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Identità in movimento Ibridismo ed emancipazione

1.3 e l’umanità degli altr

3. Una lettura alternativa del fenomeno: il transnazionalismo

3.2 Transnazionalismo: il transmigrante come agente della trasformazione

3.2.1 Identità in movimento Ibridismo ed emancipazione

L’effetto che le pratiche transnazionali producono sull’esperienza quotidiana e il punto di vista dei transmigranti è, al pari delle modificazioni economiche e spaziali che ad esse conseguono e che analizzeremo nei paragrafi successivi, elemento che qualifica il passaggio ad una nuova epistéme.

Muovendosi tra – e non solo entro - spazi differenti, il transmigrante elabora, infatti, un modo nuovo di rappresentarsi – a se stesso e agli altri -, espressione, per molti aspetti, delle molteplici appartenenze che lo ‘attraversano’.

capitale economico oltre che come l’aggregato di risorse reali o potenziali legate al possesso di una rete di relazioni basate sulla reciproca riconoscenza.

“[…] the network of relationship is the product of investment strategies, individual or collective, consciously or unconsciously aimed at establishing or reproducing social relationships that are directly usable in the short or long term, i.e., at transforming contingent relations, such as those of neighbourhood, the workplace or even kinship, into relationships that are at once necessary and elective, implying durable obligations subjectively felt (feeling of gratitude, respect, friendship, etc.) or institutionally guaranteed (rights). This is done through the symbolic constitution produced by social institutions (institution as a relative – brother, sister, cousin, etc. – or as a knight, an heir, and elder, etc.) and endlessly reproduced in and through the exchange (of gifts, words, women, etc.) which it encourages and which presupposes and produces mutual knowledge and recognition” (Bourdieu 1986,243).

La formazione del capitale sociale, osserva Portes (1995, 12), non dipende tanto dalla quantità di risorse disponibili all’interno del gruppo quanto dalla capacità degli individui di mobilizzarle. Incorporando, inoltre, le obbligazioni contratte all’interno del network relazionale, e basandosi, perciò, sulle aspettative collettive, il capitale sociale è in grado di esercitare una forte influenza sui comportamento dei singoli all’interno del gruppo agendo come veicolo di controllo sociale.

Egli elabora un’identità fluida (Hannerz 1989) che è divenire senza termine, processo di costituzione del sé – rispetto a se stessi e agli altri - come trasformazione permanente, qualcosa di assai simile all’habitus17 di Bourdieu (1971) e all’essere-dandy baudelairiano di cui il meticciaggio è implicazione (Revel 2003).

“Andando avanti e indietro fra mentalità, psicologie, etnie, religioni, luoghi, tempi, zone e altre variabili, [il migrante] – scrive Chan (1994, 218) impara la propria condizione ibrida, il proprio carattere molteplice ed eterogeneo e multidimensionale”.

“La prima caratteristica di una società aperta – afferma Philippe Zarifian (2000, 35) – risiede nel fatto che in essa si sviluppa […] un ricco popolo di meticci. Una simile multi-appartenenza è assai facile da vivere. Le nazionalità sono come i tasti di un pianoforte. Si possono suonare note differenti, eseguire una molteplicità di arie, divertirsi, spostarsi. […] A seconda del tasto ognuno di queste appartenenze si attiva, senza problema, senza pensarci. Il rapporto con queste appartenenze non è dell’ordine della razionalità riflessiva, ma del sentimento, dell’affetto, della spinta. Si è contenti di appartenere ad ognuna di queste nazionalità. Insieme, danno una forte intensità di vita. Sarebbe completamente assurdo cercare di farne una sintesi. La composizione di queste appartenenze multiple non rimanda a nessuna forma di fusione. Le appartenenze si limitano a coabitare rimanendo slegate, pronte ad essere mobilitate in combinazioni di cui non si conosce a priori il contenuto. Sono gli eventi del divenire che le fanno incontrare in noi”.

Il transmigrante non cerca ossessivamente una propria identità, ma, vuole, semmai, in un certo senso, essere autonomo, slegato (ma non per questo immemore) da abitudini e convenzioni, per abbandonarsi all’esperienza dell’essere ‘sgravato’ e dunque pienamente partecipe di nuove realtà e nuovi rapporti. Egli vive il qui e l’altrove come aspetti complementari di uno spazio singolo di esperienza, consapevole che solo essendo costantemente in moto, solo nel ricrearsi, forme significanti e significative diventano durevoli.

