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La traduzione in Landolfi

2.3. I «miei vezzi»

Vale dunque la pena, dopo quanto si è detto fin qui, ragionare intorno alle scelte lessicali arcaiche e rare: l’ipotesi che esse non siano una semplice emanazione casuale dello stile landolfiano volta a impreziosire il testo, ma rientrino in una precisa scelta metodologica è avvalorata, come già accennato, da alcuni passaggi dell’epistolario con Traverso, in cui l’autore rifiuta certe proposte di correzione relative alle fiabe.

La questione è ad esempio al centro della lettera del 16 luglio 1941, in cui Landolfi, a proposito dei Grimm, protesta per mantenere la dicitura «reginotta», già di Capuana, invece del più comune «principessa», e cassa le modifiche verso una lezione meno marcata chiamando in causa l’autorevolezza del dizionario Tommaseo-Bellini nel caso di frasi come «dar di piglio» da lui usata ben due volte nelle fiabe.167 Si giustifica così con l’amico Traverso, quasi a voler impedire qualunque tipo di ulteriore replica: «A ogni modo per questo chiunque168 come per non so che dar di piglio e simm., spero vorrai concedere anche a me i miei vezzi? Oh perentorietà dei dotti!»169

167 FL, p. 29: «Il giorno appresso la figlia del re lo chiamò nuovamente perché le portasse un mazzo di fiori di campo, e appena entrò diede ancora di piglio alla sua berretta» (corsivo mio); e ivi, p. 16: «E quando penetrò nella casa, dormivano le mosche sul muro, il cuoco in cucina tendeva ancora la mano come volesse dar di piglio al guattero, e la fantesca sedeva davanti al galletto nero che doveva essere spennato» (corsivo mio).

168 Riferimento a un’altra correzione proposta da Traverso, probabilmente FL, p. 13.

106 Le fiabe, come d’altra parte la versione dell’Enrico, restano dunque costellate di scelte marcate, arcaiche o iperletterarie. Esse sono accomunate – questo l’aspetto più interessante – da un intento che sembra oltrepassare la semplice eversione dallo standard linguistico. Espressioni come «farnetico», «dar di piglio», «portentoso», (e persino la congiunzione «epperò» con valore causale-conclusivo) conferiscono certo al testo una patina antica, ma al lettore di Landolfi appariranno soprattutto come marcature di autorialità, che rimandano proprio a quei «suoi vezzi» esplicitamente rivendicati con Traverso.

Una conferma di tutto ciò si incontra per esempio sfogliando la celebre scena d’apertura del primo romanzo di Landolfi, La pietra lunare (1939), in cui si assiste alla conversazione serale tra Giovancarlo, giovane studente che oggi si direbbe “fuori sede” e i parenti raccolti in cucina che accolgono l’ospite, tornato per passare l’estate in provincia.

Proprio qui compaiono per la prima volta quel «dar di piglio» (col significato di «afferrare risolutamente con la mano un oggetto o uno strumento di lavoro»)170 che Landolfi difenderà pochi anni dopo nella già citata lettera a Traverso, e il verbo «straniare», che nell’Enrico verrà impiegato come traducente di «absondern»:171

il cugino […] fingeva ora d’essersi straniato dal discorso quasi volesse intendere che alla fin fine quelle erano faccende da femminucce; anzi, spostata di poco la sua seggiola verso una consolle che della cucina era il più bell’ornamento e dato di piglio a un vecchio grammofono posato lì sopra, andava con noncuranza cercando nella vaschetta una punta meno arrugginita e poi nella busta un disco meno fesso.172

Più avanti i personaggi parlano della necessità di pagare una «sottoserva (ossia guattera)»,173 termine che ricorrerà nella traduzione dei Grimm oltre che in opere

170 Cfr. anche in seguito: nell’episodio del duello notturno, quando Antonio lo Sportaro viene coinvolto suo malgrado, dà ovviamente «di piglio alle proprie armi» in PL, OP I, p. 178. La locuzione ricorre ancora in altri racconti della raccolta La spada (1942) come il Babbo di Kafka e Una cronaca brigantesca e in vari luoghi cronologicamente vicini: cfr. DZ, OP I p. 412; OM, OP I, p. 718; RO, OP I, p. 814; Foglio

volante, OP II, p. 821.

171 Ma anche «affrontare la battaglia, intraprendere un’azione», «cominciare a parlare», o «iniziare a considerare», come riportato in Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, cit., XIII, p. 458.

172 PL, OP I, p. 122 (corsivo mio).

107 successive,174 mentre del figlioletto della cugina si dice che «stronfiava sgraziato»,175

proprio come più avanti farà il lupo nella fiaba.

