe-gno a Vichy e, in un secondo mo-mento, nella Resistenza; quindi ne ripercorre l'itinerario del dopoguer-ra. Mediatore abile e carismatico, Mitterrand si segnala sulla scena politica già con la Quarta Repub-blica, ottenendo via via anche sva-riati incarichi ministeriali. Con il passare degli anni, egli rimane sempre alla guida di gruppi ostili a De Gauile, fino a qualificarsi come il maggior oppositore del Generale. Parallelamente, lavora per l'unità dei socialisti, diventando nel 1971 segretario del Psf. In tale carica Lionel Jospin gli subentrerà nel maggio 1981, quando Mitterrand - già battuto per un soffio da De Gaulle nel 1965 e da Giscard d'E-staing nel '74 - sarà infine eletto al-l'Eliseo. Forte d'una cospicua mag-gioranza in Parlamento, per tutto il primo settennato Mitterrand si po-ne, quanto alla prassi presidenzia-le, su una linea di sostanziale con-tinuità rispetto al gollismo, con la recisa rivendicazione d'un domai-ne reservé (difesa e politica estera)

e ordonnances a pioggia: sebbene

la coerenza lo induca a evitare un ricorso massiccio ai referendum, precedentemente biasimato in De Gaulle, durante questa fase egli governa da vero "monarca eletto". In conseguenza dell'ascesa chira-chiana si inaugurerà invece la

cohabitation, con il verificarsi, fra i

poli dell'esecutivo, di scontri anche plateali - mai, però, traumatici. Il merito storico di Mitterrand consi-ste dunque nell'aver progressiva-mente sfrondato la presidenza francese dagli elementi cesaristici tipici del gollismo, improntando la propria azione a canoni di realismo e flessibilità. Gli vanno perciò rico-nosciuti la capacità di adeguarsi ai tempi e il rango del grande statista.

DANIELE ROCCA

H A R R Y B R O W N E , La guerra civile spa-gnola, ed. orig. 1983, trad. dall'inglese

di Biagio Forino, pp. 186, Lit 20.000, il Mulino, Bologna 2000

Due miti, opposti e paralleli, si sono sviluppati attorno al tema del-ia guerra civile spagnola. Innanzi-tutto, l'osborniana last great cause.

In realtà, la guerra del 1936-39 non fu il primo atto della sfida europea tra democrazia e fascismo, ma eb-be cause specificamente spagno-le. Fu riprova dell'incapacità della Spagna di operare un'effettiva na-zionalizzazione delle masse e fu drammatico momento di frattura dei conflitti latenti a livello sociale, politico ed economico: un esercito abituato a considerarsi unico de-tentore della "volontà generale", una Chiesa cattolica ostile al libe-ralismo, io scontro tra centralismo e regionalismo, lo sviluppo di un'e-conomia fortemente dualistica. Il

secondo mito è, invece, quello del-la cospirazione comunista: in realtà, il programma dei repubbli-cani era più liberale che socialista; la breve stagione rivoluzionaria fu più anarchica che comunista; la di-pendenza dall'Unione Sovietica per la fornitura d'armi accrebbe l'influenza comunista sia sulla stra-tegia militare sia su quella politica, ma non produsse governi di tipo sovietico sotto forme pallidamente democratiche. "Nessuna nuova va-lutazione della guerra civile - affer-ma l'autore - dovrebbe perdere di vista la natura del governo prebel-lico o la squallida brutalità del regi-me che s'impose dopo la guerra". Nel saggio di Browne, la ricostru-zione del conflitto è, infatti, prece-duta dalla descrizione della lunga crisi della seconda repubblica ed è seguita dall'analisi delle conse-guenze del franchismo sulla storia spagnola, in termini di terrore poli-tico, di crisi economica e di isola-mento dal resto dell'Europa.

FRANCESCO CASSATA

D I E T M A R R O T H E R M U N D , Delhi, 15 agosto 1947. La fine del colonialismo,

ed. orig. 1998, trad. dal tedesco di Se-rena Andreassi, pp. 259, Lit 32.000, il Mulino, Bologna 2000

Dietmar Rothermund è uno stu-dioso noto soprattutto per le ricer-che sulla storia dell'India moderna. In quest'ultimo libro, però, si cimen-ta brillantemente con un argomento più ampio: una panoramica storica generale sulla fine del colonialismo. La periodizzazione scelta (1947-1964), tanto nel suo termine a quo

