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I modelli virtuosi di flexicurity: il sistema danese

Come noto, la Danimarca è stata indicata dall’Unione Europea e dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro come un buon esempio da seguire per quanto concerne le strategie per l’occupazione: un modello virtuoso di flexicurity.

Il riferimento alla Danimarca nel dibattito sulla flexicurity include numerosi altri aspetti come l’efficiente organizzazione macroeconomica, la capacità di innovazione economica e di riforma istituzionale, gli alti livelli di formazione professionale, e infine la cooperazione tripartitica a tutti i livelli, volta a creare consenso anche sugli obiettivi generali del sistema delle politiche da seguire.

In relazione al caso danese, si è soliti rappresentare la flexicurity come un “triangolo dorato”, i cui tre vertici sono costituiti da un mercato del lavoro altamente flessibile, uno schema generoso di ammortizzatori sociali ed un’ampia diffusione delle politiche attive.

Secondo tale visione il sistema danese consiste nel seguente processo: il mercato flessibile espelle di frequente un alto numero di lavoratori, che accedono ai sistemi di disoccupazione; successivamente i lavoratori espulsi rientrano nell’attività o in un lasso di tempo molto breve o, nel più lungo periodo, dopo essere passati attraverso schemi di attivazione che ne incrementino skills e occupabilità. Viene così a configurarsi un concetto multidimensionale, posto che, come già esposto, i concetti di flessibilità e sicurezza possono atteggiarsi in maniera differente.

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Secondo quanto teorizzato da Wilthagen e Tros 111, esistono, infatti, cinque tipologie di flessibilità:

 Flessibilità esterna: consistente nella facilità di assunzione e licenziamento dei lavoratori e nella diffusione dei contratti di lavoro a tempo determinato;

 Flessibilità interna: consistente nella facilità di modificare la quantità di lavoro impiegata nell’impresa, senza ricorso a modifiche formali del rapporto di lavoro, ma tramite variazioni dell’orario, ricorso a straordinari o part-time;

 Flessibilità funzionale: consistente nella capacità delle imprese di spostare i propri lavoratori da una mansione ad un’altra o di modificare i contenuti del lavoro dei propri dipendenti;

 Flessibilità salariale: consistente nella reattività dei salari ai mutamenti delle condizioni economiche;

 Flessibilità esterna funzionale: possibilità per l’impresa di commissionare alcune mansioni a lavoratori esterni senza dover ricorrere a contratti d’impiego, ma esclusivamente a contratti commerciali.

Accanto alle diverse tipologie di flessibilità, vanno analizzate le quattro dimensioni del concetto di sicurezza:

 Sicurezza del posto di lavoro (job security): sicurezza di mantenere un determinato posto di lavoro presso uno specifico datore di lavoro, la quale si attua attraverso un legislazione di protezione dell’occupazione (EPL – Employment protection legislation);

 Sicurezza dell’occupazione (employment security): sicurezza di rimanere occupati necessariamente presso lo stesso datore di lavoro. L’occupabilità viene garantita attraverso una formazione professionale continua e permanente e, in caso di disoccupazione, mediante politiche attive;

111 T. WILTHAGEN, F. TROS, The concept of Flexicurity a new approach to regulating

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 Sicurezza del reddito (income security o social security) : protezione del reddito attraverso ammortizzatori sociali (politiche passive), nel caso in cui il rapporto venga meno;

 Combination security: sicurezza di poter conciliare l’attività lavorativa con altre responsabilità e doveri sociali o privati.

E’ necessario premettere che il modello danese di flexicurity è strettamente correlato al sistema di welfare scandinavo o nordico, esso è, infatti, “il tentativo attualmente in corso di riformare sul tema specifico del mercato del lavoro il sistema di welfare scandinavo presente in Danimarca da oltre un secolo, adattandolo ai sistemi di flessibilità del lavoro e della produzione di nuove forme di organizzazione della produzione delle nuove forme di produzione e di competitività richieste dalla globalizzazione capitalistica”.112

La forte mobilità che caratterizza questo sistema è il risultato di un accordo storico tra capitale e lavoro che è culminato nel Patto Sociale (1899), che ha sancito il diritto degli imprenditori di organizzare e dirigere la produzione ed il lavoro ed ha affidato al movimento operaio la gestione dello stato.