Sempre nella Pietra lunare, tornano varie volte riferimenti al «farnetico» e al «portentoso», termini che nell’Enrico segnaleranno il passaggio al mondo altro, misterioso e magico della poesia e che qui, non a caso, appartengono alla descrizione di quello che forse è il personaggio in assoluto più celebre di Landolfi: la “verania” Gurù, la donna-capra o capra mannara che interviene a turbare la misera quotidianità della vita di provincia rappresentata nella scena iniziale:

Con incontenibile impazienza attese egli l’arrivo della fanciulla. […] D’altra parte… il certo era che bisognava indagare, far qualcosa, e sopratutto accostare, vedere di giorno, da vicino, questa portentosa Gurù.176

Quando poi il giovane Giovancarlo segue la donna nelle passeggiate notturne gli accade di notare che Gurù, nell’enumerare i nomi delle piante osservate alla luce lunare, «pareva che andasse farneticando per conto suo».177 E questa condizione torna nuovamente nella forma sostantivata quando i due assistono al duello tra Napoleone (antenato del protagonista) e i banditi capeggiati da Bernardo di Spenna, con cui Gurù si accompagna nelle notti di luna piena:

[Giovancarlo,] in qualità di puro spettatore, se ne stava lontano da una parte assieme a Gurù; ella gli stringeva convulsamente una mano e diceva colla solita febbre dei suoi momenti di farnetico: «Guardalo, non è bello non è forte non è nobile? Mi sembra quasi che al suo posto ci sia tu, che tu sia lui».178

In conclusione, gli esempi riportati sono piuttosto rappresentativi di come la lingua della traduzione, nonostante la sua aderenza alla struttura della frase originale, faccia parte, senza soluzione di continuità, della stessa lingua utilizzata dall’autore per le proprie produzioni originali. In alcuni casi si tratta di vocaboli già entrati nelle opere dell’autore, in altri essi vi compaiono negli anni successivi, ma ad ogni modo è difficile

174 PI, OP I, p. 360; DM, OP II, pp. 776 e 801.

175 PL, OP I, p. 121 (corsivo mio).

176 Ivi, p. 143 (corsivo mio). «Portentoso» sarà anche, più avanti, l’aggettivo che definisce il fiore miracoloso che salva la principessa Rami in PI, OP I p. 388, nonché la spada di Renato di Pescogianturco-Longino, in SP, OP I, pp. 286 e 288.

177 PL, OP I, p. 160.

108 ricostruire la precedenza, poiché bisognerebbe poter disporre di materiali preparatori e appunti manoscritti. Tuttavia, oltre a riscontrare su un piano sincronico la mera correlazione diretta fra traduzione e scrittura, tale indagine può servire a dimostrare l’unitarietà dell’operazione di riscrittura. Infatti, se le scelte lessicali svolgono sempre un ruolo di fondamentale importanza all’interno del testo letterario, ciò vale tanto più nel caso di un autore come Landolfi, che proprio delle idiosincrasie linguistiche fa l’ossessione forse più evidente delle proprie voci narranti.

Per restare nell’ambito della scena iniziale della Pietra lunare si osservi per esempio come in poche frasi Giovancarlo inquadri i diversi membri del parentame riunito in cucina per accoglierlo:

il cugino chiese allora dei locali notturni della capitale, scivolando nel discorso con visibile soddisfazione le parole tabarin girl champagne; l’unica obbiezione che gli si sarebbe potuto muovere avrebbe riguardato una sua cocciuta confusione dei condizionali cogli imperfetti soggiuntivi. Laddove suo padre non confondeva che fra loro, del soggiuntivo, i vari tempi; le confusioni delle due donne vertevano invece di preferenza sui generi dei nomi; quanto al fratello della zia non parlava, ovvero barbugliava in modo del tutto incomprensibile grazie alla particolare pinguedine della sua lingua, complicata dal curioso puntiglio di non voler rifiatare se non a discorso finito, avesse a esser lungo quanto voleva, sicché a costui si poteva concedere, in fatto di flessione verbale, il più largo credito.179

Il cugino ama le parole straniere ma confonde i condizionali con gli imperfetti, lo zio scambia i tempi verbali, il fratello della zia curiosamente si ostina a respirare solo al fondo di ogni frase: è chiaro come l’idiosincrasia linguistica e persino grammaticale è dunque per il narratore un elemento fondamentale della personalità e, si può legittimamente dedurre, del «piglio» di ognuno. Non sembra dunque illecito aver applicato un simile metodo di rilevamento delle idiosincrasie linguistiche allo stesso autore, riponendo particolare attenzione sui luoghi delle traduzioni in cui compaiono termini tipicamente landolfiani, e proprio da questi partire per rintracciare le strette connessioni tra traduzione e scrittura. Prima, tuttavia, si può tentare di trarre qualche conclusione dall’analisi condotta finora.

