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L’idealismo e la trascendenza deviata

Come si è avuto modo di sottolineare, ciò che realmen- te appare inverosimile – e ad un tempo inutile - nel siste- ma freudiano è la coscienza chiara e distinta da parte del bambino del desiderio parricida e incestuoso. In questa prospettiva, Freud resta prigioniero del principio fonda-

tore – ma allo stesso tempo tirannico - dell’intera tradizio- ne filosofica moderna: il primato della soggettività.

Abitualmente il passaggio dalla Weltanshauung medie- vale all’età moderna viene descritto come il progressivo venir meno – già a partire dall’ultima fase della filosofia scolastica in autori come Duns Scoto e Ockham – della struttura di pensiero al cui apice figura la teologia e il suo oggetto precipuo, Dio, in favore della nascente indagine empirica e proto-scientifica. Ma sarebbe ingenuo pensare che, in questo mutamento di prospettiva, le prerogative del Dio della teologia, il Dio creatore del mondo e supre- mo giudice dispensatore imparziale di castighi, si nullifi- chino come un qualcosa che non interessa più. A partire dagli albori dell’età moderna e nel profondo rivolgimento culturale che vi si accompagna, il sacro “rifluisce” sulla terra, i caratteri tirannici del Dio biblico della tradizione giudeo-cristiana – e di gran parte della teologia scolastica – vengono ereditati dal soggetto, nuova fonte unica del- l’essere. “Ogni soggettività deve fondare l’essere del reale nella sua totalità e affermare io sono colui che è”11.

Ma la fenomenologia di questo mutamento di prospetti- va – che è anche sempre, non bisogna dimenticarlo, disa- gio esistenziale – è molto più complessa di quanto spesso non si voglia far credere, e passa attraverso la profonda lacerazione – che si origina dallo sgretolarsi di quell’unità tra il Dio fonte dell’essere e il Dio personale della tradizio- ne giudeo-cristiana che aveva caratterizzato tutta l’epoca medievale – tra il dio dei filosofi e il dio dei credenti. È pos- sibile descriverne i tratti essenziali osservando da questa particolare angolatura i percorsi teorici dei due primi gran- di pensatori della modernità: Descartes e Pascal. Com’è noto, Descartes procede alla deduzione in primo luogo del cogito come sostanza pensante e in seguito del mondo

esterno come res extensa, la cui realtà è garantita da Dio come fondamento dell’essere. Dio come fondamento, dunque, ma non più come termine trascendente con cui l’uomo possa – nel sua più autentica dimensione di creaturalità – rapportarsi dialogicamente, ad esempio nel- la preghiera12. Si obietterà che Descartes tiene pur conto

della finitezza umana, anzi ne muove nella propria dedu- zione dell’Io: ma si tratta sempre e comunque di un pas- saggio logico, della ricerca di un fondamento unico del soggetto pensante e del mondo esterno. Ed è proprio in questo sottile e labile confine tra creaturalità e finitezza che alberga la scissione tra il Dio-fondamento, il Dio-con- cetto che non si può pregare, e il Dio personale, la trascen- denza dialogica che, tuttavia, proprio in quanto tale, ri- nuncia al proprio carattere metafisico di fondamento e fonte dell’essere.

Questa seconda alternativa è senz’altro ben incarnata da Pascal. In polemica con la concezione cartesiana di Dio, Pascal rivendica l’autentica creaturalità come finitezza non soltanto logica, ma come limite intrinseco alla ragione umana. Dunque l’uomo non è semplicemen- te un soggetto pensante autonomo, ma un essere provvi- sorio che si rapporta al Dio cristiano “urlando e gemen- do”. Tuttavia, anche Pascal resta una figura della scissio- ne; l’avverte, ma non la risolve, semmai si decide per una delle due alternative, quella religiosa. Se Descartes con- duce al non senso qualsiasi rapporto personale con Dio, ridotto a mero concetto e fondamento metafisico della re- altà, Pascal decide, “scommette” per il Dio personale, ma scegliendo la via religiosa – che conduce all’abbandono

12 Descartes appare ancor più come “figura della scissione” se si leggo-

no alcuni passi delle Lettere (R. Descartes, Oeuvres et lettres, Parigi, Gallimard 1964), nelle quali egli ringrazia Dio per avergli fatto scopri- re il metodo, il cui esito ultimo è, paradossalmente, l’approdo ad un dio-concetto che non si può pregare.

della ragione in favore della fede – rinuncia in definitiva ad una genuina prospettiva filosofica.

