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I cinquecento milioni della Begum

di Cesare Cases

4. I cinquecento milioni della Begum

Il dilemma era tanto più grave in quanto il buono o cattivo uso della tecnica era stato per lui il grande trauma di Au-schwitz, che aveva visto come uno stravolgimento dei valori stessi in cui aveva imparato a credere, e almeno parzialmente in nome di essi. La famosa scritta "Arbeit macht frei " ("Il lavoro rende liberi") incisa sulla porta della morte e che Levi chiama "le tre parole della derisione" ( 7 222) suonava offesa a ogni giusta concezione del lavoro. Ma, astratta dall'assurdo conte-sto, era valida. Nel sentir parlare Faussone del suo lavoro come fine a se stesso, Levi pensa (CS 145): "Il termine 'libertà' ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più acces-sibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l'essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo". E l'istinto del lavoro ben fatto è tanto forte che sopravvive perfino nel Lager dove sarebbe logico sabotare. Il muratore Lorenzo "detestava la Ger-mania, i tedeschi, il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero a tirare su muri di protezione contro le bombe, li faceva diritti, solidi (...); non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale" (SES 750-51). Ma Lorenzo in questo lavoro ben fatto realizzava la sua libertà? E questo che lascia perplessi. Per Marx il regno della libertà comincia oltre quello della necessità, e quindi del lavoro subordinato; per non parlare di quello coatto. E per lui l'equiparazione dell'opera dello scrittore a quella dell'artigiano non era valida, poiché Milton scrisse il Paradiso perduto come il baco produce seta: "era una manifestazione della sua natura". Che la sua visuale fosse utopistica o meno, Marx immaginava che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe reso assurda l'etica del lavoro e trasformato gli uomini in altrettanti piccoli Milton. Levi diffi-dava delle grandi concentrazioni produttive, e Dio sa se ci sono buone ragioni per farlo; tuttavia è solo attraverso una qualche forma di lavoro collettivo che dovrebbero schiudersi all'uomo le vie della libertà. Invece alla fine del Sistema periodico Levi dichiara sulle sue intenzioni nello scrivere questo libro: "... avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me inte-ressavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appie-data, a misura d'uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavorano in

équipe ma soli, in mezzo all'indifferenza del loro tempo, per lo

più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia" {SP 620).

Il pathos di questa pagina è effettivamente alla base di tutto il libro. Ma esso conferma come Levi fosse legato a una visione eroica, liberale e darwiniana della società e come il Lager gli dovesse apparire una terrificante parodia di quegli stessi princi-pi. "L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immanca-bile: essi sono assenti solo nelle utopie. E compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine" (SES 679). Raramente i principi liberali sono stati enunciati con tanta chiarezza. E insieme i principi della chimica dei fondatori, della "chimica appiedata", in cui si combatte, si vince, ma anche più spesso si fallisce, perché la Hyle è coriacea quanto la natura umana e impone una guerra senza fine. Ma come si conciliano questi principi con l'epoca dei grandi collettivi e del predominio dell'organizzazione? Non sarà questa la fine di ogni élite buona o cattiva, di ogni privilegio meritato o meno? Auschwitz aveva portato al parossismo la struttura binaria dell'umanità in "sommersi" e "salvati", ma al contempo l'aveva vanificata, poiché alla lunga secondo gli intenti dei nazisti non doveva rimanere vivo proprio nessuno, e poco ci mancò. L'a-cido cianidrico pareggia tutti aequo pede. Levi sa benissimo, e l'ha ripetuto ampiamente ne Isommersi e i salvati, che coloro che si sono salvati raramente erano tra i migliori. Il rimorso del sopravvissuto non l'abbandonerà mai (si veda soprattutto la bella poesia II superstiste, OI50). Tuttavia c'è sempre in lui un po' di segreta invidia social-darwinista (che lo porta più vicino di quanto pensi all'esecrato Nietzsche) del moralista per chi non ha scrupoli, dell'essere ragionevole per la bestia, per esem-pio nella descrizione del terribile nano Elias dalla forza fisica incredibile e dal parlare dissennato, che in libertà si troverebbe "confinato in margine al consorzio umano, in un carcere o in un manicomio" (SQ 100). Una volta Levi osò assestargli un