che in quello ad quem, è centrata

sull'India. La data dell'indipendenza indiana, infatti, segna l'inizio del pro-cesso che porterà alla fine degli im-peri coloniali. La scomparsa di Neh-ru, poi, conclude una fase nella vita dei nuovi Stati indipendenti e costi-tuisce uno spartiacque rispetto a quello che è avvenuto successiva-mente. Molta cura è messa nel defi-nire "le circostanze specifiche in cui avvengono i processi di decoloniz-zazione", nella convinzione, ampia-mente condivisibile, che esse "eser-citano una profonda influenza sul successivo sviluppo dei nuovi stati". In particolare l'autore sottolinea l'im-portanza, in ciascun contesto, di fat-tori come il ruolo dell'esercito, l'esi-stenza di istituzioni di partecipazio-ne politica in epoca tardo-coloniale, ia maturazione o meno di un'opinio-ne pubblica. E riesce, in questo mo-do, a offrire al lettore un metro di giu-dizio ragionevole per capire l'evolu-zione di ciascuna delle ex colonie. Ripartito in otto capitoli, più un'intro-duzione, il libro è diviso sostanzial-mente in due parti. I primi cinque ca-pitoli ripercorrono le vicende delle varie aree geografiche. Gli ultimi tre sono tematici e affrontano la politica estera, la stòria economica e l'ere-dità coloniale. In questo modo il vo-lume riesce a dare un quadro, ne-cessariamente schematico, ma ab-bastanza completo, dei vari accadi-menti, e consente al tempo stesso una messa a punto dei più impor-tanti aspetti della decolonizzazione. In particolare va segnalata, per il suo ampio respiro, la ricostruzione della politica estera. L'autore ricorda co-me i nuovi Stati, nei loro tentativi di promuovere una efficace politica dì non allineamento, scontavano nega-tivamente il difficile rapporto con le ex madrepatrie o con gli Usa, e,

contemporaneamente, dovevano fa-re i conti con la implacabile Realpo-litik sovietica. Anche la discussione

sull'eredità coloniale, infine, offre una esposizione sostanzialmente equilibrata. Per quanto Rothermund non nasconda la sua avversione di principio verso la dominazione colo-niale, i suoi esiti ultimi non sono visti del tutto negativamente, anche se non arriva a dichiararli, per timidez-za o per radicata convinzione, un contributo di civilizzazione.

MAURIZIO GRIFFO

EDVARD RADZINSKIJ, Rasputin. La ve-ra storia del contadino che segnò la fine di un impero, ed. orig. 2000, trad. dal

russo di Luisa Agnese Dalla Fontana, pp. 535, Lit 38.000, Mondadori, Mila-no 2000

Chi fu Grigorij Efimovià Rasputin, l'ultimo uomo ad avere in pugno le sorti russe prima della deflagrazione rivoluzionaria? Drammaturgo, già au-tore di documentari storici e biogra-fie, Radzinskij ne tratteggia il cama-leontismo di profeta contadino,

l'a-more per l'ascesi come per il sesso e la danza, l'enorme influsso a corte. Il tono dominante nel libro è quello del dramma, e Radzinskij stesso pensa d'aver scelto un tema da romanzo d'appendice, ma la ricchezza delle fonti gli permette di illuminare la sto-ria del monaco sibesto-riano fin nei suoi versanti meno noti. Significativa l'ini-ziale rassegna dei protagonisti: Ni-cola II, soprattutto con la guerra mondiale in grave calo di autorità, la zarina Alessandra (succube di Ra-sputin), i membri dell'alta aristocra-zia, poi i vari stregoni, taumaturghi e veggenti di palazzo, le mogli celesti

di Rasputin, i maggiorenti di secon-do livello e gli effimeri ministri d'un paese allo sbando, alla mercé di am-biziosi, ciarlatani e acchiappanuvole d'ogni sorta. Emerge da ogni pagina l'approfondirsi del fossato fra auto-crazia-oligarchia e società, né fa me-raviglia vedere anche Rasputin pre-so fra intrighi e contrasti tutti giocati nel microcosmo della reggia come sul quadrato d'una scacchiera. È in ogni caso fuori discussione la singo-larità del personaggio: un'impressio-nante autoconsapevolezza carisma-tica viene qui attestata anche dalle foto. Malgrado le concessioni aned-dotiche, Radzinskij illustra in modo attento e attendibile il fenomeno Ra-sputin e l'impatto che esso ebbe

sul-la corte come sull'immaginario collet-tivo e la credulità popolare, quella stessa che nel dicembre 1916 spin-se molti, quando nella Neva ne fu rin-venuto il cadavere, a precipitarvisi per riempire secchi d'acqua ritenuta benedetta, dopo che lo starec della

zarina era stato avvelenato, percos-so, colpito da pallottole e poi, forse ancor vivo, legato e gettato nel fiume dagli ideatori della congiura.

( D R . )

P A U L CARELL, La campagna di Russia,

ed. orig. 1963 e 1966, trad. dal tedesco di Giorgio Cuzzelli e Marina Neu-bert Giuriati, prefaz. di Raimondo Luraghi, 2 voli., pp. 770+699, Lit 36.000, Rizzoli, Milano 2000

In questa monumentale opera Paul Carell descrive con meticolo-sità quasi maniacale e dovizia di particolari la titanica lotta che si svolse tra la Wehrmacht e l'Armata

