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Identikit degli occupati a tempo

parziale

U

tilizzando un campione di 26.319 occupati dipendenti (dei quali 5.311 occupati volontariamente a tempo parziale e 3.107 occupati a tempo parziale in quanto non hanno trovato un’occupazione a tempo pieno) (1), si è verificato che la probabilità di lavorare con un contratto a tempo parziale risulta correlata in modo significativo con le seguenti variabili: il genere, la ripartizione geografica, la cittadinanza (italiana o straniera), la professione svolta, il settore di attività, la tipologia della famiglia di appartenenza, la tipologia di contratto di lavoro (a tempo determinato o indeterminato), l’età anagrafica del lavoratore.

Di seguito i principali risultati. Per quanto riguarda la variabile titolo di studio la correlazione non risulta significativa.

Nel 2016 la quota di lavoratori impiegati a tempo parziale sul totale dei lavoratori dipendenti risulta pari al 5,7%: di questi, il 63% sono part time workers involontari, che dichiarano di non essere riusciti a trovare un’occupazione a tempo pieno.

Le occupazioni a tempo parziale sono più diffuse nei seguenti sottoinsiemi: professioni non qualificate, mansioni qualificate nei settori del commercio e negli altri servizi, impiegati esecutivi in uffici, gli occupati di ogni qualifica nel commercio e negli altri servizi, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, i lavoratori stranieri, le donne, gli individui in possesso di titolo di studio alto (diploma e laurea).

Le occupazioni a tempo parziale risultano meno diffuse nei seguenti gruppi: i giovani con meno di 24 anni, le

persone con più di 55 anni, i celibi/nubili, gli individui in possesso di titolo di studio basso (scuola elementare o prive di titolo di studio), lavoratori residenti nelle regioni del Sud, individui maschi, dirigenti, famiglie con mono genitore maschio, le persone con contratto a tempo determinato, operai specializzati e operai conduttori di impianti, macchinari e veicoli.

Tra i gruppi nei quali il tempo parziale è meno diffuso si rilevano categorie “forti” del mercato del lavoro (ad esempio i dirigenti) e “deboli” (ad esempio, individui di scarsa istruzione). È inoltre da notare la limitata diffusione del tempo parziale tra i giovani e tra gli over 55.

I risultati dell’analisi condotta sugli individui che lavorano a tempo parziale in modo involontario sono sostanzialmente simili.

Più interessante descrivere la quota di lavoratori involontari sul totale degli occupati a tempo parziale. Definiamo “involontari” coloro che dichiarano di lavorare a tempo parziale perché non sono riuscite a trovare un’occupazione a tempo pieno. Il tempo parziale involontario risulta più diffuso presso i seguenti sottoinsiemi: nel settore agricoltura, presso famiglie con mono genitore di sesso maschile e single, nelle aree del Sud, tra i lavoratori stranieri, tra i giovani fino a 34 anni. Il lavoro a tempo parziale involontario è meno diffuso tra gli individui con più di 55 anni, tra i dirigenti, tra i lavoratori con mansioni di elevata specializzazione e con mansioni tecniche ed esecutive in uffici, nelle regioni del Nord, tra i lavoratori muniti di titolo di studio elevato (diploma o laurea), nelle famiglie composte da entrambi i genitori e con figli.

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(1) Fonte: ISTAT, indagine sulle forze di lavoro, micro dati al terzo trimestre 2016.

Tabella 6 –

Liberi professionisti - stima dei coefficienti del modello e test di significatività. Fonte: elaborazione CNEL su dati ISTAT, indagine sulle forze di lavoro, terzo trimestre 2016.

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Tabella 1 – Occupati dipendenti a tempo parziale (colonna A) e occupati dipendenti a tempo parziale involontari (colonna B) – valori % sul totale degli occupati dipendenti. Quota degli occupati a tempo parziale involontari sul totale degli occupati a tempo parziale (colonna C) - valori %.

Fonte: elaborazione CNEL su dati ISTAT, indagine sulle forze di lavoro, terzo trimestre 2016.

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Grafico 1 – Occupati dipendenti a tempo parziale per specifiche categorie – valori % sul totale degli occupati dipendenti (linea rossa: valore medio italiano 5,7%). Fonte: elaborazione CNEL su dati ISTAT, indagine sulle forze di lavoro, terzo trimestre 2016.