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Quella di ‘habitus ’ è una nozione filosofica assai antica, che si origina nel pensiero aristotelico ed è poi approfondita dalla Scolastica medievale. Pierre Bourdieu riutilizza, a partire dagli anni Sessanta, il concetto per affermare, in contrapposizione allo strutturalismo, che gli agenti attivamente concorrono alla costruzione del mondo sociale per mezzo degli strumenti cognitivi di cui dispongono. L’habitus - che è la sintesi delle categorie di giudizio ereditate e condivise all’interno della società e l’introiezione delle stesse da parte di individui che hanno storie e traiettorie differenti - non è mai la replica di una singola struttura sociale, essendo, invece, un insieme dinamico di disposizioni che registrano, conservano e prolungano l’influenza dei diversi ambienti incontrati durante la propria esistenza (Bourdieu 2000).

Il modo in cui il transmigrante si rappresenta non è sempliceme nte ‘altro’ rispetto alla pratica consolidata – al ‘medesimo’ -, ma è, semmai, la differánce derridiana (Derrida 1997), lo scarto che, rompendo la regola e posponendo i significati, disturba l’economia del linguaggio (Norris 1982).

“To capture this sense of difference which is not pure ‘otherness’, we need to deploy – afferma Hall (1990, 229) – the play on words of a theorist like Jacques Derrida. Derrida uses the anomalous ‘a’ in his way of writing ‘difference’ as a marker which sets up a disturbance in our settled understanding or translation of the word/concept. It sets the word in motion to new meanings without erasing the trace of its other meanings”.

Alimentandosi della tensione tra sofferenza e adattamento, l’esperienza dei transmigranti produce temporalità discrepanti, storie spezzate che problematizzano la moderna narrazione lineare della realtà: al mondo organizzato verticalmente dagli Stati -nazione essi oppongono – possiamo affermare - sistemi di interazioni multiple e forme più efficienti di organizzazione orizzontale (Cohen 1996), ad un territorio specifico (Butler, 2001, 192), una molteplicità di luoghi equivalenti, lo spostamento tra i quali produce

rappresentazioni, ‘identificazioni’ (Gilroy 1993, 276).

E’ la compresenza del qui e dell’altrove (Clifford 1994, 318), la double

consciousness di cui scrive Mohan (2002, 88) che caratterizza la loro esistenza.

Il migrante del transnazionalismo non sceglie tra le due opzioni d’identità di cui parla K.B. Chan (1994, 217), tra la possibilità di assimilarsi e quella di confinarsi entro un gruppo socialmente, economicamente e spazialmente isolato (G. Wang1993). Sembra, piuttosto – e ciò serve pure a qualificare il passaggio paradigmatico di cui si parla - , che egli opti per una terza alternativa - che è poi una graduale accettazione o integrazione delle prime due -, sperimentando, quotidianamente, l’inevitabile tensione inerente la sua esistenza duale.

Il transmigra nte è l’uomo marginale teorizzato da Park (1926). La sua marginalità , tuttavia, non è un aut aut, bensì una novità frutto di metamorfosi, prodotto della caoticità ed instablità (Gilroy 1994) del modello all’interno del quale

egli – in quanto ‘sé cangiante’ (Gilroy 1994, 211) - è inserito e grazie al quale riesce a comunicare e interagire con la sua comunità dispersa.

La sua esperienza è celebrazione dell’ibridismo e terreno fertile per gli effetti destabilizzanti e sovversivi che, nei confronti dell’autorità culturale del colonialismo (Bhabha 1994) – del potere dello Stato-nazione diremmo noi -, quest’ultimo può produrre.

L’ibridismo, anzi, rappresenta, in un certo senso, il carattere emancipatorio dell’esperienza transnazionale: attraverso le mescolanze identitarie, lo sconfinamento, la multiappartenenza i transmigranti si riconoscono in quanto esseri ‘potenti’ e definiscono spazi sociali trasversali allo Stato-nazione, spazi sociali, cioè, che non si danno parallelamente allo Stato-nazione, ma, in maniera interferente, perpendicolarmente ad esso, e all’interno dei quali forme nuove di imprenditoria e nuovi usi del territorio emergono sintetizzandosi nell’esperienza dell’ethnoburb.

3.2.2 Park, Simmel, Elias e Sombart. Tracce della soggettività migrante