calcio ed egli lo abbatté a terra stringendogli la gola fino all'in-coscienza (SES 763)7. Levi è sempre molto esatto e perspicace nel descrivere questi personaggi con la sua indefettibile memo-ria, che una volta (RS 83) ha paragonato a quella del personag-gio di Borges che si ricordava di ogni foglia che aveva visto. Ciò non toglie che le sue classificazioni mettano a disagio e qualche volta facciano invocare il posteriore radicalismo di Shoah di Lanzmann, che considera le sopravvivenze come meramente casuali, come un errore tecnico nel processo di sterminio, indipendentemente dalle qualità individuali dei sopravvissuti. Elias avrà avuto tutte le facoltà indispensabili per sopravvivere, compresa la demenza in cui si rifletteva specularmente l'insen-satezza del Lager, ma se è sopravvissuto sarà per un puro caso e non perché si sia affermato nella lotta per la vita.

Jules Verne, che certo Levi avrà amato da ragazzo (anche se non mi sembra che ne parli), ha scritto nel 1879, quindi dopo la sconfitta della Francia ad opera della Germania, un roman-zo, I cinquecento milioni della Begum, che trasferisce sul piano nazionale il dilemma tra la buona e la cattiva scienza. L'ingente eredità della Begum va infatti a finire nelle tasche di due scien-ziati, uno francese e uno tedesco, che se ne servono per realiz-zare in America due opposte utopie: France-Ville, perfetta-mente organizzata in piena libertà, fiorente di industrie e com-merci e cultura, naturalmente pacifica, e Stahlstadt, la città dell'acciaio, una sola gigantesca officina dedita alla fabbricazio-ne di armi. Qui regna la centralizzaziofabbricazio-ne totale, tutto dipende dal professor Schultze che siede solo al centro dell'enorme meccanismo, e tutto converge nella preparazione di un unico spaventoso cannone che dovrà sparare un unico colpo per distruggere France-Ville e affermare la supremazia del popolo tedesco. Inutile dire che ciò non avviene, in seguito alla morte di Schultze, vittima di uno dei suoi stessi marchingegni. La capacità di far coincidere ingenuamente il nazionalismo con la polarizzazione dell'utopia in positivo e in negativo è propria della mentalità ottocentesca, tuttavia la descrizione di Stahlsta-dt si legge come una prefigurazione del mondo concentrazio-nario del Terzo Reich. La visione di Levi era dominata da un simile schematismo di fondo, dove per verità solo la città del male, grazie all'esperienza di Auschwitz, assumeva contorni netti, mentre l'altra risultava solo per opposizione e per nostal-gia: una città ideale fatta di tanti Faussone, di tanti chimici e tecnici ancora immersi nella lotta eroica e artigianale contro la Hyle affinché l'uomo domini la natura e la squadri a regola d'arte nei limiti del possibile; una città schietta e austera, meno allegra di France-Ville e più vicina alle virtù piemontesi. Primo identificò spesso questa Faussonopoli con la sua città d'origine, la casa invocata nei sogni del Lager con la sua casa, quella in cui nacque e visse, che descrisse minuziosamente in un articolo

(AM 3 sgg.) e in cui peraltro si uccise.