La storia del pensiero moderno ci mostra come la linea “vincente” sia stata quella cartesiana. Certo è legittimo sostenere l’esistenza di una matrice pascaliana del pen- siero moderno, che esplode in epoca contemporanea con Kierkegaard e con l’esistenzialismo, ma prima di quella data non rappresenta che un flebile, se non silenzioso, contrappunto alla metafisica razionalista e al successivo deismo illuminista dominanti. La riduzione iniziale di Dio a concetto e fondamento della realtà operata da Descartes viene spinta progressivamente sino agli estremi: dal Dio- sostanza di Spinoza al proto-deismo di Locke e al deismo maturo di Collins, Toland e Tindal, sino all’ateismo mate- rialista di Lamettrie, Dio viene prima ridotto a mero con- cetto, relegato in una dimensione totalmente indifferen- te a quella umana, poi del tutto eliminato, come un anti- co fardello troppo greve per la ragione ormai matura. Man mano che Dio si allontana, la soggettività si gonfia e ne sostituisce la funzione: l’Io divinizzato diviene il princi- pio di penetrazione e la misura della realtà, ed ogni trascendenza è denunciata come auto-inganno e super- stizione dannosa per la salutare emancipazione della ra- gione umana e del principio d’immanenza.

Kant ha senz’altro il merito di aver tentato di arginare gli effetti devastanti di una tale “deriva soggettivista” pro- pria tanto della tradizione razionalista quanto di quella empirista, limitando la conoscenza umana al fenomeno e riservandone la naturale “tendenza metafisica” all’ambi- to esclusivamente morale. L’Io penso kantiano – va ribadi- to - non è la res cogitans cartesiana, ma il fondamento soggettivo dell’attività logica mediante la quale l’“ente razionale finito” si rapporta ai fenomeni e riconosce l’inattingibilità in sede teoretica della cosa in sé: essa ri-

quale, tuttavia, legislatore non è più l’Io penso, ma la leg- ge morale, ossia, in ultima analisi, il dovere – e quindi la possibilità – di approssimarsi infinitamente alla perfezio- ne divina. Se il tentativo kantiano è dunque quello di por- re un freno all’elefantiasi dell’Io limitandone la sovranità al mondo fenomenico, ma aprendolo – pur nella sua in- trinseca finitezza – ad un ambito ulteriore e autentica- mente trascendente nel quale la legge – divenuta appello divino - lo richiama alla sua più alta destinazione morale, i pensatori post-kantiani varcano, per non dire sfondano, la soglia del limite e ristabiliscono la dittatura metafisica dell’Io, unico principio - ad un tempo teoretico e morale - e fondamento della realtà, compromettendo definitiva- mente quella solida compenetrazione di ragion teoretica, ragion pratica e religione morale-razionale a cui Kant ave- va lavorato tutta la vita.

Come più avanti intuirà Nietzsche, nel pensiero occi- dentale si consuma la vicenda dell’“uccisione di Dio”: chi ne sarà l’erede? Gli idealisti tedeschi credono di poter ri- spondere “l’Io”. Ma l’Io non è un oggetto senza relazione con l’Altro: “è dunque questo rapporto che finisce inevita- bilmente per avvelenare il tentativo di sostituirsi al Dio della Bibbia. La divinità non può toccare né all’Io né al- l’Altro; essa è incessantemente disputata fra l’Io e l’Altro; è questa divinità problematica che carica di metafisica sot- terranea la sessualità, l’ambizione, la letteratura, in una parola tutte le relazioni intersoggettive”13. Gli effetti di tale

“avvelenamento metafisico” sono riconoscibili sin dalle origini dell’era individualista nella ben nota “morale del- la generosità” di Descartes, ingiustificabile teoreticamente perché indeducibile dal Cogito. Eppure è significativo che l’individualismo razionalista e la “morale della generosi- tà” compaiano congiuntamente: l’Io idealista, fonte unica

della realtà, si rifiuta di porre il problema dell’Altro, poi- ché riconosce in lui l’ostacolo maggiore alla propria autodivinizzazione; tuttavia, cerca di risolvere il proble- ma dell’esistenza altrui a livello pratico, fuori dall’ambito della riflessione teoretica. Inizialmente, l’Io si sente ab- bastanza forte per trionfare sull’Altro; tuttavia occorre che provi anche a se stesso la propria superiorità, ha bisogno di rassicurarsi e, affinché la prova sia soddisfacente, biso- gna che la rivalità sia leale: la soluzione che si impone è senz’altro quella della generosità. La sua motivazione uf- ficiale è l’“interesse comune”, ma dietro a quest’ultimo non si nasconde null’altro che una manovra esclusiva- mente egotistica.

