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Figura 11: Il ciclo Conoscenza-Informazione

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Academic year: 2022

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differenti Paesi industrializzati, dove la conoscenza è divenuta un fattore importante tanto se non di più della terra, dei mezzi e del lavoro.

Le economie tecnologicamente più avanzate si caratterizzano come knowledge-intensive: una sempre maggior frazione del Pil deriva infatti da beni con poca o nulla manifestazione fisica, beni che si caratterizzano per la loro natura information-intensive.

La forza delle information technologies risiede proprio nella capacità che esse possiedono di “svincolare” l’informazione dal suo “supporto fisico” separando in tal modo “l’economia dell’informazione” dall’ “eco- nomia delle cose”: grazie alle tecnologie informatiche, idee, immagini, programmi applicativi, consulenze, transazioni, contratti, possono esse- re tradotti in una sequenza logica di bit.

È utile comunque chiarire due concetti. In primo luogo bisogna di- stinguere tra l’informazione, che è digitalizzabile, e la conoscenza, che esiste esclusivamente all’interno di un sistema intelligente. Questa di- stinzione è alla base della formulazione di un “ciclo conoscenza-infor- mazione” che permette di evidenziare la “sfida” che si presenta nel mo- mento in cui si trasforma la conoscenza in informazione, e viceversa.

In secondo luogo bisogna distinguere tra le “idee” che hanno un valo- re legato alla loro manifestazione fisica (ad esempio il motore a scoppio e le ferrovie) da quelle il cui valore è indipendente dal mezzo che le

Figura 11: Il ciclo Conoscenza-Informazione

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contiene (come nel caso del software, delle telecomunicazioni, dei database).

È a questa seconda tipologia di “idee” che appartengono i “prodotti della conoscenza”, prodotti che, sollevati dalla propria “materialità” ed attraverso Internet, si rivelano in grado di superare le barriere dello spa- zio e del tempo divenendo infinitamente espandibili89.

Inoltre, una volta sostenuto il costo (elevato) della “prima copia”, i knowledge product sono caratterizzati da un costo di riproduzione ten- denzialmente nullo.

La conoscenza sembra rifiutare le usuali leggi economiche basate sul concetto di scarsità: il possessore della conoscenza può infatti cederla senza che questa si esaurisca, può utilizzarla senza consumarla, può tra- sferirla senza perderla.

Diversamente dall’economia fisica, che poggia pesantemente sulle risorse materiali, la nuova economia prospera utilizzando conoscenza ed informazione per creare valore, produttività ed efficienza.

Nella Knowledge economy, il sapere non è solo racchiuso nei beni e servizi ma è esso stesso un bene, soprattutto in un sistema produttivo come quello attuale fortemente basato su lavoro cognitivo ad ogni livel- lo.

La conoscenza riguarda infatti la possibilità di ottenere i migliori ri- sultati possibili date le condizioni iniziali e la capacità di fronteggiare imprevisti ed ostacoli, inoltre, se considerata come “bagaglio” delle espe- rienze personali e collettive, è insita in ogni gesto quotidiano e permea anche le attività considerate manuali stimolandone un incremento di ef- ficienza.

Quasi tutto il lavoro, del resto, è di carattere cognitivo, ossia lavoro speso nella produzione di qualche forma di conoscenza.

La comunicazione tra gli agenti interviene e rende la questione più incisiva. La possibilità di accedere alle conoscenze disponibili attraverso la connessione in Rete di milioni di utenti rende il sapere una risorsa moltiplicabile e, grazie ai costi di riproduzione trascurabili, ne eleva il valore d’uso. Nel momento in cui il valore di una informazione risulta essere pari alla somma del valore dei possibili usi, la diffusione della conoscenza si presenta come la chiave per moltiplicarne il valore all’in-

89 Il loro consumo in altre parole non è “rivale”, vale a dire, secondo un linguag- gio caro agli economisti, che essi godono della proprietà per cui l’uso da parte di un soggetto non ne esclude l’utilizzo da parte di altri.

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terno dell’economia (economie di replicazione). Il network, in tal modo, agevola la specializzazione e l’outsourcing, ovvero il ricorso al mercato per i servizi necessari allo sviluppo di grandi, medie e piccole imprese.

Per le imprese, dato il minor costo delle transazioni, è più accattivante l’idea di dedicarsi a ciò che riesce loro meglio e ricorrere alle altre im- prese per i beni e servizi che, nel tempo, possano rilevarsi necessari, portando ad un ridimensionamento delle imprese verso la media dimen- sione.

La differenziazione operata dall’economia nel suo complesso com- porta inoltre un notevole aumento nell’investimento in conoscenza la quale, grazie all’integrazione esistente tra gli agenti economici, genera un rendimento più elevato e dà in tal modo vita a forme di “intelligenza collettiva”.

Tutto questo può avvenire in primo luogo perché i prodotti della co- noscenza sono beni immateriali. Questi, a differenza di quelli fisici, go- dono di una interessante proprietà: quando si condividono con altri, non ne diminuisce il valore d’uso individuale ma, al contrario, aumenta l’uti- lità della fruizione complessiva90.

In questo modo si attiva un circolo virtuoso sul come si fa a fare qualcosa – produzione di know-how – che schiude un mondo di possibi- lità: migliorie sul risultato, efficienza di processo, etc.

In sé non si tratta di una novità: la condivisione dei saperi, del come si fa a fare qualcosa, appartiene all’uomo fin dalla sua comparsa sul piane- ta. Nella storia dell’uomo anzi, questa tendenza alla condivisione è stato uno dei vantaggi evolutivi della specie91 unitamente alla capacità di ap- prendere.

Questa è la ragione per cui, le tecnologie ICT stanno assumendo una rilevanza sempre maggiore: esse rappresentano il modo più efficiente per incrementare i know how92.

90 Se io presto la mia auto (bene fisico) ad un amico, nel momento in cui la presto rinuncio anche ad utilizzarla per il periodo che egli la usa. Se mia nonna condivide una sua ricetta ‘speciale’ (bene immateriale) con un’amica non si priva della possibilità di realizzare la torta anzi, permette pure all’amica di godere di questo piacere ed even- tualmente di modificare la ricetta migliorandola. Nell’ambito dei prodotti immateriali condividerne la fruizione con i nostri simili aumenta il benessere collettivo.

91 Nessuno di noi ha mai pagato una royalty all’inventore della ruota, ma di certo la possibilità di copiare, modificare, migliorare il concetto di ruota ha influenzato positivamente le condizioni di vita degli esseri umani che sono venuti dopo di lui.

92 E se è vero che queste modalità sono emerse per la prima volta nell’ambito del

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5.2. Il legame tra produttività dei fattori e nuove tecnologie: il caso italiano

In base ad alcuni recenti sviluppi della letteratura93 sul legame tra produttività dei fattori e nuove tecnologie, il sostegno allo sviluppo del- l’economia fornito dal rapido progresso delle TIC (Tecnologie dell’In- formazione e della Comunicazione) si fonda sulla accresciuta flessibilità gestionale dei processi produttivi da esse consentita, unita ad una profi- cua ricomposizione dello stock del capitale a beneficio delle componenti più produttive94.

Sotto questa prospettiva di analisi, in Italia l’innalzamento della qua- lità dei servizi del capitale, seppure in aumento negli ultimi anni, sembra essere assai limitato rispetto alle più ampie potenzialità favorite dall’in- tensificarsi del progresso nelle tecnologie dell’informazione e della co- municazione95.

Una conferma di questo fenomeno sarebbe identificabile nel proces- so di miglioramento qualitativo del capitale (praticamente annullatosi nel comparto industriale) registrata negli anni Novanta rispetto al decen- nio precedente.

Il confronto, tuttavia, risulta in parte distorto dagli effetti positivi del- l’intensa ristrutturazione intrapresa dall’economia italiana all’inizio de- gli anni Ottanta, una ristrutturazione favorita anche dalle condizioni restrittive della politica monetaria e dall’apprezzamento valutario mani- festatisi in quegli anni.

Nel tentativo di accertare il ruolo delle nuove tecnologie nella cresci- ta in Italia, Bassanetti, Iommi, Jona-Lasinio e Zollino96, hanno scompo-

software esse non sono per nulla confinate in questa area e trovano applicazione in qualunque organizzazione, commerciale o meno, impegnata in un processo di inno- vazione continua.

