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Ict, Innovazione e Conoscenza Condivisa – Una Opzione di Si- Si-stema per il Mezzogiorno

Sono trascorsi più di 130 anni dall’unificazione politica dell’Italia, ed oltre mezzo secolo dalla definizione, negli anni Cinquanta, di una politi-ca meridionalista che aveva, per la prima volta, politi-caratteristiche di specia-lità, straordinarietà ed addizionalità. Il Mezzogiorno d’Italia, tuttavia, rappresenta ancora oggi una grande regione che presenta un divario ri-spetto ad altre aree del Paese: l’Italia centrale e la pianura padana. Un divario di reddito, ma anche di struttura.

Nell’economia meridionale ritroviamo numerosi “squilibri”, primo fra tutti quello tra dimensione dell’apparato produttivo e disponibilità di forze di lavoro, dal quale deriva la cronica persistenza nell’area di una disoccupazione di carattere strutturale, che si manifesta con un tasso per-centuale sulle forze di lavoro pari a tre volte quello rilevabile nelle regio-ni settentrionali della Peregio-nisola.

A dispetto dei progressi fatti registrare sia in termini di rafforzamento della struttura economica sia di miglioramento delle condizioni sociali – progressi che nei primi decenni dell’intervento pubblico del dopo-guerra furono effettivamente “straordinari” – il Meridione, negli ultimi trenta anni, ha conseguito risultati non eclatanti nel recupero del divario rispet-to alle aree forti del Paese.

Se si prendono in esame i tassi annuali di crescita del Pil, dagli anni Settanta ad oggi, si nota una marcata correlazione di lungo periodo tra i valori relativi al Mezzogiorno, quelli relativi all’Italia e quelli relativi all’Europa (Cfr. Grafico 65). Ne è conseguita la persistenza dei divari territoriali interni, ma anche un incremento nei livelli assoluti di benes-sere non trascurabile, sebbene concentrato in una porzione del Paese,

Grafico 65: Tassi di crescita del Pil: Italia, Mezzogiorno ed EU-15 Fonte: Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione, Ministero dell’Economia, Ministero del Lavoro(2005), Documento Strategico Mezzogiorno

2005 - Linee per un nuovo programma Mezzogiorno 2007-2013

soprattutto in considerazione del fatto che il Centro-Nord d’Italia è dive-nuto, dal Dopoguerra, una delle aree più prospere d’Europa.

Nel primo decennio degli anni Settanta, osserviamo volatilità ed una sostenuta media del tasso di crescita, nei due decenni successivi scende la media e diminuisce la sua volatilità. Se osserviamo solo gli ultimi anni (Cfr. Grafico 66), utilizzando le statistiche economiche regionali elabo-rate dall’Istat, notiamo che, nel periodo 1997-2003, il tasso annuo di cre-scita del Pil nel Mezzogiorno sia stato, in media, pari a circa l’1,7% con-tro l’1,5% dell’Italia, l’1,1% dell’area Nord-Occidentale e l’1,38% di quella Nord-Orientale.

Il Meridione, in sostanza, è andato meglio del Centro-Nord di circa mezzo punto percentuale l’anno, sebbene dal grafico sia possibile rileva-re anche come l’economia del Nord-Est d’Italia, caratterizzata da un an-damento più variabile, sia stata capace di allungare il passo in modo de-ciso in alcuni periodi: tra il 1993 ed il 1996 e nel biennio 1999-2000.

Il 2004 ha però visto l’economia meridionale invertire la tendenza e registrare un tasso di crescita inferiore a quello del Centro-Nord. È que-sto un fenomeno che ricorre nelle fasi di ripresa ciclica del commercio mondiale. Il minore impatto che, nell’economia meridionale, ha l’anda-mento della domanda internazionale di beni e servizi determina, infatti, un allargamento del divario di crescita tra le due ripartizioni geografiche.

Grafico 66: Pil (Var %; milioni di euro a prezzi 1995; 1980-2004) Fonte: Ns. elaborazioni su dati Istat - Statistiche economiche regionali - anno 2005

Il fenomeno dell’inversione di tendenza lascia spazio ad una conside-razione interessante, vale a dire che la crescita meridionale degli ultimi anni non sia stata ancora innervata da fattori strutturali e, proprio per questo, abbia mantenuto un profilo contenuto, non ancora pienamente autopropulsivo, incapace di attivare il potenziale di sviluppo latente nel-l’area.

Un’analisi ulteriore relativa alla dinamica del reddito pro-capite negli ultimi 10 anni (Cfr. Grafico 67 e Grafico 68) si può realizzare sulla base delle statistiche economiche provinciali elaborate da Unioncamere.