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2.3.1. La «brenna arrembata»

Occorre in primo luogo tenere in considerazione un dato biografico e cronologico, ovvero la già ricordata precocissima passione per le lingue straniere che porta l’autore a misurarsi già da molto giovane con le prime traduzioni, e a proseguire poi negli anni a venire.180 La concreta prassi traduttiva, che implica un confronto ripetuto tra l’originale e il proprio testo, accompagnato dalla continua ricerca lessicale sui vocabolari, potrebbe aver influenzato più di quanto non sia stato già notato la pratica della scrittura, e aver dunque contribuito in maniera essenziale alla formazione dello stile landolfiano. La sua “voce”, così marcata, riconoscibile e fedele a se stessa – nonostante i vari momenti di crisi, svolte e sperimentazioni in diversi generi letterari – non solo fa mostra di sé nelle traduzioni, ma anzi potrebbe aver trovato proprio in esse un primo modello di lavoro. Alla luce di questa premessa, gli arcaismi con cui Landolfi si fregia di aver infiorato la propria versione sono, a bene vedere, parte integrante della voce dell’autore e si possono quindi considerare come veri e propri ‘landolfismi’.

Queste considerazioni non sembrano tuttavia avere avuto fino ad ora l’attenzione che meritano da parte della critica, quasi come se notare la presenza autoriale di Landolfi nelle sue traduzioni fosse un rilievo quasi sconveniente. Nell’informatissimo ed essenziale articolo di Idolina Landolfi sull’«Infernale lavoro» del Landolfi traduttore (pubblicato nel 1997),181 che riunisce (e in alcuni casi rende noti per la prima volta) importanti stralci dai carteggi landolfiani, l’accento è posto sulla ricerca da un lato della «fedeltà all’originale», e dall’altro del «piglio»,182 concetto più volte usato dall’autore per descrivere il proprio atteggiamento nei confronti dei testi. Idolina rileva poi la qualità di un lavoro quasi sempre condotto in tempi estremamente rapidi ma al contempo in modo rigoroso, nonostante il rapporto «tormentato»183 con gli autori tradotti. È proprio Idolina, inoltre, a proporre per prima la bipartizione cronologica delle traduzioni landolfiane, ricordando come esse fossero – soprattutto nella seconda

180 Nella cronologia di Idolina è indicato che già nel 1921, a soli tredici anni, l’autore traduce La mort du

loup di de Vigny. Si veda OP I, p. XXVIII.

181 I. Landolfi, L’«infernale lavoro», cit.

182 Ivi, pp. 6 e 9.

110 fase – praticamente il solo mezzo di sostentamento economico dello scrittore. Idolina non conduce un’analisi sui testi, ma conclude il proprio intervento con un accenno che pare confermare quanto si è cercato di dimostrare in queste pagine:

[Landolfi] si picca di mantenere un’estrema fedeltà al testo, ma poi meravigliosamente traligna: non che falsi i contenuti, e neppure il linguaggio, ma attinge in un suo modo – che è forse l’unico, quello che passa per vie oscure – al dato ineffabile che fa la reale interpretazione dello spirito di un autore: trasposto sulla pagina è ciò che lui dice «piglio», o «tono». […] So che può sembrare una forzatura ciò che sto per affermare, ma Landolfi non aderisce al testo che traduce, o meglio vi aderisce alla sua maniera: c’è più Landolfi, naturalmente, che altro nel suo Gogol’, nel suo Leskov o nel suo Tolstoj.

Se si lascia da parte l’affermazione non falsificabile riguardo «la reale interpretazione dello spirito di un autore», si nota però che Idolina coglie in termini generali ciò che un confronto serrato con i testi sembra confermare, ovvero come di là dall’effettiva aderenza sintattica all’originale, sia percepibile nelle traduzioni di Landolfi una forte presenza autoriale. Sintomatico è tuttavia il fatto che questo rilievo compaia nell’intervento soltanto come accenno finale, non approfondito e attenuato dalla clausola personale («so che può sembrare una forzatura ciò che sto per dire»). Il fatto che ci possa essere più Landolfi «che altro» nelle sue traduzioni sembra qualcosa di cui, a conti fatti, è meglio non parlare troppo.