L'integrazione, il conformismo, in un uomo del suo valore sono sempre un'utopia. Egli voleva certo essere un socio qual-siasi della Famija Turineisa, ma il suo piemontese non era abbastanza ortodosso; così come voleva seguire le regole del Gattermann e le seguiva, ma ribellandosi alla loro rigidezza, sognando di passare a fisica e trovando interesse alla chimica solo quando il Gattermann lo piantava in asso. Era della razza del suo amico Delmastro, che nelle escursioni si portava sem-pre dietro la "sbertucciata" guida del Cai, ma per dimostrare che non serviva a nulla (5P469). Resta il fatto che Faussonopoli rimaneva sempre l'alternativa a Hitlerstadt e Levi si rifiutava di scorgere le profonde radici comuni. Il rimprovero alla pre-miata ditta Topf di Wiesbaden, produttrice di forni crematori per uso civile, perché aveva costruito quelli di Auschwitz e poi era tornata ai primi senza nemmeno sentire il bisogno di cam-biare la ragione sociale (SES 7) dovrebbe investire la cecità tedesca, ma forse che la Honeywell ha cambiato nome dopo che tutti sapevano che aveva prodotto i defolianti per la guerra del Vietnam? Anche qui Kafka aveva l'intuizione giusta: il suo Josef K., che ci teneva tanto a distinguere il suo processo, dibattuto in maleodoranti casoni di periferia, dal suo lavoro di impeccabile impiegato nella banca del centro, scopre ben pre-sto che tra quelli che erano venuti ad arrestarlo c'erano dei suoi colleghi, che un cliente della banca è al corrente delle sue vicende e che nei sotterranei di essa si svolgono scene sadiche in cui vengono puniti alcuni emissari del tribunale. Levi conti-nuò a sperare che non ci fosse alcun rapporto tra i due mondi in cui era vissuto. Ma la memoria involontaria gli diceva il contrario e nella sua opera di scrittore essi s'incrociavano, e continuavano il loro duello nelle proiezioni fantascientifiche.

[INDICE

• • D E I LIBRI DEL M E S E B I

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L'articolo già citato Le più liete creature del mondo (AM 191 sgg.) mostra come l'utopia positiva fosse per lui più difficilmen-te concepibile che per lo sdifficilmen-tesso Leopardi, il quale almeno invi-diava evangelicamente gli uccelli che non hanno niente da seminare e da raccogliere perché Nostro Padre che è nei cieli li mantiene (Matt. 6.26), mentre lo scienziato ricorda che gli uccelli vivono faticosamente, compiendo sforzi immani per la ricerca del cibo, che a noi sembrano eleganti e gratuite evolu-zioni aeree. La realtà massiccia e indimenticabile dell'utopia negativa finisce però per postularne una positiva che appariva sbiadita, la trasfigurazione delle croci e delizie della vita quoti-diana di uomo e di chimico, però l'unica possibile. Questo ideale, diciamo, di seconda scelta non resistette all'impetuoso ritmo del cambiamento. Il modello artigianale diventava sem-pre più inattuale. Il sistema periodico un chimico lo legge oggi probabilmente come l'incantevole descrizione di situazioni e tecniche che appartengono a una tappa superata della storia della sua scienza. La decisione di Levi di passare a cinquantacin-que anni da scrittore della domenica (e non di tutte, come osserva egli stesso) a scrittore a tempo pieno, deve avere avuto a che fare con questa consapevolezza. Nel nuovo mestiere l'artigianato continuava. Fino a che punto? Il giornale reclama-va l'articolo, il settimanale volereclama-va la sua opinione su chissà quale problema, le interviste fioccavano, gli studenti del liceo di Faussonborgo erano desiderosi di fargli delle domande. Lui teneva testa a tutto e nell'insieme la scelta si rivelava giusta, benché non riuscisse sempre a tenere il passo con il progresso che continuava a correre dietro anche allo scrittore. Il giovane — un giovane particolarmente simpatico, perché dei suoi non buoni rapporti coi giovani non faceva alcun mistero — che gli insegna a far funzionare il computer, gli dice (AM 230): "Tu appartieni all'austera generazione di umanisti che ancora pre-tendono di capire il mondo intorno a loro. Questa pretesa è diventata assurda: lascia fare all'abitudine e il tuo disagio spari-rà". Levi sembra accettare questo ammonimento (e userà costan-temente il computer negli ultimi anni), ma è egualmente colto dall'"angoscia dell'ignoto". In qualche modo, il mondo è diven-tato simile ad Auschwitz, che non si deve capire. Allora si era ribellato a questa imposizione, oggi non più, perché gli si presenta come ausilio e non come offesa, ma ne soffre ugualmen-te. Che senso ha un mondo in cui è meglio non capire?