93 Sul punto si veda BASSANETTI A., IOMMI M., JONA-LASINIO C., ZOLLINO F., (2004), La crescita dell’economia italiana negli anni novanta tra ritardo tecnologico e ral- lentamento della produttività, Banca d’Italia, temi di discussione del Servizio Studi, nr 539, dicembre.

94 Si veda ROSSI, S. (2003), La Nuova Economia. I fatti dietro il mito, Il Mulino, Bologna.

95 Sul punto BASSANETTI A., IOMMI M., JONA-LASINIO C., ZOLLINO F., (2004), op. cit.

96 BASSANETTI A., IOMMI M., JONA-LASINIO C., ZOLLINO F., (2004), La crescita del- l’economia italiana negli anni novanta tra ritardo tecnologico e rallentamento della produttività, Banca d’Italia, temi di discussione del Servizio Studi, nr. 539, dicembre.

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sto il contributo totale dei servizi del capitale tra componenti TIC e non- TIC.

Bassanetti et al sottolineano come, negli ultimi venti anni, circa un decimo della crescita del valore aggiunto dell’economia italiana sia di- rettamente riconducibile ai servizi del capitale TIC (in media 0,2 punti percentuali rispetto a uno sviluppo dell’1,9%; Cfr. Tabella 22).

Tabella 22: Contributi alla crescita dal capitale TIC e non TIC Variazioni percentuali; medie annue

Fonte: Banca d’Italia, Bassanetti A., Iommi M., Jona-Lasinio C., Zollino F., (2004)

Il risultato ottenuto dall’analisi empirica condotta appare in linea con quello dei principali Paesi europei e del Giappone. Esso, invece, risulta inferiore rispetto a quelli della Finlandia, del Canada e, in misura più accentuata, degli Stati Uniti e dell’Australia.

L’analisi settoriale evidenzia in particolare come nel settore manifat- turiero ed in quello dei servizi, la quota di valore aggiunto riconducibile ai servizi del capitale TIC salga a circa il 15% (rispettivamente, 0,2 e 0,4 punti percentuali su una crescita media annua dell’1,4 e del 2,4%; Cfr.

Tabella 23).

Sempre secondo Bassanetti et al, il contributo dei beni TIC risulta relativamente superiore nel settore terziario che in quello industriale (ri- spettivamente, 41 e 23% nella media del periodo).

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Tabella 23: Contributi alla crescita dal capitale TIC e non TIC – industria ma- nifatturiera e servizi

Variazioni percentuali; medie annue

Fonte: Banca d’Italia, Bassanetti A., Iommi M., Jona-Lasinio C., Zollino F., (2004)

Durante la recessione dei primi anni Novanta – evidenziano gli autori – l’impulso delle nuove tecnologie si è pressoché annullato sia nel totale dell’economia sia nei principali comparti produttivi.

Nella seconda metà del decennio, invece, il maggior ricorso al fattore capitale si è accompagnato ad accresciuti investimenti in beni ICT, il cui stimolo alla crescita ha recuperato, senza superarla, l’intensità che l’ave- va caratterizzato sino alla fine degli anni Ottanta.

In particolare, sarebbe riconducibile quasi per intero all’adozione di beni TIC il miglioramento, ancorché contenuto, della composizione qualitativa dello stock di capitale rilevata tra il 1996 e il 2001 mentre, nel periodo 1992 -2001, sono stati gli acquisti di input intermedi a contribu- ire per quasi un terzo alla crescita complessiva del prodotto (Cfr. Tabella 24) 97.

Tornando agli investimenti in TIC, anche l’analisi della contabilità della crescita basata sulla produzione finale conferma un ruolo modesto nel sostenere lo sviluppo dell’economia italiana, sebbene i dati evidenzino un graduale miglioramento nel corso degli anni Novanta.

Dato interessante è che questa lieve ripresa ha interessato tutte le com- ponenti, mentre nel periodo 1992-96 ad apportare un contributo positi- vo, ancorché scarso, erano stati solo gli acquisti di attrezzature per la comunicazione.

97 L’inclusione dei beni intermedi acquistati dall’estero, sia nella misura dell’output sia tra i fattori primari della produzione, si riflette in una maggiore crescita dell’eco- nomia italiana laddove misurata sulla base della produzione finale piuttosto che sul valore aggiunto (2,8 % contro 2,1 in media d’anno nel periodo 1996- 2001).

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Tabella 24: Contributi alla crescita dell’economia italiana Variazioni percentuali; medie annue

Fonte: Banca d’Italia, Bassanetti A., Iommi M., Jona-Lasinio C., Zollino F., (2004)

Sempre in base all’analisi di Bassanetti et al, il progressivo aumento dell’accumulazione in beni TIC durante l’ultimo decennio non sembra aver contrastato il concomitante rallentamento della Produttività Totale dei Fattori (PTF). Tale fenomeno andrebbe imputato al “tradizionale”

ritardo con cui la spesa in nuove tecnologie produce guadagni di produt- tività, un ritardo causato dalla necessaria riorganizzazione dei processi produttivi.

Indipendentemente dalla misura di output adottata, i risultati dell’ana- lisi condotta a livello aggregato da Bassanetti et al. rivelano pertanto un modesto contributo delle nuove tecnologie nel processo della crescita in Italia, almeno limitatamente all’orizzonte temporale considerato.

Nel tentativo di accertare se la modesta crescita dell’economia italia- na negli anni Novanta e il concomitante rallentamento della PTF siano il riflesso di fenomeni comuni alla maggior parte dei comparti, oppure se siano la conseguenza di andamenti sfavorevoli di un loro sotto insieme ristretto, ma rilevante in termini di peso sul totale dell’offerta Bassanetti et al. conducono infine una analisi della crescita a livello settoriale.

Nello studio viene riportata una analisi disaggregata su 29 settori per i quali gli autori hanno appositamente ricostruito le stime dei servizi del capitale98.

98La Nomenclatura delle Attività Economiche o codice NACE (dal francese Nomenclature générale des activités économiques) è un sistema di classificazione

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generale utilizzato per sistematizzare ed uniformare le definizioni delle attività eco- nomico/industriali nei diversi Stati membri dell’Unione Europea. Un gruppo di lavo- ro costituito da rappresentanti dell’UE e degli Stati membri ha elaborato una versio- ne riveduta della NACE 70, denominata NACE Rev.1, introducendo un grado di dettaglio sufficiente per rispecchiare non soltanto le similarità tra le strutture econo- miche degli Stati membri, ma anche le principali differenze tra esse. Nell’ambito della classificazione NACE Rev.1, i settori considerati nella ricerca corrispondono a tutte le sotto-sezioni dell’Estrazione dei minerali (sezione C) e delle Attività manifat- turiere (sezione D); per gli altri comparti i dati si riferiscono alle sole sezioni, trascu- rando ulteriori disaggregazioni. Coerentemente con l’analisi aggregata, vengono esclu- si: la Pubblica amministrazione e difesa (sezione L); i Servizi domestici presso fami- glie e convivenze (sezione P) e la Locazione di beni immobili propri (gruppo 70.2).

99 Nell’ultima colonna della vengono riportati i pesi di Domar utilizzati per “ag- gregare” i diversi valori della PTF associati a ciascun settore produttivo.

Nella Tabella 25 si riportano i risultati ottenuti stimando i servizi del capitale per ogni comparto attraverso un’equazione che “spiega” la pro- duzione lorda in termini dei contributi degli input intermedi, di fonte nazionale ed estera, oltre che dei fattori primari e della PTF99.

Tabella 25: Contributi alla crescita economica settoriale Variazioni percentuali; medie annue

Fonte: Banca d’Italia

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La prima indicazione di rilievo è rappresentata dall’ampia eteroge- neità negli andamenti della PTF a livello settoriale, ulteriormente ampli- ficata, nel calcolo dei contributi alla dinamica aggregata, dalla variabili- tà nei rispettivi pesi.

Complessivamente, nel periodo 1992-2001, alla caduta della produt- tività nei settori dell’estrazione di minerali energetici e, in misura più contenuta, nell’industria del Coke e raffinerie di petrolio si sono contrap- posti i cospicui incrementi nei settori Agricoltura e Pesca, Legno, Tra- sporti e Comunicazioni, Intermediazione monetaria, finanziaria e nel set- tore assicurativo.