La voce welfare, facente parte del c.d. triangolo dorato, fa riferimento al diritto dei lavoratori alla copertura dei redditi in caso di disoccupazione per la quale è previsto un sussidio di disoccupazione assicurativo, con integrazione statale e, per i lavoratori non assicurati, una copertura pubblica. Dal punto di vista economico, infatti, una maggiore libertà di iniziativa concessa agli imprenditori è in grado di produrre più innovazione, più rischio d’impresa e quindi maggiori risultati economici, con cui la società si può far carico del rischio di disoccupazione dei lavoratori.

Il concetto di flexicurity nasce in Danimarca negli anni Novanta sul filone del neoliberismo per rompere quel sistema di relazioni industriali ritenuto troppo rigido e sbilanciato a favore dei lavoratori e,

112 B. AMOROSO, Luci ed ombre del modello sociale danese, in Diritti Lavori e Mercati,

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conseguentemente, con l’ideologia tipica del modello di welfare scandinavo dell’abbraccio virtuoso tra efficienza e eguaglianza, affermando il principio del bisogno di far dipendere l’eguaglianza dall’efficienza.

Accanto al welfare, si pone un altro strumento indispensabile: le politiche attive del mercato del lavoro, ovvero l’aiuto che il settore pubblico deve offrire ai lavoratori in difficoltà, per un rapido reinserimento nel mondo della produzione. Non sono gli imprenditori a doversi preoccupare della formazione dei propri dipendenti e delle loro condizioni generali di welfare, ma lo stato, con conseguente scarico dei costi sociali dai costi aziendali, al sistema fiscale.

I risultati più positivi derivanti dalle politiche attive del lavoro, sono quelli conseguenti all’attività di formazione realizzata all’interno delle imprese e con un inserimento reale nel processo produttivo, volta a spingere i lavoratori a cercare un’occupazione oppure a rinunciare uscendo dal sistema di disoccupazione per entrare in quello più povero dei sussidi sociali.

A seguito della riforma del 2004, è stato inasprito il sistema delle condizioni poste per l’accesso ai sussidi di disoccupazione, attraverso la riduzione del periodo durante il quale si ha diritto si sussidi previsti, l’irrigidimento delle regole di disposizione e di accesso, l’abolizione del diritto alla riqualificazione per eligibilità ed il rafforzamento dell’obbligo del rientro.

A causa limitato successo di queste iniziative, sono stati introdotti indirizzi politici più restrittivi quali l’accorciamento del diritto d’accesso ai sussidi, l’inasprimento delle sanzioni previste, l’irrigidimento delle regole di disponibilità e di mobilità e il ritorno a forme più centralizzate di gestione di queste misure, volti a trasferire le cause della disoccupazione dal movente della qualificazione a quello della motivazione a lavorare.

I risultati positivi che si pongono alla base del modello danese del mercato del lavoro sono dovuti all’andamento positivo dei principali

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indicatori dell’economia, all’alto livello di occupazione ed ai bassi livelli di disoccupazione. E’ doveroso, però, precisare che i costi sociali di un sistema con quello olandese sono sostenibili anche in relazione al fatto che il contesto politico e culturale danese è caratterizzato da un alto livello di disciplina sociale e di coesione, dovuto all’omogeneità della sua popolazione.

A ciò si aggiunga che, fra gli elementi essenziali del modello danese, non deve essere trascurato il ruolo che in esso hanno assunto, sin dal primo dopoguerra, la contrattazione fra le parti sociali, che si è accompagnato ad un clima di mutua fiducia e responsabilità, spesso con l’intervento delle autorità politiche locali. Tale clima cooperativo appare come un prerequisito essenziale per garantire l’ampio decentramento politico-decisionale che lo caratterizza e per poter istituire efficaci schemi di lifelong learning e di politiche attive, oltre che per realizzare servizi per l’impiego in grado di monitorare con precisione le mutue esigenze dei lavoratori e dei datori.

L’esperienza danese ci deve far riflettere sulla possibile importazione di sistemi basati su generosi ammortizzatori sociali e politiche attive virtuose in quei paesi le cui tradizioni inducono i diversi attori sociali ad un minor rispetto degli accordi precedenti e ad una maggiore propensione ad ingannare l’operatore pubblico e richiedere prestazioni anche qualora se ne abbia il diritto.

Nel valutare gli elementi essenziali alla realizzazione di un modello simile a quello danese, non vanno trascurate, quindi, la struttura produttiva e le interconnessioni tra politiche del lavoro ed industriali relative al ruolo della ricerca e dello sviluppo.

2. La crisi finanziaria e la teoria dei Transistional Labour Markets