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Come è risultato evidente a seguito della lettura del testo, nonostante la distinzione essenziale riscontrata tra creatura celeste e terrena, l’analogia rintracciata tra le due nature costituisce il filo conduttore dell’intera riflessione egidiana, e costituisce il presupposto da cui ogni proposta speculativa muove, e a partire da cui matura ogni argomentazione. Tale netta separazione tra sostanze spirituali e fisiche richiede la capacità, da parte dell’autore, di trarre dall’esperienza dell’universo corporeo principi e suggestioni atte ad essere efficacemente spese in un contesto speculativo del tutto diverso, qual è quello delle sostanze separate. Egidio supera dunque le problematiche legate ad un oggetto di analisi tanto sfuggente e complesso, e non si limita a costruire un sistema di suggerimenti speculativi e mere congetture, ma propone un complesso ordinato di riflessioni, la cui validità regge sull’acquisizione per fede del dato biblico, che annuncia che un lingua angelica non può non esistere418. L’autorità biblica tuttavia non impone di rinunciare definitivamente ad ogni tentativo di organizzare sistematicamente una serie di suggestioni e ipotesi, che Egidio formula facendo appello a tutta le energie speculative di cui è in possesso. Un’analisi sulla

locutio angelica non poteva che muovere, infatti, dalle osservazioni formulate dal

maestro eremitano, che risultano particolarmente complete ed esaustive; tuttavia risulta doveroso osservare gli effetti che le sue considerazioni sortirono nei suoi lettori, affinché risulti chiaro che il testo, seppur di innegabile valore, presentava non pochi motivi di perplessità. Nonostante il De cognitione angelorum sia considerato all’unanimità l’opera più completa di angelologia medievale, le proposte elaborate dal maestro agostiniano rappresentano un’espressione parziale, seppur significativa, dell’ampio sistema di dottrine angelologiche elaborate in epoca medievale. Alcuni degli esiti della speculazione dell’agostiniano risultano inaccettabili, di fatto, per taluni autori successivi, che a loro volta tendono a colmare la distanza tra dimensione fisica e speculazione teologica a partire dagli strumenti tratti dalla propria formazione. Alcuni dei contenuti espressi dal Doctor Fundatissimus confluirono dunque agevolmente in quel complesso di sapere di ordine angelologico tradizionalmente accettato come indubitabile e certo, altri aspetti della riflessione furono ritenuti invece, come nel caso

418 1 Cor. 13, 1.

della scrittura angelica, del tutto inverosimili. L’analisi di posizioni diverse, che tale lavoro vuole proporre, non vuole porsi soltanto come confronto, ma intende fornire piuttosto una ricostruzione critica delle posizioni assunte a proposito del linguaggio angelico, al fine di chiarire quali furono le problematiche che destarono maggiore “sospetto”. Nessuno degli autori su cui andiamo ora a porre la nostra attenzione ha dedicato un’analisi tanto compiuta e sistematica alla tematica del linguaggio spirituale quanto quella del maestro agostiniano: tuttavia, ci sembra che le opere di Durando di San Porciano e Tommaso di Strasburgo rappresentino, ciascuna a suo modo, un adeguato prosieguo della nostra ricerca. Nonostante manchino di riflessioni di ampio respiro, le valutazioni di tema angelologico formulate da tali autori risultano in ogni modo particolarmente significative, sia perché consentono di osservare le sembianze assunte dalla tematica della comunicazione angelica durante i decenni successivi alla produzione egidiana, sia perché concedono di registrare quali siano stati gli aspetti più problematici consegnati dal De cognitione angelorum alla speculazione successiva.

IV

La lingua angelica nella riflessione angelologica di Durando di San Porciano

Le considerazioni formulate a proposito della possibilità, delle modalità e delle funzioni attribuite alla locutio angelica richiedono una serie di indagini complementari, atte a illustrare quali siano i sistemi su cui si strutturano le riflessioni di carattere angelologico successive a quella elaborata da Egidio. L’ordinato svolgimento del discorso offerto nel De cognitione angelorum garantisce al lettore la possibilità di cogliere con precisione ciascuna sfumatura del pensiero angelologico egidiano: perciò, l’intento dell’opera appare del tutto coerente e compiuto in se stesso. I densi nuclei tematici trattati dal Doctor Fundatissimus costituiscono, inoltre, un importante punto di partenza per la speculazione successiva; nonostante ogni aspetto di una riflessione sulla natura angelica fosse stato scandagliato e accuratamente esplorato, il testo non era, come è ovvio, in grado di rispondere ad ogni tipo di obiezione che venisse eventualmente mossa dai lettori. L’opera fu oggetto di numerose interpretazioni, di cui alcune tese ad esaltarne i contenuti e la puntualità espositiva, altre piuttosto inclini a evidenziarne le carenze. In ogni caso, la lettura del De cognitione angelorum finì col costituire il termine di confronto immediato di ogni indagine che avesse per oggetto le sostanze separate e, nello specifico, la locutio angelica. Gli stessi principi basilari sui