Da questa analisi emerge un quadro molto eterogeneo delle province del Sud, un Mezzogiorno “a macchia di leopardo” nel quale la crescita è anche il risultato di processi migratori interni di significativa intensità (Cfr. Tabella 29).

Grafico 67: Valore aggiunto ai prezzi base per abitante (numeri indice; 1995 = 1)

Fonte: Unioncamere (2005)

Tabella 29: Flussi e saldi migratori del Mezzogiorno con il Centro-Nord nel 1998 e 2002

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT

Grafico 68: Valore aggiunto ai prezzi base per abitante (valori correnti in euro) Fonte: Unioncamere (2005)

Il Grafico 67, attraverso numeri indici, confronta l’incremento del valore aggiunto per abitante del Mezzogiorno con quello di 5 province italiane: due del Sud e tre del Nord. La serie storica rileva che alcune province meridionali – nel caso specifico, ed a titolo esemplificativo, Napoli e Catanzaro – hanno fatto meglio del Mezzogiorno in termini di

incremento del reddito pro-capite; mentre le tre province del Nord prese in considerazione – Milano, Pordenone e Reggio Emilia – hanno fatto registrare incrementi di questo indicatore sensibilmente inferiori al dato medio del Sud Italia.

Ciò nonostante, il divario, in termini assoluti nei livelli del valore aggiunto per abitante tra le province prese in considerazione – a valori correnti – non sembra essersi ridotto in maniera altrettanto visibile (Cfr.

Grafico 68).

In relazione all’indicatore considerato, infatti, zone forti e zone debo-li del Paese partono da disparità consistenti e quando due aree crescono con curve di sviluppo determinate da saggi “simili” nell’ordine di gran-dezza, ma registrano situazioni di partenza assai diverse, l’aritmetica ci suggerisce che il riassorbimento del divario è attuabile solo nel lunghis-simo periodo.

L’ampiezza iniziale del divario esistente ci dice che il Mezzogiorno non può più permettersi di “fare la corsa” con il Centro-Nord del Paese.

Esiste una chiara analogia tra la rincorsa in atto tra Mezzogiorno e Aree forti del Paese ed uno tra i più famosi paradossi di Zenone di Elea, quello di Achille e la tartaruga. Nel paradosso si afferma che se Achille (detto “piè veloce”) venisse sfidato da una tartaruga nella corsa, e conce-desse alla tartaruga un certo vantaggio, egli non riuscirebbe mai a rag-giungerla, dato che Achille dovrebbe prima raggiungere la posizione oc-cupata precedentemente dalla tartaruga che, nel frattempo, si sarà spo-stata di un intervallo di spazio; così la distanza tra Achille e la lenta tarta-ruga non arriverà mai ad essere pari a zero107.

107 Il paradosso può essere matematicamente confutato. In pratica, posto che la velocità di Achille (Va) sia N volte quella della tartaruga (Vt) le cose avvengono così:

dopo un certo tempo t1 Achille arriva dove era la tartaruga alla partenza (L1). Nel frattempo la tartaruga ha compiuto un pezzo di strada e si trova nel punto L2. Occorre un ulteriore tempo t2 per giungere in L2. Ma nel frattempo la tartaruga è giunta nel punto L3 ... e così via. Quindi per raggiungere la tartaruga Achille impiega un tempo T= t1+t2+t3+…+tn… e quindi Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Nel parados-so, Zenone assume implicitamente che, data una serie infinita, debba essere infinita anche la sua somma. In realtà, nel caso specifico di Achille e della tartaruga la serie converge a T=L1/(Va-Vt). È necessario tuttavia tener conto del fatto che una prima dimostrazione di convergenza delle serie infinite non geometriche è stata data, tra laltro per un solo caso particolare, nel XVI secolo da Richard Suiseth. Il caso genera-le venne dimostrato nel XVII secolo, mentre Zenone espose i suoi paradossi nel V secolo A.C.. La confutazione del paradosso, tuttavia, permette di evidenziare come il

tempo che Achille impiega per raggiungere la tartaruga sia direttamente proporzio-nale alla distanza che separa il primo dalla seconda alla partenza (L1) ed inversamen-te proporzionale allo scarto esisinversamen-teninversamen-te tra le velocità dei due parinversamen-tecipanti alla “gara”.

L’analogia con il nostro caso è evidente: per quanto il Mezzogiorno possa essere “pié veloce” ed il Centro-Nord “tartaruga”, il vantaggio ac-cumulato dal Nord è tale che il Mezzogiorno – come nel paradosso – non sarà mai in grado di colmare il divario esistente.