Correggendo per il rispettivo peso sul totale dell’offerta, è proprio quest’ultimo comparto a fornire il contributo più elevato alla crescita della produttività totale dei fattori aggregata, spiegandone circa un quin- to: a fronte di un peso di Domar relativamente contenuto, il dato è il risultato, in primo luogo, del netto rialzo della produttività totale dei fat- tori (1,69%), cui si somma il marcato processo di accumulazione di capi- tale digitale che, su base annua, ha sospinto la crescita del comparto per circa mezzo punto percentuale.

Pur in presenza di un ruolo trascurabile delle nuove tecnologie, anche il settore trasporti e comunicazioni ha sostenuto in misura tra le più ele- vate la PTF aggregata grazie alla favorevole dinamica di quella settoriale.

L’apporto proveniente dal settore Commercio, invece, sottende un tasso di crescita della PTF piuttosto basso (0,26%), un dato, quest’ulti- mo, amplificato peraltro dall’elevato peso di Domar.

Negativo, invece, è il contributo alla dinamica della produttività ag- gregata fornito dal calo della PTF nei settori Estrattivi, delle Costruzioni e dell’Istruzione, mentre nel comparto manifatturiero il risultato negati- vo interessa le industrie Alimentari, quelle della Gomma e della plastica.

In confronto alla stima della crescita della produttività in Italia otte- nuta direttamente dalla contabilità della crescita aggregata (0,89%; Cfr.

Tabella 24), la somma ponderata delle dinamiche settoriali risulta leg- germente inferiore, pari allo 0,72%.

In merito al ruolo delle nuove tecnologie, in linea con l’evidenza empirica nei principali paesi industriali100, in Italia gli investimenti in TIC hanno stimolato la crescita della produttività totale in misura relati- vamente più elevata nei settori dei servizi in confronto con quelli dell’in-

100 Si veda OCSE (2003), op. cit.

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dustria, plausibilmente riflettendosi in una dinamica più sostenuta del- l’offerta.

In particolare, nei comparti dei servizi alle imprese e dell’interme- diazione monetaria e finanziaria, l’accumulazione di beni TIC ha con- corso per 0,74 e 0,45 punti percentuali, rispettivamente, alla crescita del prodotto. Analogamente all’evidenza riscontrata da altri autori per il Re- gno Unito101, tali settori potrebbero avere beneficiato di caratteristiche specifiche dei rispettivi processi produttivi, incentrati sull’uso intensivo delle “network technologies”. Sempre in Italia, nel settore dell’interme- diazione finanziaria vi avrebbero contribuito anche i recenti processi di concentrazione dell’offerta, che avrebbero consentito di realizzare i gua- dagni di efficienza nell’impiego delle nuove tecnologie derivanti dalla maggiore dimensione d’impresa.

5.3. Capitale umano, competenze ed ICT

Come evidenziato nei paragrafi precedenti le più recenti teorie dello sviluppo sono attraversate da nuove tensioni nel tentativo di attribuire nella spiegazione dei processi di crescita il debito ruolo anche ai fattori immateriali e relazionali, soprattutto per compensare l’insufficiente po- tere esplicativo delle tradizionali variabili economiche di tipo struttura- le102.

All’origine della produzione del valore aggiunto in una economia, infatti, stanno sempre di più la dimensione delle conoscenze e delle com- petenze specifiche (il capitale umano), la disponibilità di idee e di capa- cità innovativa.

Sono queste “forze” che consentono di fare cose nuove, di farle me- glio, secondo le tecnologie più avanzate ed in tempi sempre più rapidi:

faster, better and cheaper.

101 CLAYTON, T. e WALDRON, D. (2003), E-Commerce Adoption and Business Impact: a Progress Report, Economic Trends, n. 591, pp. 33-40.

102 Si tratta di aspetti essenziali nei processi di crescita dei sistemi economici moderni che toccano, inoltre, la problematica della creazione del capitale umano specifico, derivante da learning by doing ed esperienza, e quella la distruzione del capitale umano specifico “consumato” dal tasso di cambiamento tecno-organizzativo prevalente nel sistema economico.

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Tabella 26: Crescita del Prodotto per settore – Anni 1992-2001 Variazioni percentuali; medie annue Fonte: Banca d’Italia, Bassanetti A., Iommi M., Jona-Lasinio C., Zollino F., (2004)

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Tabella 27: Contributi alla crescita della PTF aggregata – Contributi del Capitale TIC Variazioni percentuali; medie annue Fonte: Banca d’Italia, Bassanetti A., Iommi M., Jona-Lasinio C., Zollino F., (2004)

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Se, infatti, è vero che la dimensione aziendale ha un suo peso in ter- mini di produttività, è altrettanto vero che il livello di produttività varia con l’intensità tecnologica.

Con l’ampliarsi della disponibilità a basso costo di calcolo e comuni- cazione, il settore di produzione dei beni ICT esaurisce però la propria spinta alla crescita passando quindi il testimone ai settori utilizzatori ed al conseguente flusso di innovazioni derivate cui spetta il compito di creare la domanda.

Laddove la fabbrica fordista aveva separato l’intelligenza dalla pre- stazione lavorativa, segmentando mansioni e funzioni, la fabbrica post- fordista punta sulla cooperazione comunicativa ed intelligente e sul coinvolgimento cognitivo dei lavoratori nella produzione.

Mettendo a disposizione le risorse generate dal networking, la net economy apre dunque la strada verso un ulteriore paradigma economico:

la Knowledge economy, che comporta un cambiamento radicale nel modo di produrre e organizzare la conoscenza.

Grafico 62: Produttività del lavoro: settore manifatturiero (Valore aggiunto a prezzi 2000 per persona occupata; media manifatturiero = 100) Fonte: G. Foresti & S. Trenti in ASI Rapporto di Previsione, Ottobre 2005103

103 Dati Eurostat & Groningen Growth & Development centre Industry Database, in Banca Intesa Economic Monitor.

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È questa la “nuova economia” che si è imposta a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, un’economia in cui i processi globali corro- no paralleli alla forte crescita di consapevolezza che, in un panorama caratterizzato dall’avvento della knowledge economy, i saperi, le compe- tenze e le capacità relazionali si sposano con le tecnologie dell’informa- zione e della comunicazione per costituire la vera dorsale portante del sistema produttivo ed esercitando un profondo impatto sul potenziale di crescita economica.

La ricerca scientifica e tecnologica e l’alta formazione assumono un ruolo “strategico” e rappresentano fattori “cruciali” a sostegno dello svi- luppo che trae origine dall’impatto sempre più “orizzontale” e “pervasivo”

delle innovazioni e degli investimenti in capitale umano nei settori pro- duttivi, nell’economia e nella società.

Questi nuovi fattori della produzione, sono divenuti una delle princi- pali risorse della competitività e della crescita. Essi più che sostituirsi a quelli tradizionali, sinergizzano con essi dando luogo a nuovi modelli di organizzazione delle imprese e dei mercati, di promozione e valorizzazione dei sistemi territoriali, di riorganizzazione di quelli della ricerca e dell’educazione.

Allo stesso tempo, anche l’economia della conoscenza pone questio- ni e solleva interrogativi riguardo la natura del benessere e della crescita economica nel Mezzogiorno.

Lo scenario che ci si trova di fronte è estremamente frammentato ed incalzato dal bisogno di modernizzazione continua, di differenziazione, di realizzazione di ricerca ed innovazione più vicine alle esigenze della competizione globale. Tutto ciò, ovviamente, rappresenta un fattore de- stabilizzante, soprattutto per le economie in debito d’ossigeno (come quella meridionale) e pone perciò ciascun territorio di fronte alla neces- sità di adeguarsi a tali cambiamenti( ed agli scompensi da essi provoca- ti).

Per “risalire la china”, è necessario colmare un gap innovativo che, per ora, relega il Paese (ed ancora di più il Mezzogiorno), agli ultimi posti dell’Unione Europea per capacità innovativa e spesa per la ricer- ca104 e ciò può avvenire assegnando un’importanza crescente ai processi

104 Un dato, quest’ultimo da attribuirsi alla struttura imprenditoriale italiana che, essendo composta soprattutto da piccole imprese, non riesce a trovare una sufficiente capitalizzazione per elevare i livelli di spesa.