quali la riflessione egidiana si fondava e da cui si sviluppava furono posti decisamente in discussione; la possibilità stessa di una riflessione sulla parola angelica divenne oggetto di un’accesa polemica sul tema, nonostante a suo favore fosse stata dedicata, da Egidio, un’accurata riflessione, la cui legittimità risultava peraltro avallata anche dal dettato biblico.

Tra i lettori più attenti dell’opera egidiana un posto di sicuro rilievo spetta ad un pensatore domenicano: Durando di San Porciano. L’indole critica e la verve polemica del filosofo Alverniate offrono infatti un’occasione preziosa per rendersi conto di quali fossero state le reazioni alla lettura del De cognitione; il confronto tra le considerazioni egidiane e le riflessioni svolte da Durando nel suo Commento alle Sentenze419 consente di cogliere quegli elementi dell’angelologia egidiana che suscitavano maggiori perplessità, e di osservare in che maniera essi venissero riletti, interpretati e persino manipolati.

Dal momento che la filosofia del maestro francese si sviluppa a circa mezzo secolo di distanza da quella formulata da Egidio, gli strumenti, gli elementi di confronto, gli stimoli sociali e culturali risultano differenti da quelli che agiscono sulla formazione del filosofo agostiniano. È in primo luogo necessario osservare che un corretto studio dell’opera di Durando richiede una valutazione delle influenze che le vicende biografiche hanno esercitato su di essa: per pochi autori, come per il teologo francese, è possibile rilevare un legame tanto stretto tra produzione filosofica e avvenimenti personali. Come ha opportunamente sottolineato Iribarren420 a proposito della fama che ha accompagnato per secoli Durando, la storiografia del XV e XVI secolo lo ha descritto come un pensatore che, dopo aver accettato il tomismo, se ne allontana gradualmente, fino a giungere a metterne fortemente in discussione alcuni elementi fondanti. Appare poi particolarmente significativo che i cataloghi e i registri del XV secolo attribuiscano a Durando il Correctorium di Guglielmo de la Mare, a testimonianza della reputazione di “anti-tomismo” con cui le sue opere sono state, per lungo tempo, classificate. Nonostante una ricostruzione delle vicende biografiche del

419 DURANDUS DE SANCTO PORCIANO, In Sententias Theologicas Petri Lombardi Commentariorum libri

IV, Venetiis 1587.

420 I. IRIBBARREN, Durandus of Saint Pourçain. A dominican theologian in the Shadow of Aquinas (Oxford theological monographs), Oxford University Press, 2005, p.1.

Doctor modernus (così come venne significativamente ribattezzato dai contemporanei)

risulti particolarmente utile per la comprensione della produzione filosofica dell’autore, essa non si rivela particolarmente agevole, a causa della scarsità di informazioni precedenti al 1307421. Si conoscono, tuttavia, con un certo margine di sicurezza i dati della nascita, da collocare tra il 1270 e il 1275, in Alvernia; si sa, inoltre, che nel 1303 era nel convento di Saint-Jaques a Parigi. Tra il 1307-8 cominciò a circolare la sua prima redazione del Commento alle Sentenze, che non fu tuttavia ben accolta dalle autorità domenicane; risultava evidente, nei confronti del tomismo, una malcelata indole critica, dimostrata dal disinteresse nei confronti della legislazione capitolare di Saragozza, che aveva indicato nelle dottrine di Tommaso le linee guida della formazione domenicana. La diffusione al pubblico dell’opera aveva inoltre palesemente violato l’osservanza della pratica imposta fin dal 1250, che prevedeva che ogni opera godesse dell’approvazione preliminare delle autorità dell’Ordine. Alla prima stesura, che venne prontamente sottratta dalla circolazione, seguì un’ulteriore redazione, che - secondo Iribarren422 - con ogni probabilità corrisponde alla prima lettura delle Sentenze all’università di Parigi, che risalirebbe agli anni tra il 1310 e il 1312. Il ritiro della prima versione e la successiva rielaborazione dei contenuti hanno inevitabilmente contribuito ad avvalorare la tesi del carattere contraddittorio della riflessione dell’Alverniate. Nel 1312 Durando ottenne la licentia docendi, che avrebbe avuto inizio, come da convenzione, a partire dai due anni di insegnamento come maestro di teologia: l’incarico durò, tuttavia, meno di un anno, tempo che gli fu comunque sufficiente per la produzione di due dispute quodlibetali. Un compito più prestigioso attendeva Durando, a cui si prospettava un’opportunità irrinunciabile: la nomina, nel 1313, di lettore e cappellano alla curia papale di Avignone. La ratifica della nomina da parte del successore, papa Giovanni XII, consentì a Durando di prolungare il suo soggiorno avignonese fino all’Agosto 1317.