Rossa dal giugno del 1941 all'ago-sto del 1944 (ii secondo volume si arresta con l'arrivo dei russi sul confine della Prussia Orientale). L'autore passa dai racconti dei re-duci (ha intervistato centinaia di ex-militari tedeschi, di ogni grado, dal feldmaresciallo al soldato sem-plice) alla situazione strategica complessiva (illustrata anche gra-zie a un gran numero di belle carti-ne), dai dettagli tecnici dei carri ar-mati alle trame degli agenti segreti. Careil padroneggia questa impo-nente materia con abilità e la espo-ne con una prosa scorrevole, inter-vallando le analisi di natura tattico-strategica con pagine liriche di sa-pore jungheriano. Il principale limi-te dell'opera consislimi-te, semmai, nel-la sua natura di storia militare stric-tu sensu. Carell, infatti, non prende

in considerazione il carattere ideo-logico dell'attacco tedesco all'U-nione Sovietica, sorvolando sulla condotta feroce della Wehrmacht sul fronte orientale. L'obiettivo - im-plicito, ma molto chiaro - dell'auto-re è quello di salvadell'auto-re l'onodell'auto-re dell'e-sercito tedesco, attribuendo tutta ia responsabilità della sconfitta agli errori di Hitler e all'efficienza della rete spionistica sovietica. Non solo, Carell è una sorta di dottor Strana-more, che cerca di occultare il suo passato di alto burocrate del Ili Reich, e si sforza di dimostrare di avere superato con successo il processo di de-nazificazione; "Paul Carell" è uno pseudonimo angliciz-zante del germanissimo Paul Schmidt. Ma, come avviene per ii personaggio del film di Kubrick, il passato di Carell non può non riaf-fiorare. A proposito dell'attività del-le spie russe, ad esempio, egli si lascia sfuggire un "Oh, Fuhrer, se avessi saputo!", una frase che ri-corda in maniera inquietante il "Mio Fuhrer, io cammino!", con cui si chiude II dottor Stranamore.

Quan-to alla traduzione italiana, pur com-plessivamente di buon livello, tal-volta non rende onore allo stile di Carell. In alcuni casi, infatti, i termi-ni tectermi-nici sono resi con espressiotermi-ni approssimative, se non decisa-mente inappropriate; si pensi al goffo "granatieri blindati", per

"Panzergrenadiere", che si poteva

lasciare nella lingua originale.

GIAIME ALONGE

M A R T I N L U T H E R K I N G J R . , "I bave a dream". L'autobiografia del profeta del-l'uguaglianza, a cura di Clayborne

Carson, trad. dall'inglese di Tania Gargiulo, pp. 400, Lit 35.000, Monda-dori, Milano 2000

Martin Luther King non scrisse mai un'autobiografia. Coretta Scott King precisa nella nota iniziale che in "I have a dream" le parole del

marito sono oggi raccolte "in forma autobiografica" nell'attesa che il

King Papers Project, con la

pubbli-cazione dei suoi quattordici volumi, giunga a compimento. Priva pur-troppo di un'introduzione storica, l'opera è suddivisa in trentadue ca-pìtoli, nel primo dei quali troviamo gli anni giovanili di King, il suo am-biente per nulla misero, l'istruzione per nulla mediocre, i genitori per nulla apolitici; nell'ultimo, ii discor-so tenuto al Tempio del vescovo Mason a Memphis il 3 aprile 1968, vigilia della morte; fra l'uno e l'altro, in puntuale successione, le prime lotte, il movimento dei sit-in, la

mar-cia di Washington, il Nobel, i

con-trasti con il Black Power per la sua "filosofia nichilistica". Si può dire che la vita del Reverendo sia stata tutta rivolta all'affermazione del principio cristiano di uguaglianza, cuore pulsante del suo sistema ideologico. Ciò lo indusse a batter-si su più fronti, oltre a quello raz-ziale: nel 1964 a Oslo King invoca-va "una guerra mondiale senza quartiere contro la povertà", facen-do appello alle nazioni più svilup-pate per cancellare "l'abisso fra la minoranza di ricchi e la maggioran-za di poveri". Sia ('"antipatia per il capitalismo" sia il desiderio di an-nientare il razzismo erano stati del resto in lui molto precoci. E così il ragazzo di Atlanta che in autobus, pur costretto a stare sul fondo per il colore della pelle, si immaginava nei sedili davanti, non tardò a dive-nire il simbolo del possibile affran-camento pacifico degli oppressi.

( D . R . )

N O R M A N M A I L E R , Il combattimento,

ed. orig. 1975, trad. dall'inglese di An-drea D'Anna, pp. 244, Lit 29.000, Bal-dini & Castoldi, Milano 2000

È stata pubblicata anche in italia-no la storia dell'incontro di pugilato tra George Foreman e Cassius Clay, o Mohammed Ali, scritta qual-che anno fa da Norman Mailer. L'o-pera conferma come l'editoria an-cora una volta abbia dedicato il maggior numero di pagine sul "più grande pugile di tutti i tempi" so-prattutto al suo incontro di Kinshasa contro Foreman. Eppure quando combatté in Zaire Ali non era più "il più forte, il più grande, il più bello". Non era più il fenomeno che aveva vinto la medaglia d'oro alle olimpia-di olimpia-di Roma, conquistato il titolo mon-diale contro un gigante come Sonny

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