La critica non l'aveva molto incoraggiato nella nuova carriera, rimanendo indietro di molte lunghezze rispetto al favore del pubblico, che dopo la riedizione di Se questo è un uomo nel 1958 non gli mancò mai. A posteriori si possono vedere le ragioni. Contro Se questo è un uomo, pubblicato quasi clandestinamente nel 1947 da un piccolo editore, c'erano certo i tabù del primo dopoguerra. Si poteva parlare del passato, anzi si doveva, purché però dietro gli orrori facesse capolino da est o da ovest qualche solicello dell'avvenire. La descrizione di un sistema d'inumanità totale che, chissà, poteva ripetersi (e dopo Auschwitz c'era già stata Hiroshima) non era benvenuta. Nel 1958 si pensava già diversamente in proposito. Ma la differenza riguardava proba-bilmente anche lo stile. In mezzo a un "neorealismo" fondato per lo più sull'indeterminatezza psicologica e linguistica eredi-tata dagli americani, l'inesorabile precisione e la quadratura classicheggiante delle frasi di Levi dovevano apparire fenomeni al di qua della letteratura, da collocare nella categoria rispetta-bile ma inferiore dell'autobiografia e della memorialistica, come se essa non desse spesso origine a capolavori letterari. La tregua e II sistema periodico confermarono questa impressione. D'altra parte il personaggio Levi con il suo acume, il suo moralismo, la sua umiltà e la sua impavidità nell'affrontare le forze avverse, il suo rifiuto di nascondere le ferite del mondo ma anche di considerarle immedicabili, si rese popolare anche presso un vasto pubblico che non aveva sensibilità per i valori letterari. Proprio questi si tratta oggi di rivendicare.

L'incomprensione di Levi per ogni forma di linguaggio che non sia comunicazione è certo grave, — anche se umanamente spiegabilissima con il trauma della babele di Auschwitz — e guai se la letteratura la facesse propria. Le sue obiezioni a Pound, a Trakl e a Celan non sono valide anche se il primo è stato fascista. Che sia "meglio essere sani che insani" (AM 52) è una banalità che non tiene conto delle difficoltà di essere sani in un mondo insano; un mondo che egli stesso aveva sperimentato e aveva visto riflesso nella folle brutalità del nano Elias. Le poesie che egli riteneva balbettamenti — e in certo qual modo a buon diritto lo erano — tentavano di rispondere a questa insania fondamentale. Sui loro autori c'è una frase che non si può

leggere senza un brivido di gelo: "Non è un caso che i due poeti meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni" (AM 52-53). Uno scienziato dovrebbe sapere che non si possono fare generalizzazioni in base a due soli poeti morti, appunto, a distanza di due genera-zioni. In mezzo ce ne sono stati tanti di quelli invisi a Levi: chi morto tranquillamente in tarda età, chi suicida, chi ucciso dai nazisti, chi impazzito, chi in entrambi i modi, come Jakob van Hoddis, strappato al manicomio nell'ambito dell'operazione eutanasia, prima ancora di essere preso di mira come ebreo. Nei tempi che abbiamo attraversato e attraversiamo non c'è niente di meno deducibile razionalmente della morte di un poeta, o di un uomo in generale.

Eppure è proprio l'incapacità di riconoscere questo stato di cose a fare di Levi uno degli ultimi grandi interpreti della fiducia occidentale di debellare i mostri dell' irratio affisandoli, ricono-scendoli, additandoli. Solo la sua formazione di chimico poteva dargli la forza morale e linguistica di chiamare le cose con il loro nome. Di fronte ad essa i soggetti della letteratura a lui contem-poranea ci sembrano spesso agire in stato di quasi sonnambuli-smo. Del resto, dopo averlo tanto trascurato, la critica se ne stava rendendo conto dietro l'ondata di gloria che gli era giunta dall'America, e che forse l'aveva reso un po' sgomento. Ma soprattutto era sempre più stanco di essere sano in un mondo che vedeva sempre più insano. Chi canterà mai questa fatica di essere sani di mente? Non i poeti invisi a Levi, che avevano accettato l'insania; non lui, che non la riconosceva. Ma la fatica c'è, è come la torsione di un filo d'acciaio da cui pende la nostra vita con i suoi febbrili movimenti. Un giorno in Levi questo filo si spezzò. Portò dentro la posta, lasciò nel suo studio il

computer e l'archivio perfettamente ordinato, appena meno

della sua mente, e se ne andò.