421 Cfr P. FOURNIER, Durand de Saint- Purçain, théologien, «Histoire littéraire de la France», XXXVVII,

Paris 1938; J. KOCH, Durandus de S. Porciano O.P., Forschungen zum Streit um Thomas von Aquin zu Beginn

des 14. Jahrhunderts, «Beiträge zur Geschichte der Philosophie der Mittelalters», 26 (Münster, Aschendorff,

1927).

Mentre il capitolo generale dell’ordine domenicano, nel 1313 a Metz, promuoveva le tesi dell’Aquinate come “opinione comune”, una commissione ordinata da Berengario di Landorra - maestro generale dell’Ordine - estrapolava, dalle due stesure dei Commenti di Durando, novantatré tesi ritenute sospette, che furono ufficialmente censurate il 3 luglio del 1314423. Le alterne vicende di Durando, i cui rapporti con l’Ordine si facevano sempre più conflittuali, non compromisero in alcun modo l’appoggio del papato, il cui favore gli fu dimostrato in molteplici occasioni: numerose volte fu inviato come delegato a trattare affari che richiedevano notevoli capacità diplomatiche. Il tempo prolungato del soggiorno alla corte papale dimostra pienamente come la competenza teologica di Durando gli avesse procurato grande stima da parte del Pontefice, dal quale fu spesso consultato su casi particolarmente difficili424. Tra il 1318 e il 1325 Durando si occupò della redazione finale del suo

Commento alle Sentenze, la cui stesura definitiva fu presentata solo nel 1327. Durando

moriva il 10 settembre 1334; nel frattempo l’ostilità papale attirata dal trattato De

visione Dei quam habent animae sanctorum ante iudicium generale - che Durando stese a

proposito della visio beatifica – era sfociata in un’inchiesta i cui esiti furono definiti solo nel 1336: una bolla papale liquidava definitivamente la questione, e la causa di Durando fu citata come quella di un antiquus famosus magister in theologia.

Dalla sintetica ma necessaria ricostruzione delle vicende biografiche è emersa con chiarezza la posizione particolare assunta da Durando in relazione alle autorità ufficiali; l’appoggio papale lo preservò infatti da aperti conflitti con l’Ordine, che perciò non si spinse mai oltre il rimprovero di carattere formale. I secoli omaggiarono

423 Ibidem, pag. 5: la prima versione viene indicata come scriptum antiquum o quaternus originalis, e la

seconda come scriptum novum o, talvolta, come prima lectura. Sfortunatamente non ci resta traccia del testo, conosciuto come Excusationes, alla cui stesura Durando si dedicò a seguito della consegna della lista di proposizioni censurate, affinché potesse apportare le dovute rettifiche. Il testo fu sottoposto alla disamina di Erveo Natale, provinciale di Francia, che liquidò definitivamente la questione con il trattato conosciuto come Reprobationes excusationum Durandi in cui ribadiva la validità dei provvedimenti imposti dall’Ordine. Ulteriori misure furono adottate nel 1317, anno in cui una seconda commissione venne nominata per gestire un’inchiesta, al termine della quale vennero consegnati 235 articoli definiti anti-tomisti. Ancora una volta Durando si sottrasse alla giurisdizione dell’Ordine grazie ad una nomina ufficiale, che lo destinava alla diocesi di Limoux.

424 Ibidem, pag. 7: di questi consulti esistono tre testimonianze scritte: la prima, nel 1318, nel caso dei

“fraticelli” che furono liquidati come eretici. La seconda risale al 1322, durante la disputa sulla povertà con i Francescani; infine nel 1326, quando fu chiamato a prendere parte ad una commissione di teologi costituita per indagare sull’ortodossia del Commento alle Sentenze di Ockham.

Durando riconoscendogli quelle vivaci capacità speculative innovative che l’Ordine domenicano, più volte, disapprovò: l’Università di Salamanca stabilì, nel Cinquecento, una cattedra atta allo studio e all’insegnamento della dottrina di Durando.