La critica successiva è stata infatti molto più cauta da questo punto di vista, tralasciando spesso di soffermarsi sui “landolfismi”. Nel caso delle traduzioni da Lermontov, Valentina Parisi ha osservato per esempio «l’esigenza [da parte di Landolfi] di una versione tanto fedele alla lingua di partenza da risultare quasi “straniante” rispetto all’idioma d’arrivo».184 Nonostante nel saggio si faccia riferimento ad alcune deformazioni messe in atto dalla versione di Landolfi – vengono smorzati i toni più enfatici o passaggi più drammatici, e c’è una tendenza a razionalizzare – l’analisi si conclude confermando la vicinanza sintattica tra originale e traduzione. In un altro intervento, incentrato sull’analisi metrico-linguistica di Silentium! di Fëdor Tjutčev, e sulla versione di Landolfi, Marco Sabbatini rileva invece l’insistenza «oltre maniera

184 Valentina Parisi, Tommaso Landolfi traduttore di Michail Lermontov, in Alizia Romanovic e Gloria Politi (a cura di), Da poeta a poeta. Del tradurre la poesia, Atti del convegno, Lecce, 20-22 ottobre 2005, Pensa MultiMedia, Lecce 2007, p. 613.

111 nell’uso di un lessico sostenuto e obsoleto rispetto allo stile discorsivo dell’originale»,185

ma sembra trattarsi di un caso isolato all’interno della critica landolfiana.

La lingua delle traduzioni di Landolfi è inoltre al centro di una peraltro dettagliata e attenta monografia pubblicata nel 2009 sui Racconti di Pietroburgo di Gogol’,186 cui Landolfi lavora nel 1941, contemporaneamente al lavoro su Novalis e i Grimm. Nel capitolo dedicato al confronto fra le varie traduzioni, Valeria Pala fa più volte notare la particolare cura verso gli aspetti linguistici dell’originale, e la ricerca stilistica attenta a non correggere o spiegare le incongruenze del testo di partenza per restituire invece quanto più possibile la struttura originale della frase, fenomeno che coincide con il principio dell’aderenza di cui si è parlato nei paragrafi precedenti.

Per quanto riguarda il secondo principio che si è individuato, ovvero l’inserzione dei ‘landolfismi’, anche Pala nota come Landolfi non si limiti a impiegare termini arcaici per rendere l’“effetto di antico.” La spiegazione data dalla studiosa, però, similmente a quanto notava Parisi, è che Landolfi punti a ottenere, mediante l’arcaismo, un generale straniamento linguistico capace di far accedere il lettore italiano del ventennio all’alterità culturale dell’originale russo, per porsi in controtendenza con la traduzione addomesticante che in quegli anni rappresenta la norma. Pala vede questa caratteristica della traduzione di Landolfi in continuità con la poetica del fantastico, che nel saggio è la chiave di lettura privilegiata:

il fantastico concepito da Landolfi e proposto nella sua traduzione nasce come scarto minimo rispetto alla realtà comunemente intesa. Esso nasce come trasgressione linguistica e come oscuramento della trasparenza comunicativa della lingua. Il suo scopo non è di creare una realtà altra di tipo consolatorio ma di infrangere le facili e univoche certezze che le propagande di regime (nella Russia zarista e nell’Italia fascista) cercano di inculcare.187

Molti sono gli esempi portati da Pala a sostegno della propria tesi, e nel testo si sottolinea la volontà dell’autore di aumentare «l’effetto straniante della sua versione» scegliendo di tradurre alcune «normali frasi russe» con «immagini iperboliche e con espressioni che deviano dall’italiano standard».188 L’autrice giustifica al contempo le

185 Marco Sabbatini, Traducere et dicere… «Silentium!» di Fëdor Tjutčev. Note sull’analisi

metrico-linguistica e sulla traduzione di Tommaso Landolfi, in Romanovic e Politi, Da poeta a poeta, cit., p. 259.

186 Pala, Tommaso Landolfi traduttore di Gogol’, cit.

187 Ivi, p. 223.

112 deviazioni dallo standard con la necessità di adattarsi di volta in volta al testo gogoliano, e fa per esempio notare l’intenzione da parte di Landolfi di mettere maggiormente «in luce il carattere satanico/animalesco»189 dei personaggi.