Risultato: le distanze fra il Centro-Nord e il Sud del Paese rimango-no, nel complesso, inalterate cosicché il Mezzogiorno è, ancora oggi, nelle ultime posizioni della corsa verso lo sviluppo. La differenza – di non poco conto – è che oggi, diversamente dagli anni passati, il resto d’Italia, compreso il Nord-Est è anch’esso rimasto indietro rispetto alle aree forti del Vecchio Continente.

Ma, sul piano congiunturale, anche l’Italia, nel suo complesso, non è in buone acque. La diagnosi della patologia che affligge il nostro sistema economico risulta confermata dai dati appena diffusi dall’Istat sull’anda-mento dell’economia nel 2005. Non solo il nostro Paese è rimasto al palo, un fatto, quest’ultimo, ampiamente previsto dalla maggioranza de-gli osservatori e dalle più importanti istituzioni internazionali, ma ha perso ulteriore terreno rispetto all’Europa.

L’Italia si attarda perché non riesce ad usare l’occasione offerta dalle nuove tecnologie: che non rappresentano un settore innovativo, ma un salto di scala nella funzione aggregata di produzione. Le ICT, infatti, offrono a tutti i settori una opportunità di innovazione; esse determinano un incremento nella produttività totale dei fattori, generando un vero e proprio gradino nella capacità dell’intero sistema economico di espan-dersi.

Il Sud dell’Italia, che certo contiene anche poche isole di eccellenza, nel suo complesso presenta ancora un apparato produttivo distante dai livelli di efficienza necessari per competere nel mercato mondiale, ma anche l’Italia subisce il medesimo destino se non si avvia una rapida ed intensa trasformazione della sua struttura industriale.

Per comprendere questo punto, l’esistenza del divario e la fragilità anche del Paese nel suo complesso, è utile fare riferimento ai dati ripor-tati dalla Svimez nel suo rapporto annuale e condurre una analisi compa-rata su alcuni indicatori macroeconomici regionali.

Il Grafico 69 è costruito sui dati della Tabella 31 (convertiti in numeri indice) e riporta l’andamento di tre variabili relative al Mezzogiorno –

prodotto per abitante, prodotto per unità di lavoro e unità di lavoro per abitante – interpolate con le rispettive linee di tendenza.

Nel complesso i dati aggregati individuano tre dinamiche: due positi-ve ed una (liepositi-vemente) negativa.

Il prodotto per unità di lavoro cresce, recuperando terreno nei con-fronti del Centro-Nord. La maggiore crescita del Pil del Mezzogiorno che caratterizza gli anni più recenti deriva, infatti, da una maggiore cre-scita della produttività del lavoro rispetto alle regioni settentrionali del nostro Paese.

Sorprende l’andamento della seconda dinamica – il prodotto per abi-tante – anch’essa positiva, ciò nondimeno “adagiata” lungo un trend di crescita con una pendenza pari alla metà di quella del prodotto per unità di lavoro.

In questo caso dall’analisi comparata dei dati macroeconomici è pos-sibile evidenziare come nel 2004 il Pil per abitante del Mezzogiorno ammontasse a 15.950 euro, valore pari al 59,6% di quello rilevabile nel Centro-Nord (26.750 euro).

Il divario di prodotto per abitante, pertanto, è superiore ai quaranta punti percentuali, un valore cui corrisponde, in termini monetari, una differenza di oltre 10.000 euro.

Grafico 69: Prodotto per abitante, prodotto per unità di lavoro e unità di lavoro per abitante (Numeri indice su valori Centro-Nord = 100)

Fonte: Ns. elaborazioni su dati Svimez (2005)

Complessivamente, nel periodo 1995-2004, il gap si è dunque ridotto (solo) del 4% (Cfr. Tabella 31).

A questo risultato ha contribuito, oltre ad una crescita media annua del prodotto nel Mezzogiorno lievemente superiore a quella del Centro-Nord, una dinamica demografica più contenuta: nel periodo 1994-2004, infatti, la popolazione è rimasta sostanzialmente stazionaria al Sud (+0,8%

circa), a fronte di una crescita di 2,5 punti percentuali nel Centro-Nord (Cfr. Tabella 30).

Tabella 30: Struttura per età della popolazione e principali indicatori.

Anni 1994 e 2004

Fonte: Elaborazioni Svimez su dati Istat (2005)

Per ricomporre l’apparente antinomia determinata da un prodotto per unità di lavoro (inteso come indice di efficienza), che recupera nei con-fronti del Nord ad una velocità doppia rispetto al prodotto per abitante (inteso come indice di benessere) è sufficiente prendere in considerazio-ne la terza dinamica, quella delle unità di lavoro per abitante, in aumento nell’ultimo quinquennio.