Nonostante la serenità scaturita dall’appoggio papale avesse garantito a Durando la possibilità di sottrarsi, per certi versi, alla giurisdizione dell’Ordine, l’ingerenza dell’autorità nella sua produzioni risulta evidente. D’altro canto la consapevolezza di poter godere di amicizie tanto influenti concesse a Durando l’opportunità di misurarsi anche con tradizioni diverse da quella domenicana, nonostante la legislazione capitolare di Saragozza avesse formalmente imposto la lettura di Tommaso come linea dottrinaria esclusiva della scuola domenicana. La libertà intellettuale e di riflessione di cui poté godere Durando condusse ad esiti i cui effetti sono, per il lettore, immediatamente evidenti: il Doctor Modernus ebbe una conoscenza notevole degli scritti più significativi dell’intera cultura dei suoi tempi. In particolare, come è possibile osservare dedicandosi alla lettura del Commento, il filosofo francese conosce in maniera tanto approfondita gli esiti della riflessione angelologica precedente - soprattutto egidiana - da metterne in discussione molteplici aspetti e contestarne, in alcuni casi, gli esiti. Le letture di natura eterogenea con cui Durando ebbe modo di misurarsi gli offrirono l’opportunità di attingere a tradizioni culturali molto diverse; tale varietà di interessi si esprime anche nell’ambito della riflessione angelologica, che acquista, nel sistema filosofico durandiano, caratterististiche ben precise.

Risulta necessario, in primo luogo, osservare che sebbene le considerazioni maturate da Durando a proposito del linguaggio angelico risultino ben articolate e argomentate, esse appaiono comunque piuttosto brevi, se confrontate con l’opera egidiana; tuttavia, le pungenti obiezioni sollevate e la verve critica che pervadono le pagine durandiane rendono senz’altro meritevole la lettura di queste ultime. Durando non intende infatti isolare l’analisi della parola angelica, ma intende disegnare, dell’angelologia, nuovi tratti, individuarne nuove problematiche, porre - e prontamente risolvere - ulteriori interrogativi. Ancora una volta l’osservazione delle riflessioni formulate in riferimento all’angelologia si rivelerà una via d’accesso

privilegiata alla comprensione dell’autore, che chiamato a colmare l’assenza dell’oggetto ineffabile della propria ricerca, dovrà fare appello a tutti gli strumenti in suo possesso per congetturare, ipotizzare, supporre, proporre. “Pauca novimus de

angelis”425: così parla Durando apprestandosi a discutere di sostanze celesti. La lucida ammissione del carattere del tutto ipotetico della riflessione non sembra nuocere in alcun modo, tuttavia, al valore filosofico ad essa attribuibile.

§1. Un’indagine introduttiva sulla natura delle sostanze angeliche: la simplicitas angelorum

La riflessione maturata da Durando si sofferma, in via preliminare, a osservare quali siano le caratteristiche della sostanza celeste: ad una prima analisi dell’ontologia angelica è dedicata la prima quaestio della Distinctio III, nel secondo Libro del

Commento alle sentenze. L’indagine si svolge ab origine, a partire dall’interrogativo

inerente alla possibilità stessa che possa darsi, nella sostanza angelica, una qualche composizione di materia e forma426. Non è sufficiente supporre la simplicitas angelica, che implica l’eliminazione di ogni coinvolgimento materiale, ma risulta necessario, piuttosto, argomentarne le ragioni, e soffermarsi sulle implicazioni che tale assunzione comporta.

Seguiremo qui il medesimo ordine prospettato da Durando per l’organizzazione strutturale della Distinctio III, interamente dedicata alle problematiche legate alla natura angelica. L’esigenza primaria appare strettamente legata all’argomentazione della definizione di simplicitas angelorum, che conduce ad un netto e deciso rifiuto di ogni materia angelica. In secondo luogo si procederà con la ricerca di un eventuale

principium individuationis atto a distinguere le individualità angeliche; in terzo luogo si

425 In Sententias Theologicas Petri Lombardi Commentariorum libri IV f. 311 rb. 426 Ibidem, f. 304 rb: «Utrum angeli sint compositi ex materia et forma».

indagherà sul loro numero, e solo al termine di tale indagine potrà risultare agevole affrontare le problematiche legate alla gnoseologia angelica:

Circa distinctionem istam queruntur quattuor: primum est de angelorum simplicitate; secundum est de eorum personalitate seu individuatione; tertium

est de eorum multitudine; quartum est de eorum cognitione427.