Il passaggio dalla “morale cartesiana della generosità” alla “sensibilità preromantica” è sintomo di un aggrava- mento del conflitto tra le coscienze: l’Io è incapace di ri- durre l’Altro in schiavitù, la divinità, inizialmente legata all’Io, tende a spostarsi verso l’Altro: “Per evitare questa catastrofe, d’altronde imminente, l’Io si sforza di venire a patti con i propri rivali. Non rinuncia all’individualismo, ma si sforza di neutralizzarne le conseguenze. Cerca di firmare un patto di non-aggressione metafisica con l’Al- tro.”14 Questa tensione interna tra il tentativo di autodi-

vinizzazione dell’Io e l’impossibilità di ridurre l’Altro in una dimensione di costitutiva inferiorità, o quanto meno la possibilità che l’Altro possa aspirare alla stessa divinità dell’Io, costituisce la Sensucht romantica come approssi- mazione mai compiuta all’infinito, mai compiuta proprio perché – anche se mai tematizzato - resta pur sempre un residuo di alterità, di non-Io che non è possibile inglobare nella soggettività. L’idealismo tedesco, conducendo al- l’estremo la hybris dell’Io divinizzato, si erige sul rifiuto del rapporto imprescindibile tra l’Io e l’Altro: aspirare alla

divinità significa ricadere inevitabilmente nel conflitto con l’Altro, nell’impossibilità frustrante di pervenire al com- pimento del proprio essere come adeguazione assoluta. “Ciò che importa notare […] è l’incessante oscillazione tra l’onnipotenza immaginaria dell’Io solitario e l’onnipoten- za reale dell’Altro nella società. L’Altro è, letteralmente, il primo venuto, chiunque si trovi ad incrociare il cammino dell’eroe [dell’Io], a sbarrargli la strada o semplicemente a guardarlo con ironia, che questa ironia sia reale o imma- ginaria. L’Altro è la quintessenza dell’ostacolo mimetico”15.

Non c’è dubbio che una tale rilettura getti una luce sini- stra sull’abituale immagine sublime e prometeica del ro- manticismo e dell’idealismo. Cionondimeno, è necessa- rio mettere in luce la dimensione sotterranea - la “psicolo- gia del sottosuolo”, per utilizzare l’immagine che Girard mutua da Dostoevskij - che si cela sotto la rassicurante illusione della “tensione romantica all’infinito”. Il “roman- tico” della letteratura ottocentesca o l’Io degli idealisti te- deschi è in realtà un soggetto sdoppiato, e tanto più si sdoppia quanto più non riconosce il proprio sdoppiamen- to. Egli vuole credere e far credere di essere perfettamen- te uno, dunque sceglie una delle due metà del proprio essere – e segnatamente la metà sublime, ideale, prome- teica, nascondendo la metà sordida e grottesca – e tenta di presentare tale metà come la totalità. L’orgoglio roman- tico cerca costantemente di mostrare a sé e agli altri che può unificare tutta la realtà intorno a se stesso. Ma tale sintesi non avviene mai del tutto, perché l’Io, ad un passo dalla divinità compiuta, si accorge dell’esistenza irriduci- bile dell’Altro, e inizia progressivamente a pensare che la divinità e l’adeguazione assoluta tanto desiderate spetti- no a lui: gli uomini divengono dei gli uni per gli altri. “La

15 R.Girard, La voix méconnue du réel, Parigi, Grasset 2002, p. 139 (trad.

negazione di Dio non sopprime la trascendenza ma la fa deviare dall’aldilà all’aldiquà”16: man mano che il sacro

rifluisce sulla terra, isola gli individui l’uno dall’altro, sca- va tra essi un abisso incolmabile molto più profondo del- l’antica distanza tra la terra e il cielo, e la terra sulla quale abitano gli Altri diviene un paradiso inaccessibile.

A mano a mano che l’Io si gonfia di orgoglio, l’esistenza si fa più amara e solitaria – ed ecco un altro dei types romantici, il “solitario”. Se tale solitudine è comune a tutti gli uomini, perché essi non possono condividerla, alle- viandone la sofferenza? Ognuno scopre nella propria so- litudine che la promessa dell’adeguazione assoluta è illusoria, fallace, ma nessuno è in grado di universalizzare tale esperienza: la promessa resta vera per gli altri. “Cia- scuno si crede l’unico escluso dal retaggio divino e si sfor- za di nascondere la maledizione. Il peccato originale non è più la verità di tutti gli uomini come nell’universo reli- gioso, ma il segreto di ciascun individuo, l’unico possesso della soggettività che ad alta voce proclama la sua padro- nanza radiosa: “Non sapevo”, osserva l’uomo del sotto- suolo, “che gli uomini possono trovarsi nella stessa situa- zione, e per tutta la vita ho celato questa particolarità come un segreto”17.