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formativi (ed alla loro qualità), al governo delle dinamiche del capitale umano (generico e specifico) ed alle politiche che incentivano il cambia- mento tecnologico ed organizzativo, governandone la velocità.

Sebbene il tema, ovviamente, non nasca oggi nella letteratura econo- mica, il binomio innovazione/gestione della conoscenza è stato lasciato alla “casualità” per troppo tempo e ha dato vita a dei comportamenti non codificati che hanno assunto una importanza strategica per le performan- ce di impresa. Comportamenti che, di fronte ad una competitività cre- scente, si sono dimostrati inadeguati alla causa dello sviluppo delle aree deboli del Paese.

In realtà, una politica di sviluppo, ed in generale ogni intervento di policy, è in grado di conseguire l’obiettivo che si propone se riesce a determinare comportamenti individuali e collettivi, di singoli agenti o di organizzazioni, coerenti con l’obiettivo stesso. Questi comportamenti, tuttavia, sono influenzati in modo cruciale dall’ambiente istituzionale entro cui gli attori economici effettuano le loro scelte e, proprio per que- sto, non solo l’analisi comparativa dei differenti comportamenti in diffe- renti contesti istituzionali rappresenta una sorta di prerequisito di ogni azione di policy ma anche la modifica istituzionale viene a costituire il

“core” di una politica di sviluppo.

5.4. Governance e Government dell’innovazione

Il tessuto imprenditoriale italiano sta affrontando l’attuale congiuntu- ra economica in un clima di incertezza, alimentato da previsioni discrepanti in materia di crescita economica, caratterizzato da una com- petizione poderosa e crescente che proviene dall’Estremo Oriente ed enfatizzato dal timore che il nostro sistema economico possa ulterior- mente risentirne a livello internazionale anche per via del dollaro Usa che nel corso degli ultimi due anni ha mantenuto un cambio medio nei confronti dell’euro a 1,23.

Si tratta di problematiche che si riflettono sia sui grandi gruppi indu- striali, sia su quelle aziende di piccole e medie dimensioni – “fiore al- l’occhiello” dell’imprenditorialità italiana – impegnate in un problema- tico quanto imprescindibile processo di espansione sui mercati esteri.

Alle nuove sfide imposte in questo decennio dalla globalizzazione, le aziende italiane stanno replicando con un mix di energia, coraggio im-

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prenditoriale e spinta innovativa che rappresenta – a livello sistemico – un caso di indubbia eccellenza sul piano internazionale. Vi è inoltre una crescente consapevolezza sul fatto che l’innovazione – di prodotto come anche di processo – sia un elemento competitivo fondamentale.

Innovare, ad ogni modo, è un comportamento tanto doveroso quanto complesso per le economie avanzate ed esposte in settori ad alto tasso di incorporazione di conoscenze scientifiche come è la nostra.

Occorre sottolineare, a tal proposito, che le innovazioni che generano competitività sono quelle adottate dalle imprese, considerate come “fu- cine” dove nascono, da un lato, esigenze e problemi e, dall’altro, le nuo- ve soluzioni per la competitività in risposta ad entrambi.

I processi imprenditoriali debbono perciò essere analizzati in un’otti- ca sistemica al fine di contribuire a supportare l’attività di ricerca delle Università, dei Parchi scientifico-tecnologici, dei Centri di ricerca e di tutti quei soggetti che a vario titolo si occupano di ricerca e innovazione.

Alla base dell’innovazione, infatti, devono sussistere strutture e per- sone in grado di “generare” idee e, successivamente, di rendere concre- tamente utilizzabili quelle idee sul piano economico-produttivo.

Per questo verso, una concentrazione sul territorio quantomeno suffi- ciente di imprese afferenti al settore high-tech sommato ad una nutrita presenza di personale assunto dalle aziende avente caratteristiche ade- guate allo studio ed alla proliferazione dell’innovazione e ad una vivaci- tà in merito a marchi e brevetti depositati, possono contribuire a dare la misura della capacità competitiva del sistema socioeconomico nazionale e rappresentano il punto di partenza per un’efficace politica dell’innova- zione in Italia.

In questo contesto i temi centrali del dibattito in corso riguardano:

• l’apporto dei soggetti pubblici alle innovazioni imprenditoriali;

• il legame sussistente tra imprese e Università, Parchi Scientifici e laboratori di ricerca;

• la fruizione dell’innovazione da parte delle imprese;

• il trasferimento di innovazione dal “laboratorio” all’impresa;

• il problema dei costi sostenuti dalle imprese per introdurre innova- zione;

• le barriere all’entrata per l’ottenimento di finanziamenti;

• la formazione ed i profili professionali richiesti;

• la dimensione d’impresa.

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Sebbene molte ricerche confermino la positiva correlazione tra inno- vazione e sviluppo (Cfr. Grafico 63), è opportuno, ad ogni modo, rimar- care che non tutto ciò che contraddistingue l’innovazione si traduce ne- cessariamente in crescita economica.

105 Fonte: VITTADINI G., (2004), op. cit.

Grafico 64: Numero di Brevetti depositati per milione di abitanti Fonte: Commissione Europea, Key Figures 2003-2004 Grafico 63: Simulazione di Confindustria di impatto sul PIL

di un aumento del 5% della spesa in R&S105

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Ciò può accadere per ragioni molteplici e complesse. Se da un lato, infatti, il vantaggio competitivo assicurato dall’innovazione e dall’inve- stimento in R&S rappresenta una condizione necessaria per attivare il processo di crescita; dall’altro, essa non può ritenersi una condizione sufficiente.

La valutazione dell’efficacia del sostegno all’innovazione richiede infatti analisi empiriche e, soprattutto, una costante attenzione alle varia- zioni, seppure minime, dei sentieri innovativi della scienza e dell’econo- mia.

La declinazione nazionale di un programma ambizioso come quello messo in atto con la conferenza di Lisbona al fine di creare uno spazio europeo della conoscenza, potenziare gli investimenti delle imprese e degli Stati in Ricerca e Sviluppo, rafforzare le interazioni tra istituti di ricerca pubblici e industria, dare priorità alla formazione, migliorare l’ec- cellenza scientifica attraverso un rafforzamento della concorrenza nel settore della ricerca non può che muovere da una breve ricognizione del- l’assetto competitivo globale sull’innovazione.

L’analisi per Paese106, relativa allo sforzo innovativo su base annua, misurato come media del tasso di investimento per Paese e per area geo- economica nel quinquennio 1997-2001 ed esteso a vari Paesi, evidenzia sui tre sistemi principali tassi simili (appena sotto il 5%).

La posizione di testa nella graduatoria è mantenuta Stati Uniti con il 4,8% mentre UE 15 e Giappone seguono con il 4,5%.

Dati più eterogenei si riscontrano invece analizzando gli Stati mem- bri dell’Europa che possono essere raggruppati in tre cluster corrispon- denti alle tre velocità possibili per l’Europa a 25. Il primo gruppo di Paesi evidenzia tassi significativamente superiori alla media aggregata europea (dal 9% al 16%). Si tratta di sistemi economici di ridotte dimen- sioni o che hanno intrapreso da poco politiche di innovazione strutturata.

Tali Paesi segnano in questo momento e, sotto la spinta di vari e diversi fattori, il salto verso una maggiore modernizzazione scientifica e tecno- logica. Tra di questi figurano: Grecia, Ungheria, Lituania, Spagna, ma anche quelle che rappresentano le due punte di diamante dell’innovazio- ne in Europa (Finlandia e Svezia).

106 I dati sono tratti da uno studio condotto da Unioncamere. Per un approfondi- mento si veda Unioncamere (2005), Sistema/Italia 2004 Rapporto sulle economie e le società locali; in collaborazione con PEGroup.

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Del gruppo intermedio fanno invece parte Danimarca, Austria, Bel- gio (tra i Paesi di più antica appartenenza comunitaria), ma anche Slovenia, Lettonia ed Irlanda per i quali i tassi di incremento della spesa per inno- vazione sono compresi tra il 5% e l’8%.