Ogni sostanza deve essere intesa, in linea del tutto generale, come esito di una interazione specifica tra la materia, la forma e il composto che ne deriva428: tale proprietà non è tuttavia riscontrabile nella natura angelica, la quale non subisce le limitazioni della materia che, in quanto pura potenzialità, ne comprometterebbe la nobiltà ontologica e le eccezionali capacità conoscitive. Tuttavia, risulta altrettanto illegittimo sostenere che la natura angelica si riduca solo alla forma, poiché è necessario ammettere che la sostanza angelica risulta, come ogni altra, composta da forma ed essenza429. La lettura del Liber de mirabilibus Sacrae Scripturae (per secoli attribuito ad Agostino)430 favorisce, come puntualmente fa notare il filosofo, l’insorgere di molteplici spunti di riflessione, adatti ad avvalorare la tesi che esista, nelle creature celesti, una componente materiale non dissimile a quella che interviene nella formazione delle sostanze composte. L’onnipotenza divina avrebbe infatti agito

traendo l’essere dalla materia informe; è dunque plausibile ritenere che ci sia traccia

materiale in ogni creatura, anche quella spirituale:

Augustinus dicit in Libro de mirabilibus sacre scripture quod Deus omnipotens, ex informi materia, quam prius de nihilo condidit, cunctarum rerum sensibilium et insensibilium intellectu carentium species multiformes divisit,

ergo materia est in cunctis creaturis, quare et in angelis431.

427 Ibidem.

428 Ibidem: « Quantum ad primum quaeritur, utrum angeli sint compositi ex materia et forma. Et

arguitur quod sic, quia substantia dividitur in materiam et formam, et compositum».

429 Ibidem.

430 Per secoli attribuito ad Agostino, il testo risulta, ancora oggi, oggetto si studio e motivo di

perplessità. Come è stato osservato, già Tommaso d’Aquino (S. T. q. 45, a. 3, ad. 2) esclude che l’Ipponatte possa realmente essere l’autore dell’opera (T. RUSSINI, Tommaso lettore dello Pseudo Dionigi, in «Medioevo umanistico e umanesimo medievale», testi della X settimana residenziale di studi medievali, Palermo- Carini 22-26 ottobre 1990, Scrinium, quaderni ed estratti di Schede medievali, 16 , estratti da Schede medievali, n. 24-25, gennaio-dicembre 1993). Attualmente, l’ipotesi più accreditata è che l’opera sia da attribuire ad un monaco irlandese del VII secolo, forse Agostino d’Ibernia.

A favore dell’assoluta separatezza della sostanza angelica vengono addotte, in primo luogo, le motivazioni fornite nel Libro IV del De divinis nominibus432 in cui si legge che il fondamento delle sostanze spirituali è necessariamente immateriale, per cui occorre considerare la natura angelica come essenzialmente incorporea:

In contrarium est quod dicit Dionysius in quarto Libro De divinis nominibus: quod angeli sunt omnino immateriales et incorporales. […] quia natura incorporeae substantiae nulli innititur materiae fundamento. Constat autem

quod angelus est naturae incorporae433.

L’indagine sulla semplicità sostanziale delle nature angeliche consta di due fasi: in primo luogo è necessario interrogarsi sull’eventualità che possa esistere una composizione che possa risultare adeguata anche le sostanze separate. In secondo luogo occorre soffermarsi a riflettere sulla eventualità che si addica anche agli angeli un ordinamento secondo genere e differenza; il riconoscimento di una simile ripartizione richiederebbe, inoltre, l’analisi dei criteri assunti in tale operazione classificatoria:

Circa quaestionem videnda sunt duo: primum est utrum angelus sit compositus ex materia et forma; secundum est utrum sit compositus ex genere et differentia434.

Le argomentazioni elaborate per confortare l’ipotesi della semplicità angelica si riducono essenzialmente a due: la prima, sulla quale Durando si sofferma a lungo, trae spunto dalla constatazione delle caratteristiche delle operazioni proprie dell’angelo (ex

conditione operationis). L’atto di intellezione è l’azione essenziale della creatura angelica;

giacché alla materia non si addice in alcun modo conoscere per se, a causa della potenzialità e dell’imperfezione che la caratterizza, è necessario escludere che ogni coinvolgimento materiale sia riscontrabile nella sostanza celeste:

432 Solo le creature spirituali possono godere di una vita senza fine e senza distruzione, immune alle

alterazioni a cui sono soggette e destinate tutte le creature materiali (DIONIGI AREOPAGITA, Sui nomi

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