Ciò che nell’analisi non viene sottolineato in modo esplicito, tuttavia, è che quella perseguita da Landolfi con i suoi arcaismi è un’estraneità nient’affatto generica, e poco legata alla struttura russa (o tedesca) della frase originale: essa ha un luogo di nascita e di sviluppo ben preciso e riconoscibile dal lettore, ovvero l’idioletto letterario dello stesso Tommaso Landolfi. Senza inoltrarsi nella traduzione di Gogol’, si riporta qui un unico esempio – estremo – di questo fenomeno, tratto dall’analisi della stessa Pala delle prime pagine de Il naso in cui Landolfi si trova a «enfatizzare il brano gogoliano con espressioni vive e colorite»190 per far risaltare il carattere demoniaco del protagonista del racconto.

L’insulto scagliato dalla moglie al barbiere subito dopo il ritrovamento del naso nel panino è in russo «suchar’ podžaristyj!», letteralmente qualcosa come «biscotto abbrustolito», che sarebbe già, per il lettore italiano, una scelta straniante, come notato da Pala.191 Landolfi però non si accontenta, e trova, per tradurre l’insulto, una soluzione estremamente originale e in netta divergenza con il russo, come «vecchia brenna arrembata!»192 Espressione rara che significa all’incirca “vecchio ronzino zoppo” e che, proprio per la sua stravaganza ricercata, rientra già a pieno titolo nel gusto landolfiano. Non sembra però un azzardo ipotizzare che ad accendere l’interesse per questa espressione sia stato proprio il lavoro di traduzione delle fiabe dei Grimm (compiuto nel giugno del 1941, dunque pochi mesi prima di Gogol’, cui Landolfi si dedica nel settembre dello stesso anno) dove, come si è notato in precedenza, Landolfi aveva optato infine per «cavallo a tre gambe» correggendo Franco Bianchi e il suo «ronzino zoppo». Non deve essergli sembrato vero poter inserire qui ciò che nelle fiabe probabilmente non poteva permettersi, dovendo mantenere un registro compatibile con un pubblico molto giovane. L’effetto è infatti assicurato: su «brenna arrembata!»

189 Ivi, p. 228.

190 Ivi, p. 217.

191 Ivi, p. 228.

192 Ibid. Si veda le voci «Brenna» in Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, cit., II, pp. 363-365 e «Arrembato» in ivi, I, pp. 682-683.

113 un lettore mediamente attento alle sfumature linguistiche interromperà la lettura per interrogarsi sull’identità del traduttore e, forse, per chiedersi a quale gioco egli stia giocando.

La funzione di marcatura autoriale svolta dalla «brenna arrembata», inoltre, va anche al di là del testo tradotto, confermando ulteriormente come la scrittura venga influenzata dal lavoro sui testi stranieri. Seguendo le tracce di questo strano animale, infatti, si scopre che Landolfi doveva essere almeno in parte consapevole di tale ruolo di tacito segnale assegnato alla «brenna». A distanza di anni, infatti, accoglierà per ben tre volte l’espressione nella sua opera in proprio, facendola diventare esplicitamente l’immagine della sua propria scrittura. Nell’Eterna provincia si nota che le possibilità dell’eloquenza spaziano dai «pegasi» alle «brenne arrembate»193 e la stessa scrittura diaristica di Rien va viene metanarrativamente definita come un piacere ronzinesco:

Neppure il ronzinesco (di brenna arrembata, vecchia, bolsa e mezzo addormentata che cammini a testa bassa per una carreggiata), neppure il ronzinesco piacere di questo diario notturno mi sarà concesso ancora a lungo: dovrò cominciare o ricominciare qualcuno di quei lavori tanto più faticosi quanto più inutili.194

E infine in A caso, la brenna non è più «arrembata», ma «misera», e rappresenta ancora una volta la scrittura di Landolfi stesso in contrapposizione a quella dei «sommi»:

Naturale, il carro dei sommi avanza maestoso e trionfale al trotto dei suoi quattro e più cavalli normanni, di garretto peloso; il nostro geme, scricchiola, traballa e si scommette, tirato da una sola e misera brenna […]. Ma insomma, tra sudori, bestemmie e sagrati, con infinito ritardo magari, in qualche posto s’arriva anche noi... O no?195

2.3.2. Il traduttore visibile

La letteratura critica pare dunque non insistere sui ‘landolfismi’, né tantomeno sembra considerarli un aspetto caratterizzante delle traduzioni di Landolfi. Il motivo di

193 IS, OP II, p. 174.

194 RV, OP I, p. 326 (corsivo mio).

114 tale silenzio si può forse cercare nel pregiudizio – originato dalla pratica traduttiva fortemente prevaricante nei confronti dei testi stranieri di cui si è accennato nel capitolo precedente – che vede la supposta modestia e «invisibilità» del traduttore come sua unica posizione legittima. Il paradigma dell’«invisibilità del traduttore», che dovrebbe