Grafico 2 – Occupati dipendenti a tempo parziale involontari per specifiche categorie – valori % sul totale degli occupati dipendenti (linea rossa: valore medio italiano 3,6%). Fonte: elaborazione CNEL su dati ISTAT, indagine sulle forze di lavoro, terzo trimestre 2016. Occupati dipendenti a tempo parziale per specifiche

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Grafico 3 – Occupati a tempo parziale involontari sul totale degli occupati a tempo parziale – valori % (linea rossa: valore medio italiano 63,2%). Fonte: elaborazione CNEL su dati ISTAT, indagine sulle forze di lavoro, terzo trimestre 2016.

N

el 25° Rapporto annuale l’ISTAT analizza gli effetti della lunga crisi sullo stato di salute del mercato del lavoro italiano e fornisce una chiave di lettura della crescita delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi da lavoro, che nell’ultimo decennio si è ovunque accentuata. In Italia dal 2008 al 2016 si assiste ad una crescita della retribuzione nominale, stabilita dalla contrattazione nazionale, pari al +17,5%, mentre la retribuzione di fatto (più significativa perché comprende altri elementi integrativi dei minimi tabellari) ha registrato un incremento medio del 13,2%. Poiché nello stesso periodo l’indice dei prezzi al consumo si attesta su un +14,3%, in calo ma superiore alla crescita delle retribuzioni, ne discende che la retribuzione reale, che tiene conto dell’incidenza dell’inflazione sul potere d’acquisto, è diminuita del -1,1%. Tale dinamica si manifesta con forti differenziazioni nei diversi settori del sistema produttivo. Nel comparto industria, che maggiormente soffre della crisi occupazionale, si osserva una tenuta della retribuzione reale (+8,5%); nei servizi, che risentono del mancato finanziamento pubblico e dell’abbattimento della domanda interna, la retribuzione deflazionata rallenta (-4%); nelle Amministrazioni pubbliche le norme di contenimento della spesa a partire dal 2010 determinano in termini reali una flessione del -7,9%.

Il fenomeno è condizionato, soprattutto a partire dal 2013, dal funzionamento discontinuo dell’attività di rinnovo dei contratti (nel 2016 la percentuale di contratti scaduti e non rinnovati riguarda il 64% del totale dei lavoratori dipendenti); poiché

l’inattesa flessione dei prezzi al consumo del 2013 aveva determinato un divario tra l’inflazione programmata (fissata dalla contrattazione) e quella effettiva, la parte datoriale ha inteso recuperare lo scostamento correlando l’incremento del costo della vita non a valori desunti da previsioni, ma ai valori effettivi, innescando una serie di vertenze contrattuali e di ritardi nell’adeguamento delle retribuzioni che hanno alimentato la disparità nella distribuzione dei redditi da lavoro. La crescente dispersione salariale ha un’altra causa nei meccanismi di ricomposizione occupazionale. In conseguenza del forte calo dei posti di lavoro (si ricorda che i tassi di disoccupazione raddoppiano nel 2014 rispetto all’anno di inizio della crisi coinvolgendo, ad oggi, circa tre milioni di persone) si è messo in moto un processo di redistribuzione degli occupati rispetto alle qualifiche professionali esistenti. Tale cambiamento strutturale, che in Italia si era storicamente caratterizzato per una costante crescita delle qualifiche dalle retribuzioni superiori alla media, nell’ultimo decennio ha assunto tratti nuovi, con una maggiore contrazione di occupati che coinvolge soprattutto le fasce a reddito medio (-11%), che rappresentano oltre il 50% delle unità di lavoro, un rafforzamento delle professioni a basso reddito (+14%) e di quelle con qualifica più elevata. Ad incidere sui differenziali salariali concorrono infine le cosiddette caratteristiche d’impresa. In sintesi, secondo il modello di analisi adottato dall’ISTAT, il capitale umano (livello di istruzione e competenze professionali dei lavoratori), la produttività e il collocamento dell’impresa in settori ad alta tecnologia, sarebbero fattori che comprimono la varianza salariale, mentre un maggiore potere di mercato dell’impresa ne favorirebbe la dispersione.