Sotto la dell’UE 25, si trovano i grandi Paesi più la Polonia. In questo caso le percentuali variano dal 3,3% della Germania, al 2,8% del Regno Unito e dell’Italia, al 2,1% della Francia.

È tuttavia da un esame comparativo dei dati che emergono aspetti interessanti. Se infatti non sorprende che Israele sia l’economia global- mente più impegnata nella R&S (il tasso di crescita media dell’indicato- re calcolato da Unioncamere risulta superiore al 10 % annuo) abbiamo, per altro verso, una ripartizione che riproporziona il ruolo dei Paesi su valori ben diversi da quelli visti in precedenza:

• i Paesi scandinavi ad alta innovazione come Finlandia e Svezia evidenziano una spesa compresa tra il 3,5% 4,8% in quota Pil, mentre Giappone, Usa, Danimarca, Germania e Francia si confermano luo- ghi canonici delle policy ad alto investimento relativo per la R&S con percentuali comprese tra il 2,15% ed il 2,8%;

• un gruppo di Paesi guidati dal Regno Unito, tra i quali Norvegia Pae- si Bassi, Austria, Slovenia mantiene alti gli investimenti in quota Pil con percentuali tra l’1,6% ed il 2%;

• ad inseguire, infine, è un numeroso gruppo di economie, tra cui l’Ita- lia, ferma ad un modesto 1,1% del Pil con aumenti medi molto bassi (nell’ordine dello 0,5 su base quinquennale). Questo dato è parzial- mente temperato dai tassi di crescita dei Paesi piccoli o di recente accesso in Europa, la cui dinamica relativa è stata particolarmente vivace nel quinquennio considerato.

Unioncamere fornisce inoltre i dati ripartiti in base a quattro fonti di spesa: finanziamenti privati, finanziamenti pubblici, altre fonti nazionali e fonti dall’estero.

In questo caso dal rapporto si evince che il Giappone è il luogo di maggior sostegno della ricerca derivante dalla mano privata (73% dei fondi globali); gli USA raggiungono per la stessa tipologia il 66%, men- tre l’UE 15 totalizza una quota di fondi privati non superiore al 56%.

Le percentuali si invertono invece per la partecipazione allo sforzo di R&S basato su moneta pubblica: UE 15 il 34%, USA il 29% e Giappone solo il 18%. Ancora una volta all’interno degli Stati membri dell’Unione risultano eterogenei i valori ripartiti in base all’origine dei fondi.

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Italia, Portogallo, Grecia ed Austria evidenziano una dominante ma- trice pubblica per la ricerca. Associate “strutturalmente” all’investimen- to privato risultano Svezia e Finlandia, mentre Germania, Belgio e Paesi Bassi sono espressione di equilibrio tra i primi due gruppi.

5.5. La catena del valore dell’innovazione: una analisi a livello re- gionale

Con l’obiettivo di rilevare, regione per regione, le diverse vie all’in- novazione che contraddistinguono le vocazioni specifiche ed i modi in cui esse influenzano i processi innovativi, Unioncamere ha prodotto un’analisi discriminante del modo in cui il percorso innovativo di un territorio identifica, seleziona e valorizza risorse materiali ed immateriali per la creazione di valore aggiunto in un determinato contesto.

Questo tipo di analisi risulta complementare ad altri strumenti di in- terpretazione delle specializzazioni economiche locali, dal momento che fornisce utili indicazioni su quali siano le cause che contribuiscono a dare rilievo esplicativo a certi fattori rispetto ad altri, concorrendo a trac- ciare lo stile innovativo di un territorio.

Allo scopo nel rapporto curato da Unioncamere e PEGroup è stata identificata una catena del valore dell’innovazione. Essa è costituita da quattro aree tematiche che rappresentano il livello più alto di classifica- zione:

Fonte: Analisi PEGroup (2004)

Ai quattro ambiti in cui si suddivide corrispondo cluster coerenti di fattori descrittivi del comportamento innovativo locale.

Il primo blocco è rappresentato dal sistema delle vocazioni socio- culturali di un territorio. Questo insieme di fattori descrittivi prende in considerazione una serie di indicatori relativi al grado di dotazione motivazionale di un territorio. Quest’ultimo è un valore di sintesi dei

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fattori di offerta e domanda di beni e servizi legati alla cultura, alla for- mazione individuale e sociale, alla creatività artistica ed alla sperimenta- zione esistenziale.

Più in particolare, fanno parte di questa famiglia di indicatori motivazionali sia fattori di struttura relativi alla dotazione hardware di cultura di un luogo: biblioteche e opportunità professionali nei settori culturali, sia indici di partecipazione socio-culturali da parte dei cittadi- ni, dotazioni tecnologiche per il tempo libero e l’emancipazione cultura- le (uso del PC, internet, ecc.)

Il secondo blocco – il sistema di trasformazione delle vocazioni in Know how – cerca di cogliere la relazione che dovrebbe sussistere tra vocazioni individuali e collettive, condizionate da una certa appartenen- za geografica, ed i sistemi di generazione formale e di mantenimento dei giacimenti di competenze, in primo luogo i sistemi di istruzione e forma- zione.

Si tratta perciò di un ambito che raccoglie evidenze sulla propensione di un dato territorio ad alimentare il sistema formativo, con un forte invi- to alla popolazione a valorizzare sistematicamente i profili formativi in- dividuali grazie ad un sostegno territoriale di adeguate opportunità formative.

Il Sistema di trasformazione del Know-how in innovazione (terzo bloc- co) utilizza una serie di indicatori correlati positivamente, in ipotesi, non solo con il potenziale ma con reali espressioni di propensione innovativa.

Attraverso tali indicatori ci si prefigge di valutare aspetti che interes- sano la competitività di un territorio, intesa come elemento centrale delle relazioni che permettono la produzione di conoscenza applicata a fini economici.

In questo caso gli indicatori sono associati alla risorse e al capitale umano comprendendo poi la dotazione regionale di risorse dedicate alla R&S in senso formale (spesa, ricercatori e laboratori regionali) e, infine, indicatori specializzati del successo economico e tecnologico del conte- sto regionale.

Attraverso il quarto ed ultimo ambito (dedicato al Sistema di trasfor- mazione dell’innovazione in mercato) si misura l’output dei processi descritti in precedenza. In questo caso l’analisi è condotta attraverso una selezione di indicatori di tipo settoriale tra il quali il numero di addetti nelle tre principali tipologie di imprese innovative: low-medium e high tech, la presenza di capitale umano nei settori basati sulla conoscenza e

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indicatori relativi al vantaggio competitivo per le imprese associato al- l’innovazione.

I risultati del confronto regionale, (Italia = 100) sono riportati nei grafici che seguono e consentono una prima serie di valutazioni.

È possibile notare come persista una dominanza netta alla concentra- zione del potenziale innovativo nazionale nelle regioni del Nord e del Centro del Paese (Lombardia, Piemonte, Friuli e Veneto, Emilia e Tosca- na, Lazio) che costituiscono, di gran lunga, il nocciolo duro dell’Italia dell’innovazione. Nel gruppo di testa Lombardia e Lazio guidano a bre- ve distanza l’uno dall’altro la classifica. Roma e Milano, infatti, si con- fermano città sistema con una vocazione direzionale, mentre l’Emilia, seconda regione nella graduatoria assoluta, presenta un profilo ricco di varietà territoriale.

Fonte: analisi PEGroup su dati ISTAT

Il gruppo delle regioni innovative immediatamente a ridosso delle prime tre ha un punteggio omogeneo e annovera al suo interno territori abbastanza diversi fra loro (Friuli, Veneto, Piemonte e Toscana). Questi ultimi sono territori contraddistinti da elevata coesione sociale ed econo- mica, ma anche da modelli di sviluppo fra loro relativamente diversi.

Il gruppo che si posiziona appena al di sotto della media nazionale ha una struttura dicotomica: da un lato Trentino Alto Adige e Marche sono

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perfettamente in linea con la media italiana; seguono con un punteggio compreso tra 90 e 92 tre regioni (Sardegna, Abruzzo ed Umbria) mentre Basilicata, Liguria, Valle d’Aosta e Molise si classificano intorno a valo- ri compresi tra gli 83 e gli 89 punti.