L’andamento di questo indicatore suggerisce che negli ultimi anni l’incremento di produttività generato dai lavoratori meridionali non si sia tradotto in un deciso recupero di benessere per gli abitanti poiché, nel Meridione, le unità di lavoro per abitante hanno perso terreno rispetto al Settentrione e ciò ha finito per erodere il guadagno di produttività.

Le cattive notizie congiunturali suggeriscono, infine, singolari svi-luppi del dibattito su morfologia e dimensione delle imprese industriali meridionali.

Tabella 31: Prodotto per abitante del Mezzogiorno e sue componenti (indici: Centro-Nord = 100,0)

Fonte: Svimez (2005)

È diffusa, ad esempio, la tesi che la prevalenza nel Sud di imprese di ridotte dimensioni costituisca un nodo strutturale capace di condizionare in misura crescente la performance dell’economia in quel territorio. Ne-gli ultimi anni, effettivamente, le imprese italiane, e dunque non solo quelle meridionali, si sono progressivamente concentrate in una dimen-sione contenuta; hanno adottato moduli organizzativi caratterizzati da una elevata flessibilità e da un crescente volume di relazioni reciproche, nell’ambito di una forte contiguità territoriale o settoriale; sono diventa-te tanto indiventa-tegradiventa-te con le famiglie, che le governano, da confondere la capacità patrimoniale della famiglia stessa con la base di mezzi propri disponibile per l’impresa.

Queste scelte sono state determinate da un ambiente esterno in cui era dominante la rigidità dei rapporti contrattuali sul mercato del lavoro.

Inoltre, l’opzione di mantenere contenuta la dimensione dell’azienda rap-presentava la possibilità di tenere opaco il regime delle rendicontazioni interne e di convivere con un sistema marginale di scambi tra economia ed economia sommersa.

Entrambe queste conseguenze, paradossalmente, risultano coerenti con un mercato finanziario in cui le banche sono l’unica fonte di capitali ed il debito lo strumento utilizzato con larga prevalenza.

I tratti dominanti di questo sistema di impresa, in sostanza, sono: l’as-soluta prevalenza dei costi variabili sui costi fissi; la sistematica prefe-renza per la relazione ricorrente di scambio sulla creazione di gerarchie produttive di larga scala.

“È opportuno tuttavia sfatare due miti. In primo luogo, la diffusione delle imprese familiari non è un fenomeno esclusivamente italiano. In secondo luogo, non vi è evidenza che le imprese familiari stentino a cre-scere. Le evidenze empiriche ed i dati sono chiari in proposito. Sfatare alcuni miti non implica però negare il problema”108. Le carenze struttu-rali del sistema industriale meridionale sono ben documentate e hanno indubbiamente condizionato la dinamica della crescita del Mezzogiorno.

Circa la soluzione di questo problema, la lezione che ci arriva dall’eco-nomia è che non esiste una soluzione organizzativa che risulti ottima in ogni circostanza: vi sono epoche in cui a sopravvivere sono le piccole e medie imprese, i batteri, ed epoche dove sopravvivono gli elefanti, le grandi imprese.

Un ambiente volatile ed incerto premia i batteri, una radicale trasfor-mazione uccide gli elefanti, ma un ambiente coerente con la loro mole favorisce il loro dominio sui batteri.

Ci si potrebbe a questo punto interrogare sulle ragioni per cui un modello – quello della piccola impresa – che ha consentito alla nostra economia di crescere rapidamente fino perlomeno alla fine degli anni Ottanta, oggi perda sempre più colpi. La risposta si deve cercare nei mutamenti strutturali che hanno caratterizzato l’ultimo scorcio del Ven-tesimo secolo: l’integrazione dei Paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale e la rivoluzione tecnologica nel campo dell’informatica e delle comunicazioni.

La globalizzazione rende più larghi i mercati e premia, in parte, la capacità di avere costi fissi intelligenti: controllo della produzione, inno-vazione, ricerca, dominio delle tecnologie. Una volta raggiunto e supera-to il break even point, a questi costi si associano tuttavia profitti superiori a quelli alimentati dai margini sui costi variabili che si ricavano dai bassi volumi di produzione.

Globalizzazione e rivoluzione tecnologica, in sostanza, hanno eroso la posizione competitiva delle imprese di più ridotta dimensione, troppo piccole per sfruttare pienamente le opportunità del processo di

108 FAINI R., (2005), Piccole imprese non crescono, La Voce, 19 settembre.

globalizzazione e troppo carenti dal punto di vista delle risorse umane per trarre beneficio dalle nuove tecnologie.