* Le opere di Primo Levi qui utilizzate sono citate con le seguenti abbrevia-zioni, seguite direttamente dal numero della pagina (che per le prime quattro è quello del primo volume einaudiano delle opere): SQ = Se questo è un uomo; T = La tregua; SP = Il sistema periodico; SES = I sommersi e i salvati; CS = La chiave a stella (Einaudi, Torino 1978); RR = La ricerca delle radici. Antologia personale (Einaudi, Torino 1981); L = Lilit e altri racconti (Einaudi, Torino

1981); OI = Ad ora incerta (Garzanti, Milano 1984); AM = L'altrui mestiere (Einaudi, Torino 1985); RS = Racconti e saggi (La Stampa, Torino 1986). Inoltre con SQ App. indico l'importante appendice del 1976 all'edizione sco-lastica di Se questo è un uomo (Einaudi, Torino 1976), non riportata in questo volume. In questo saggio, per non ripetermi, non ho insistito su alcuni temi già trattati negli scritti su Levi raccolti nel mio libro Patrie lettere (Einaudi, Torino 1987, pp. 137-50).

1 Come quella scritta per congedarsi dalla Montecatini (Il testamento del vicecapolaboratorio), pubblicata ora in "Montedison. Progetto cultura", a. 2 (1987), n. 6.

2 Alla base di questo fenomeno Levi riscontra (AM 36) la tendenza dell'italia-no a ricorrere "per le cose nuove alle lingue vecchie, al latidell'italia-no e al greco", sicché (termini così risultanti vengono sentiti come corpi estranei e quindi deformati. È strano che invece in SES (728) si trovi un'invettiva contro il tedesco che da secoli "aveva mostrato una spontanea avversione per le parole di origine non germanica, per cui gli scienziati tedeschi si erano affannati a ribattezzare la bronchite in 'aria-tubi-infiammazione', il duodeno in 'dodici-dita-intestino' e l'acido piruvico in 'brucia-uva-acido'". In realtà si tratta di un procedimento linguistico opposto a quello che Levi biasimava nell'italiano: per un tedesco Bronchitis è un latinorum specialistico, mentre "aria-tubi-infiammazione" (Luf-tròhrenentzundung) è immediatamente percepibile nel suo significato.

3 Cfr. per l'aspetto puramente filologico il confronto tra le diverse traduzioni del Processo nell'articolo di Sandra Bosco Colestos, La traduzione di "Der Prozefi" di Franz Kafka, in "Studi tedeschi", a. XXVIII (Napoli 1985), n. 1-3, pp. 229-68 (su Levi soprattutto a pp. 248-50).

* Che egli, con la sicurezza del suo intuito linguistico (oltre che, come egli dice, per il perfetto funzionamento della sua "memoria meccanica") avesse già inteso in campo l'essenza di questa lingua ibrida e difficile, è confermato dall'episodio della frase (tedesca ma a costruzione jiddish) che il traduttore tedesco di Se questo è un uomo si rifiuta di avallare mentre Levi la trova poi verificata in esempi analoghi citati da un libro sull'jiddish (cfr. SES 731).

5 Per non parlare di chi addirittura dichiara (almeno stando alla "Repubblica" del 12-13 aprile 1987) che "è morto di sabato come un rabbi"-, affermazione che dovrebbe essere sentita come atrocemente empia da chiunque sia religioso o abbia qualche considerazione per il fenomeno religioso, poiché il suicidio è atto irreligioso per eccellenza e si può tranquillamente escludere che nella vasta letteratura religiosa ebraica ci sia qualche testo che lo raccomanda per santifi-care il sabato. E vero purtroppo che nel totale svuotamento delle istituzioni politico-culturali laiche la comunità ebraica di Torino ha il merito di avere avocato a sé il compito di occuparsi della morte di Levi, ma ciò non esimeva dal dovere di farlo distinguendosi dalla generale mercificazione dei valori spirituali che si getta su ogni "personaggio del giorno" dichiarando che "è dei nostri", quando ha appena dimostrato con la sua morte che dei nostri non è.

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