Chiudono la classifica quattro regioni (Campania, Calabria, Sicilia e, ultima, la Puglia) tutte ubicate nel quadrante meridionale del nostro Pae- se, caratterizzate da un punteggio che varia tra 70 ed 80.

Tabella 28: La classifica regionale per ciascun segmento della catena del valore Fonte: analisi PEGroup su dati Istat

5.6. Ict, Innovazione e Conoscenza Condivisa – Una Opzione di Si- stema per il Mezzogiorno

Sono trascorsi più di 130 anni dall’unificazione politica dell’Italia, ed oltre mezzo secolo dalla definizione, negli anni Cinquanta, di una politi- ca meridionalista che aveva, per la prima volta, caratteristiche di specia- lità, straordinarietà ed addizionalità. Il Mezzogiorno d’Italia, tuttavia, rappresenta ancora oggi una grande regione che presenta un divario ri- spetto ad altre aree del Paese: l’Italia centrale e la pianura padana. Un divario di reddito, ma anche di struttura.

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Nell’economia meridionale ritroviamo numerosi “squilibri”, primo fra tutti quello tra dimensione dell’apparato produttivo e disponibilità di forze di lavoro, dal quale deriva la cronica persistenza nell’area di una disoccupazione di carattere strutturale, che si manifesta con un tasso per- centuale sulle forze di lavoro pari a tre volte quello rilevabile nelle regio- ni settentrionali della Penisola.

A dispetto dei progressi fatti registrare sia in termini di rafforzamento della struttura economica sia di miglioramento delle condizioni sociali – progressi che nei primi decenni dell’intervento pubblico del dopo-guerra furono effettivamente “straordinari” – il Meridione, negli ultimi trenta anni, ha conseguito risultati non eclatanti nel recupero del divario rispet- to alle aree forti del Paese.

Se si prendono in esame i tassi annuali di crescita del Pil, dagli anni Settanta ad oggi, si nota una marcata correlazione di lungo periodo tra i valori relativi al Mezzogiorno, quelli relativi all’Italia e quelli relativi all’Europa (Cfr. Grafico 65). Ne è conseguita la persistenza dei divari territoriali interni, ma anche un incremento nei livelli assoluti di benes- sere non trascurabile, sebbene concentrato in una porzione del Paese,

Grafico 65: Tassi di crescita del Pil: Italia, Mezzogiorno ed EU-15 Fonte: Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione, Ministero dell’Economia, Ministero del Lavoro(2005), Documento Strategico Mezzogiorno

2005 - Linee per un nuovo programma Mezzogiorno 2007-2013

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soprattutto in considerazione del fatto che il Centro-Nord d’Italia è dive- nuto, dal Dopoguerra, una delle aree più prospere d’Europa.

Nel primo decennio degli anni Settanta, osserviamo volatilità ed una sostenuta media del tasso di crescita, nei due decenni successivi scende la media e diminuisce la sua volatilità. Se osserviamo solo gli ultimi anni (Cfr. Grafico 66), utilizzando le statistiche economiche regionali elabo- rate dall’Istat, notiamo che, nel periodo 1997-2003, il tasso annuo di cre- scita del Pil nel Mezzogiorno sia stato, in media, pari a circa l’1,7% con- tro l’1,5% dell’Italia, l’1,1% dell’area Nord-Occidentale e l’1,38% di quella Nord-Orientale.

Il Meridione, in sostanza, è andato meglio del Centro-Nord di circa mezzo punto percentuale l’anno, sebbene dal grafico sia possibile rileva- re anche come l’economia del Nord-Est d’Italia, caratterizzata da un an- damento più variabile, sia stata capace di allungare il passo in modo de- ciso in alcuni periodi: tra il 1993 ed il 1996 e nel biennio 1999-2000.

Il 2004 ha però visto l’economia meridionale invertire la tendenza e registrare un tasso di crescita inferiore a quello del Centro-Nord. È que- sto un fenomeno che ricorre nelle fasi di ripresa ciclica del commercio mondiale. Il minore impatto che, nell’economia meridionale, ha l’anda- mento della domanda internazionale di beni e servizi determina, infatti, un allargamento del divario di crescita tra le due ripartizioni geografiche.

Grafico 66: Pil (Var %; milioni di euro a prezzi 1995; 1980-2004) Fonte: Ns. elaborazioni su dati Istat - Statistiche economiche regionali - anno 2005

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Il fenomeno dell’inversione di tendenza lascia spazio ad una conside- razione interessante, vale a dire che la crescita meridionale degli ultimi anni non sia stata ancora innervata da fattori strutturali e, proprio per questo, abbia mantenuto un profilo contenuto, non ancora pienamente autopropulsivo, incapace di attivare il potenziale di sviluppo latente nel- l’area.

Un’analisi ulteriore relativa alla dinamica del reddito pro-capite negli ultimi 10 anni (Cfr. Grafico 67 e Grafico 68) si può realizzare sulla base delle statistiche economiche provinciali elaborate da Unioncamere.

Da questa analisi emerge un quadro molto eterogeneo delle province del Sud, un Mezzogiorno “a macchia di leopardo” nel quale la crescita è anche il risultato di processi migratori interni di significativa intensità (Cfr. Tabella 29).

Grafico 67: Valore aggiunto ai prezzi base per abitante (numeri indice; 1995 = 1)

Fonte: Unioncamere (2005)

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Tabella 29: Flussi e saldi migratori del Mezzogiorno con il Centro-Nord nel 1998 e 2002

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT

Grafico 68: Valore aggiunto ai prezzi base per abitante (valori correnti in euro) Fonte: Unioncamere (2005)

Il Grafico 67, attraverso numeri indici, confronta l’incremento del valore aggiunto per abitante del Mezzogiorno con quello di 5 province italiane: due del Sud e tre del Nord. La serie storica rileva che alcune province meridionali – nel caso specifico, ed a titolo esemplificativo, Napoli e Catanzaro – hanno fatto meglio del Mezzogiorno in termini di

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incremento del reddito pro-capite; mentre le tre province del Nord prese in considerazione – Milano, Pordenone e Reggio Emilia – hanno fatto registrare incrementi di questo indicatore sensibilmente inferiori al dato medio del Sud Italia.

Ciò nonostante, il divario, in termini assoluti nei livelli del valore aggiunto per abitante tra le province prese in considerazione – a valori correnti – non sembra essersi ridotto in maniera altrettanto visibile (Cfr.

Grafico 68).

In relazione all’indicatore considerato, infatti, zone forti e zone debo- li del Paese partono da disparità consistenti e quando due aree crescono con curve di sviluppo determinate da saggi “simili” nell’ordine di gran- dezza, ma registrano situazioni di partenza assai diverse, l’aritmetica ci suggerisce che il riassorbimento del divario è attuabile solo nel lunghis- simo periodo.

L’ampiezza iniziale del divario esistente ci dice che il Mezzogiorno non può più permettersi di “fare la corsa” con il Centro-Nord del Paese.

Esiste una chiara analogia tra la rincorsa in atto tra Mezzogiorno e Aree forti del Paese ed uno tra i più famosi paradossi di Zenone di Elea, quello di Achille e la tartaruga. Nel paradosso si afferma che se Achille (detto “piè veloce”) venisse sfidato da una tartaruga nella corsa, e conce- desse alla tartaruga un certo vantaggio, egli non riuscirebbe mai a rag- giungerla, dato che Achille dovrebbe prima raggiungere la posizione oc- cupata precedentemente dalla tartaruga che, nel frattempo, si sarà spo- stata di un intervallo di spazio; così la distanza tra Achille e la lenta tarta- ruga non arriverà mai ad essere pari a zero107.