Nel Meridione anche le “colonie di batteri” – i distretti – non sembra-no possedere né la scala né la tenuta organizzativa per sfidare la frontiera della tecnologia ed il clima di maggiore competizione “in alto ed in bas-so” nel mercato globale, la nuova arena competitiva in cui si fa più agguerrita sia l’offerta di beni di consumo durevole, di fascia bassa, sia l’offerta di tecnologie nuove, di fascia molto alta.

Numerosi studi mostrano che i problemi del sistema economico me-ridionale possiedono inoltre una componente settoriale. Tale componen-te è, in larga misura, ascrivibile ad un siscomponen-tema produttivo “datato” che fa ancora eccessivamente leva sul settore industriale e su industrie a bassa intensità tecnologica. Si è inoltre già avuto modo di evidenziare come il crollo della produttività non interessi solo il settore manifatturiero, ma anche quello dei servizi e della grande distribuzione ed assume perciò caratteristiche “strutturali” e come a ciò si aggiunga un elemento deter-minante, vale a dire il ritardo nel colmare il gap con i Paesi che domina-no la scena mondiale nella produzione e accumulazione di capitale ICT nonché l’incapacità di profittare a pieno dei guadagni di produttività le-gati all’introduzione dell’ICT (Cfr. Grafico 70), come pure limiti nella qualità, più che nella quantità, del fattore lavoro utilizzato.

Ribadiamo che la situazione di persistente debolezza delle aree meri-dionali, in termini di consapevolezza e di “domanda” rivolta ai prodotti dell’innovazione e della formazione, si legge da alcuni evidenti fatti sti-lizzati:

• nel Sud gli investimenti in ricerca e sviluppo rappresentano ancora una percentuale strutturalmente e drammaticamente “modesta” del totale nazionale che, peraltro, si accentua notevolmente consideran-do unicamente il versante delle imprese;

• per di più, se rapportata al Pil, la propensione alla “ricerca” del Mez-zogiorno risulta ancor più gravemente (e notevolmente) inadeguata;

• la scarsità di risorse – umane e finanziarie – specificamente destinate alla R&S ed alla formazione determina un rallentamento dei compor-tamenti innovativi nel sistema economico e, di conseguenza, com-porta il perdurare dei ritardi e delle debolezze nel processo di svilup-po;

• una parte consistente dell’apparato produttivo e industriale del Mez-zogiorno ancora soffre di una ridotta “formalizzazione” di funzioni

terziarie espressamente “dedicate” all’innovazione di processo o di prodotto;

• la diffusione di canali “commerciali”, piuttosto che “tecnologici”, per entrare in contatto ed introdurre trasformazioni e innovazioni all’in-terno dell’azienda, finisce per limitare il contenuto innovativo incor-porato nei processi e nei prodotti e, quindi, per ostacolare la crescita endogena dell’attrezzatura produttiva, delle competenze e dei saperi.

Grafico 70: Legame tra variazione della produttività (MFP -multi-factor productivity) e variazione degli investimenti in ICT (in % della gross fixed

capital formation -GFCF)

Fonte: European Information Technology Observatory (2004), Rapporto 2004

Figura 12: Incidenza della R&D (in % del Pil )

In sintesi il sistema economico meridionale non funziona perché non utilizza lo sviluppo delle conoscenze applicato ai problemi di gestione e controllo della produzione e perché non dispone di un’adeguata tenuta organizzativa.

Le imprese del Sud non hanno né scheletro (l’organizzazione), né cervello (la ricerca e l’innovazione tecnologica) come funzioni autono-me e strutturate. Agiscono e pensano, anche veloceautono-mente, coautono-me i batteri, ma non hanno la forza di affrontare la dimensione del mercato globale

Figura 13: Personale destinato alla R&D in % della forza lavoro totale

che richiede specializzazione degli organi e delle funzioni di ogni attore e, nel medesimo tempo, capacità di coordinamento tra quelle funzioni.

Questo è un handicap fatale nell’epoca delle ICT: la tecnologia del-l’informazione e della comunicazione che cambia le regole della compe-tizione sui mercati mondiali. È in questa nuova era, infatti, che gli “ele-fanti” post fordisti – cioè le nuove grandi imprese, estranee al vecchio mondo del carbone e dell’acciaio – ritrovano flessibilità interna ed innal-zano la propria capacità di competere.

Ciò avviene grazie a tre leve competitive:

• l’innovazione tecnologica (ricerca e sviluppo e dunque brevetti);

• l’innovazione tecnologica (ricerca e sviluppo e dunque brevetti);

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