Ciascuno si crede solo all’inferno, non accorgendosi che l’inferno è proprio questo; se in un breve momento di lucidità il soggetto scorge l’universale falsità del desiderio di autodivinizzazione dell’Io, subito dopo si dispera per aver rivelato – anche soltanto a se stesso – il terribile se- greto: quanto più si è schiavi del desiderio, tanto più ci si impegna nel difendere tale schiavitù. E la menzogna mantiene in vita il desiderio che, fatalmente, assume una forma triangolare, la stessa che, molto tempo dopo, anche

Freud si è rifiutato di riconoscere. L’Io si rivolge all’Altro che sembra fruire – lui sì – della divinità compiuta, ne diventa il discepolo, e ne imita i desideri perché crede che così facendo riuscirà a raggiungere lui stesso la divi- nità. La fede del discepolo nel mediatore – così è detto il modello che il discepolo imita, in quanto si interpone tra il discepolo e l’oggetto che gli indica come desiderabile per pervenire alla divinità – è così grande che egli si cre- de costantemente sul punto di carpire il segreto meravi- glioso del suo appagamento e della sua completa adegua- zione a se stesso, in una parola del suo essere dio. Ne gode quasi in anticipo, perché è certo che desiderando ciò che il modello desidera anche lui potrà godere della stessa beatitudine, nulla ormai lo separa dalla divinità. Nulla, tranne il mediatore. Egli desidera lo stesso oggetto del discepolo, ben presto si trasformerà da modello in ri- vale – anzi, sarà entrambe le cose contemporaneamente. Ciò che emerge a questo punto del discorso è che l’indi- viduo non può sussistere senza un appoggio esterno. Laddove esso rinunci a Dio nel tentativo di sostituirvisi, cade nel rapporto conflittuale con l’Altro, col mediatore umano. Rinunciare a Dio significa deviarne la trascendenza verso l’Altro. Scegliere è sempre scegliersi un modello, e la radicale libertà umana consiste nel poter scegliere fra autentico modello divino e illusorio modello umano. La tesi agostiniana dell’inscindibilità dello slancio verso Dio dalla “calata” in se stessi assume ora un significato nuovo e pregnante: inversamente, il ripiegamento dell’orgoglio è inscindibile da un moto non più verticale, ma deviato in orizzontale, non più verso la trascendenza di Dio ma verso la trascendenza dell’Altro.

Quest’operazione di decostruzione – o meglio sarebbe dire di demistificazione - dell’idealismo conduce alla sco- perta, al di sotto della ben nota “tensione all’infinito”, del sottosuolo del desiderio triangolare e dell’orgoglio ferito

che cerca disperatamente il proprio impossibile appaga- mento. Il tentativo di divinizzazione dell’Io finisce tanto più tragicamente quanto più si scontra con un’alterità ir- riducibile, con la trascendenza deviata e con la dialettica – anche questa, non senza ragione, triadica come quella hegeliana - del desiderio selon l’Autre. Se, nella prospetti- va mimetica, l’idealismo filosofico rappresenta il tentati- vo di perpetuare la menzogna del desiderio mascheran- dola da “autonomia della soggettività”, la dimensione sot- terranea del romanticismo emerge in maniera sorpren- dente nell’opera di alcuni romanzieri. Se in Flaubert l’ana- lisi del “bovarismo” offre un modello esemplare di desi- derio secondo l’Altro e Proust afferma, ne Le temps retrouvé, che l’orgoglio ci fa vivere “staccati da noi stessi”, associan- do tale orgoglio allo “spirito di imitazione”, è con Dostoevskij che il romanzo moderno raggiunge l’apice della sua portata rivelativa e demistificatrice: “tale visio- ne offre un’interpretazione coerente delle strettissime analogie e della radicale differenza tra cristianesimo e desiderio secondo l’Altro. Di questa suprema verità, che tutte le geniali opere romanzesche illustrano, implicita- mente o esplicitamente”, diremo che “la passione è un cambiamento di direzione di una forza che il cristianesimo ha suscitato e orientato verso Dio”18.