107 Il paradosso può essere matematicamente confutato. In pratica, posto che la velocità di Achille (Va) sia N volte quella della tartaruga (Vt) le cose avvengono così:

dopo un certo tempo t1 Achille arriva dove era la tartaruga alla partenza (L1). Nel frattempo la tartaruga ha compiuto un pezzo di strada e si trova nel punto L2. Occorre un ulteriore tempo t2 per giungere in L2. Ma nel frattempo la tartaruga è giunta nel punto L3 ... e così via. Quindi per raggiungere la tartaruga Achille impiega un tempo T= t1+t2+t3+…+tn… e quindi Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Nel parados- so, Zenone assume implicitamente che, data una serie infinita, debba essere infinita anche la sua somma. In realtà, nel caso specifico di Achille e della tartaruga la serie converge a T=L1/(Va-Vt). È necessario tuttavia tener conto del fatto che una prima dimostrazione di convergenza delle serie infinite non geometriche è stata data, tra laltro per un solo caso particolare, nel XVI secolo da Richard Suiseth. Il caso genera- le venne dimostrato nel XVII secolo, mentre Zenone espose i suoi paradossi nel V secolo A.C.. La confutazione del paradosso, tuttavia, permette di evidenziare come il

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tempo che Achille impiega per raggiungere la tartaruga sia direttamente proporzio- nale alla distanza che separa il primo dalla seconda alla partenza (L1) ed inversamen- te proporzionale allo scarto esistente tra le velocità dei due partecipanti alla “gara”.

L’analogia con il nostro caso è evidente: per quanto il Mezzogiorno possa essere “pié veloce” ed il Centro-Nord “tartaruga”, il vantaggio ac- cumulato dal Nord è tale che il Mezzogiorno – come nel paradosso – non sarà mai in grado di colmare il divario esistente.

Risultato: le distanze fra il Centro-Nord e il Sud del Paese rimango- no, nel complesso, inalterate cosicché il Mezzogiorno è, ancora oggi, nelle ultime posizioni della corsa verso lo sviluppo. La differenza – di non poco conto – è che oggi, diversamente dagli anni passati, il resto d’Italia, compreso il Nord-Est è anch’esso rimasto indietro rispetto alle aree forti del Vecchio Continente.

Ma, sul piano congiunturale, anche l’Italia, nel suo complesso, non è in buone acque. La diagnosi della patologia che affligge il nostro sistema economico risulta confermata dai dati appena diffusi dall’Istat sull’anda- mento dell’economia nel 2005. Non solo il nostro Paese è rimasto al palo, un fatto, quest’ultimo, ampiamente previsto dalla maggioranza de- gli osservatori e dalle più importanti istituzioni internazionali, ma ha perso ulteriore terreno rispetto all’Europa.

L’Italia si attarda perché non riesce ad usare l’occasione offerta dalle nuove tecnologie: che non rappresentano un settore innovativo, ma un salto di scala nella funzione aggregata di produzione. Le ICT, infatti, offrono a tutti i settori una opportunità di innovazione; esse determinano un incremento nella produttività totale dei fattori, generando un vero e proprio gradino nella capacità dell’intero sistema economico di espan- dersi.

Il Sud dell’Italia, che certo contiene anche poche isole di eccellenza, nel suo complesso presenta ancora un apparato produttivo distante dai livelli di efficienza necessari per competere nel mercato mondiale, ma anche l’Italia subisce il medesimo destino se non si avvia una rapida ed intensa trasformazione della sua struttura industriale.

Per comprendere questo punto, l’esistenza del divario e la fragilità anche del Paese nel suo complesso, è utile fare riferimento ai dati ripor- tati dalla Svimez nel suo rapporto annuale e condurre una analisi compa- rata su alcuni indicatori macroeconomici regionali.

Il Grafico 69 è costruito sui dati della Tabella 31 (convertiti in numeri indice) e riporta l’andamento di tre variabili relative al Mezzogiorno –

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prodotto per abitante, prodotto per unità di lavoro e unità di lavoro per abitante – interpolate con le rispettive linee di tendenza.

Nel complesso i dati aggregati individuano tre dinamiche: due positi- ve ed una (lievemente) negativa.

Il prodotto per unità di lavoro cresce, recuperando terreno nei con- fronti del Centro-Nord. La maggiore crescita del Pil del Mezzogiorno che caratterizza gli anni più recenti deriva, infatti, da una maggiore cre- scita della produttività del lavoro rispetto alle regioni settentrionali del nostro Paese.

Sorprende l’andamento della seconda dinamica – il prodotto per abi- tante – anch’essa positiva, ciò nondimeno “adagiata” lungo un trend di crescita con una pendenza pari alla metà di quella del prodotto per unità di lavoro.

In questo caso dall’analisi comparata dei dati macroeconomici è pos- sibile evidenziare come nel 2004 il Pil per abitante del Mezzogiorno ammontasse a 15.950 euro, valore pari al 59,6% di quello rilevabile nel Centro-Nord (26.750 euro).

Il divario di prodotto per abitante, pertanto, è superiore ai quaranta punti percentuali, un valore cui corrisponde, in termini monetari, una differenza di oltre 10.000 euro.

Grafico 69: Prodotto per abitante, prodotto per unità di lavoro e unità di lavoro per abitante (Numeri indice su valori Centro-Nord = 100)

Fonte: Ns. elaborazioni su dati Svimez (2005)

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Complessivamente, nel periodo 1995-2004, il gap si è dunque ridotto (solo) del 4% (Cfr. Tabella 31).

A questo risultato ha contribuito, oltre ad una crescita media annua del prodotto nel Mezzogiorno lievemente superiore a quella del Centro- Nord, una dinamica demografica più contenuta: nel periodo 1994-2004, infatti, la popolazione è rimasta sostanzialmente stazionaria al Sud (+0,8%

circa), a fronte di una crescita di 2,5 punti percentuali nel Centro-Nord (Cfr. Tabella 30).

Tabella 30: Struttura per età della popolazione e principali indicatori.

Anni 1994 e 2004

Fonte: Elaborazioni Svimez su dati Istat (2005)

Per ricomporre l’apparente antinomia determinata da un prodotto per unità di lavoro (inteso come indice di efficienza), che recupera nei con- fronti del Nord ad una velocità doppia rispetto al prodotto per abitante (inteso come indice di benessere) è sufficiente prendere in considerazio- ne la terza dinamica, quella delle unità di lavoro per abitante, in aumento nell’ultimo quinquennio.

L’andamento di questo indicatore suggerisce che negli ultimi anni l’incremento di produttività generato dai lavoratori meridionali non si sia tradotto in un deciso recupero di benessere per gli abitanti poiché, nel Meridione, le unità di lavoro per abitante hanno perso terreno rispetto al Settentrione e ciò ha finito per erodere il guadagno di produttività.

Le cattive notizie congiunturali suggeriscono, infine, singolari svi- luppi del dibattito su morfologia e dimensione delle imprese industriali meridionali.

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Tabella 31: Prodotto per abitante del Mezzogiorno e sue componenti (indici: Centro-Nord = 100,0)

Fonte: Svimez (2005)

È diffusa, ad esempio, la tesi che la prevalenza nel Sud di imprese di ridotte dimensioni costituisca un nodo strutturale capace di condizionare in misura crescente la performance dell’economia in quel territorio. Ne- gli ultimi anni, effettivamente, le imprese italiane, e dunque non solo quelle meridionali, si sono progressivamente concentrate in una dimen- sione contenuta; hanno adottato moduli organizzativi caratterizzati da una elevata flessibilità e da un crescente volume di relazioni reciproche, nell’ambito di una forte contiguità territoriale o settoriale; sono diventa- te tanto integrate con le famiglie, che le governano, da confondere la capacità patrimoniale della famiglia stessa con la base di mezzi propri disponibile per l’impresa.

Queste scelte sono state determinate da un ambiente esterno in cui era dominante la rigidità dei rapporti contrattuali sul mercato del lavoro.

Inoltre, l’opzione di mantenere contenuta la dimensione dell’azienda rap- presentava la possibilità di tenere opaco il regime delle rendicontazioni interne e di convivere con un sistema marginale di scambi tra economia ed economia sommersa.

Entrambe queste conseguenze, paradossalmente, risultano coerenti con un mercato finanziario in cui le banche sono l’unica fonte di capitali ed il debito lo strumento utilizzato con larga prevalenza.

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I tratti dominanti di questo sistema di impresa, in sostanza, sono: l’as- soluta prevalenza dei costi variabili sui costi fissi; la sistematica prefe- renza per la relazione ricorrente di scambio sulla creazione di gerarchie produttive di larga scala.

“È opportuno tuttavia sfatare due miti. In primo luogo, la diffusione delle imprese familiari non è un fenomeno esclusivamente italiano. In secondo luogo, non vi è evidenza che le imprese familiari stentino a cre- scere. Le evidenze empiriche ed i dati sono chiari in proposito. Sfatare alcuni miti non implica però negare il problema”108. Le carenze struttu- rali del sistema industriale meridionale sono ben documentate e hanno indubbiamente condizionato la dinamica della crescita del Mezzogiorno.

Circa la soluzione di questo problema, la lezione che ci arriva dall’eco- nomia è che non esiste una soluzione organizzativa che risulti ottima in ogni circostanza: vi sono epoche in cui a sopravvivere sono le piccole e medie imprese, i batteri, ed epoche dove sopravvivono gli elefanti, le grandi imprese.

Un ambiente volatile ed incerto premia i batteri, una radicale trasfor- mazione uccide gli elefanti, ma un ambiente coerente con la loro mole favorisce il loro dominio sui batteri.

Ci si potrebbe a questo punto interrogare sulle ragioni per cui un modello – quello della piccola impresa – che ha consentito alla nostra economia di crescere rapidamente fino perlomeno alla fine degli anni Ottanta, oggi perda sempre più colpi. La risposta si deve cercare nei mutamenti strutturali che hanno caratterizzato l’ultimo scorcio del Ven- tesimo secolo: l’integrazione dei Paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale e la rivoluzione tecnologica nel campo dell’informatica e delle comunicazioni.

La globalizzazione rende più larghi i mercati e premia, in parte, la capacità di avere costi fissi intelligenti: controllo della produzione, inno- vazione, ricerca, dominio delle tecnologie. Una volta raggiunto e supera- to il break even point, a questi costi si associano tuttavia profitti superiori a quelli alimentati dai margini sui costi variabili che si ricavano dai bassi volumi di produzione.

Globalizzazione e rivoluzione tecnologica, in sostanza, hanno eroso la posizione competitiva delle imprese di più ridotta dimensione, troppo piccole per sfruttare pienamente le opportunità del processo di

108 FAINI R., (2005), Piccole imprese non crescono, La Voce, 19 settembre.

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globalizzazione e troppo carenti dal punto di vista delle risorse umane per trarre beneficio dalle nuove tecnologie.

Nel Meridione anche le “colonie di batteri” – i distretti – non sembra- no possedere né la scala né la tenuta organizzativa per sfidare la frontiera della tecnologia ed il clima di maggiore competizione “in alto ed in bas- so” nel mercato globale, la nuova arena competitiva in cui si fa più agguerrita sia l’offerta di beni di consumo durevole, di fascia bassa, sia l’offerta di tecnologie nuove, di fascia molto alta.

Numerosi studi mostrano che i problemi del sistema economico me- ridionale possiedono inoltre una componente settoriale. Tale componen- te è, in larga misura, ascrivibile ad un sistema produttivo “datato” che fa ancora eccessivamente leva sul settore industriale e su industrie a bassa intensità tecnologica. Si è inoltre già avuto modo di evidenziare come il crollo della produttività non interessi solo il settore manifatturiero, ma anche quello dei servizi e della grande distribuzione ed assume perciò caratteristiche “strutturali” e come a ciò si aggiunga un elemento deter- minante, vale a dire il ritardo nel colmare il gap con i Paesi che domina- no la scena mondiale nella produzione e accumulazione di capitale ICT nonché l’incapacità di profittare a pieno dei guadagni di produttività le- gati all’introduzione dell’ICT (Cfr. Grafico 70), come pure limiti nella qualità, più che nella quantità, del fattore lavoro utilizzato.

Ribadiamo che la situazione di persistente debolezza delle aree meri- dionali, in termini di consapevolezza e di “domanda” rivolta ai prodotti dell’innovazione e della formazione, si legge da alcuni evidenti fatti sti- lizzati:

• nel Sud gli investimenti in ricerca e sviluppo rappresentano ancora una percentuale strutturalmente e drammaticamente “modesta” del totale nazionale che, peraltro, si accentua notevolmente consideran- do unicamente il versante delle imprese;

• per di più, se rapportata al Pil, la propensione alla “ricerca” del Mez- zogiorno risulta ancor più gravemente (e notevolmente) inadeguata;

• la scarsità di risorse – umane e finanziarie – specificamente destinate alla R&S ed alla formazione determina un rallentamento dei compor- tamenti innovativi nel sistema economico e, di conseguenza, com- porta il perdurare dei ritardi e delle debolezze nel processo di svilup- po;

• una parte consistente dell’apparato produttivo e industriale del Mez- zogiorno ancora soffre di una ridotta “formalizzazione” di funzioni

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terziarie espressamente “dedicate” all’innovazione di processo o di prodotto;

• la diffusione di canali “commerciali”, piuttosto che “tecnologici”, per entrare in contatto ed introdurre trasformazioni e innovazioni all’in- terno dell’azienda, finisce per limitare il contenuto innovativo incor- porato nei processi e nei prodotti e, quindi, per ostacolare la crescita endogena dell’attrezzatura produttiva, delle competenze e dei saperi.

Grafico 70: Legame tra variazione della produttività (MFP -multi-factor productivity) e variazione degli investimenti in ICT (in % della gross fixed

capital formation -GFCF)

Fonte: European Information Technology Observatory (2004), Rapporto 2004

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Figura 12: Incidenza della R&D (in % del Pil )

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In sintesi il sistema economico meridionale non funziona perché non utilizza lo sviluppo delle conoscenze applicato ai problemi di gestione e controllo della produzione e perché non dispone di un’adeguata tenuta organizzativa.

Le imprese del Sud non hanno né scheletro (l’organizzazione), né cervello (la ricerca e l’innovazione tecnologica) come funzioni autono- me e strutturate. Agiscono e pensano, anche velocemente, come i batteri, ma non hanno la forza di affrontare la dimensione del mercato globale

Figura 13: Personale destinato alla R&D in % della forza lavoro totale

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che richiede specializzazione degli organi e delle funzioni di ogni attore e, nel medesimo tempo, capacità di coordinamento tra quelle funzioni.

Questo è un handicap fatale nell’epoca delle ICT: la tecnologia del- l’informazione e della comunicazione che cambia le regole della compe- tizione sui mercati mondiali. È in questa nuova era, infatti, che gli “ele- fanti” post fordisti – cioè le nuove grandi imprese, estranee al vecchio mondo del carbone e dell’acciaio – ritrovano flessibilità interna ed innal- zano la propria capacità di competere.

Ciò avviene grazie a tre leve competitive:

• l’innovazione tecnologica (ricerca e sviluppo e dunque brevetti);

• il capitale umano e i modelli organizzativi, intesi come combinazione di saperi diversi, governo di reti produttive e commerciali estese, in- novazione distribuita;

• la capacità di marketing e comunicazione, che nasce dalla combina- zione di brand strategy, design ed interazione con i consumatori fina- li.

Ciascuna di queste leve contribuisce con un proprio valore specifico alla capacità competitiva delle imprese, sebbene il vantaggio competitivo risulti dalla concomitanza dei tre diversi fattori.

Seguendo questa linea di ragionamento i batteri, le piccole imprese, per sopravvivere al mutato contesto dovrebbero trasformarsi in animali più “strutturati”.

Si sta affermando, in effetti, un nuovo modello di impresa, general- mente media, che anche grazie alla capacità di costruire reti di produzio- ne e commercializzazione internazionali, riesce a crescere, mentre altre imprese che operano sullo stesso territorio, spesso in una logica di subfornitura, non avendo le risorse e le competenze per cerare “reti lar- ghe” non sono in grado di seguire la strada delle imprese di successo e spesso hanno serie difficoltà di sopravvivenza.

La rivoluzione tecnologica in atto apre anche prospettive di sviluppo nuove ed impensabili, fino a qualche anno fa. Attività tradizionalmente circoscritte ad ambiti geografici ristretti, fino a qualche tempo fa prero- gativa di élite culturali e/o imprenditoriali, oggi sono svolte da gruppi

“emergenti”. Anche il tradizionale assetto dello sviluppo di attività di formazione e ricerca, che vede storicamente le università come culle esclu- sive dell’innovazione, sta mutando e talvolta le realtà più innovative na- scono in contesti atipici, ovvero al di fuori di questi ambiti.

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