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Il ghetto come strumento del potere: prime riflession

1.3 e l’umanità degli altr

4. Migranti e contesto urbano: teorie a confronto

4.1 L’enclave e il ghetto: pratiche agite o subite?

4.1.1 Il ghetto come strumento del potere: prime riflession

Gli approcci fin qui esposti riflettono, sia pur articolata in maniera differente, la tendenza a considerare la ghettizzazione come esito di impersonali e quasi incontrollabili meccanismi ecologici o, addirittura, di scelte strategiche razionali (Huttman 1991, Thomas 1998). In realtà, studi più recenti hanno finalmente dimostrato l’influenza che tanto le politiche urbane quanto gli interessi economici di particolari gruppi hanno avuto, e continuano ad avere, sulle modalità insediative dei migranti.

L’attenzione, nello studio dei processi di segregazione spaziale, nei confronti di una gestione discriminatoria del territorio urbano si deve, sostanzialmente, alla sociologia americana che per prima, infatti, dopo anni di oblio rispetto a questo aspetto del fenomeno, prende coscienza del fatto che la segregazione della popolazione nera nelle metropoli industriali del Nord America obbedisce a criteri differenti rispetto a quelli definiti dalla Scuola ecologica (Wieviorka 1993, 102).

“[The ghetto is] – scrive Marcuse (1998,8) - a spatially concentrated area used to separate and to limit a particular involuntarily and usually racially defined population group held to be and treated as inferior by the dominant society”.

In quanto risultato di una specifica storia di discriminazione istituzionale e non (Johnston 2000), il ghetto si caratterizza, nelle analisi che considereremo da qui in avanti, come una ‘chiusura per esclusione‘ - exclusionary closure -, una sorta di imposizione di appartenenza che richiede agli individui un’identificazione vincolante, in cui nessuno spazio è lasciato alla scelta individuale (Van Kempen 1998).

Il ghetto è, per Wacquant (2004a), espressione delle compresenza di quattro elementi: lo stigma, la costrizione, il confinamento spaziale, quello istituzionale, dispositivo socio-organizzativo che utilizza lo spazio per riconciliare due propositi antinomici: “massimizzare i profitti estraibili da un gruppo considerato deturpato e deturpante, minimizzare, al contempo, il contatto con i suoi membri così da evitare il rischio di corrosione simbolica e di contagio che alla loro presenza è associato” (Wacquant 2004a, 3).

Sfrutta mento economico e ostracizzazione sociale, in altri termini, sono i principi che governano la genesi, la struttura e pure il funzionamento interno del ghetto afro-americano della metropoli fordista. Reclutati per fare fronte ad una massiccia espansione del mercato del lavoro, destinati ai lavori più precari (Wilson 1987), ma esclusi come schiavi da qualsiasi forma di vita pubblica, gli afro americani stabilitisi nelle città nordamericane non hanno, infatti, altra scelta che cercare rifugio nel perimetro della cosiddetta ‘cintura nera’ e sviluppare, al suo interno, un network di istituzioni, per così dire, parallele, tali da garantire alla comunità la possibilità di far fronte ai bisogni primari (Drake e Cayton 1962).

“Blacks had entered the Fordist industrial economy, to which they contributed a vital source of abundant and cheap labour willing the ride along its cycles of boom and bust. Yet they remained locked in a precarious position of structural economic marginality and consigned to a secluded and dependent microcosm, complete with its own internal division of labour, social stratification, and agencies of collective voice and symbolic representation: a ‘city within the city’ moored in a complexus of black churches and press,

businesses and professional practices, fraternal lodges and communal associations that provide both a milieu for Negro Americans in which they could imbue their lives with meaning and a bulwark to ‘protect’ white America from social contact with Negroes. Continued caste hostility from without and renewed ethnic affinity from within converged to create the ghetto as the third vehicle to extract labour while keeping black bodies at a safe distance, to the material and symbolic benefit of white society” (Wacquant 2002, 47).

“For the gh etto in full-fledged form is, by its very makeup, a double-edged

sociospatial formation: it operates as an instrument of exclusion from the

standpoint of the dominant group; yet it also offers the subordinate group partial protection and a platform for succour and solidarity in the very moment whereby it sequesters it” (Wacquant 2001, 103).

Il ghetto, trattato dalla maggior parte degli studiosi come distretto segregato, quartiere etnico, territorio abitato da patologia sociale e comportamenti antisociali (Wacquant 2000b), è, allora, secondo Wacquant, la risultante di politiche e pratiche discriminatorie che isolano entro uno spazio definito una popolazione etnicamemente omogenea, un’’istituzione peculiare’ che segue, la schiavitù e precede, in quanto strumento adottato dal potere per controllare e confinare individui considerati socialmente pericolosi o economicamente ‘inutili’, l’ipercarcerazione.

Uno strumento di chiusura e controllo, dunque, strettamente imparentato con il dispositivo carcerario: se, infatti, il ghetto è descrivibile, nel suo funzionamento, come una ‘prigione etnorazziale’ che costruisce, a supporto del monopolio culturale ed economico esercitato dalla società dominante (Weber 1978, 935), la prigione sembra funzionare come un ‘ghetto giudiziario’ all’interno del quale recludere individui ‘disonorati’ da condanne penali e tenere nascoste, perché non producano scandalo o panico, le ‘regole parallele’ che informano la ‘società dei criminali’ (Wacquant 2000a).

“The ghetto, in short, operates as an ethnoracial prison: it encages a dishonoured and severely curtails the life chances of its members […]. Recall that the ghettos of early modern Europe were typically delimited by high walls with one or more gates which were locked at night and within which Jews had to return before sunset on pain of severe punishment, and that their perimeter was subjected to continuous monitoring by external authorities. Note next the structural and functional homologies with the prison conceptualized as a

judicial ghetto: a jail or a penitentiary is in effect a reserved space which

serves to forcibly confine a legally denigrated population and wherein this latter evolves its distinctive institutions, culture and sullied identity. It is thus formed of the same four fundamental constituents – stigmas, coercion, physical enclosure and organizational parallelism and isolation – that make up a ghetto, and for similar purposes” (Wacquant 2002, 51).

D’altra parte, che esista una stretta relazione – quasi un rapporto (fatalmente) simbiotico – tra i due strumenti è dimostrato dal fatto che, quando, a partire dagli anni Sessanta, a seguito della ristrutturazione economica – che sostituisce alla manifattura servizi knowledge-based e opera nella direzione di un massiccio decentramento produttivo verso i parchi industriali e le periferie - e dell’acquisizione del diritto di voto da parte della popolazione afro -americana, il ghetto perde la sua funzione di riserva di manodopera a basso costo, è l’istituzione carceraria - come i dati sulla sovrarappresentazione della popolazione di colore nelle carceri americane confermano - ad offrirsi come apparato sostitutivo per il contenimento di quei segmenti delle comunità immigrate considerati privi di utilità economica e politica: diventate meno stabili le mura del ghetto, si rafforzano quelle della prigione in quanto strumento preposto al ‘confinamento della differenza’ (Faugeron 1995).

Se il ghetto dell’epoca fordista, infatti, è costruito per essere bacino di lavoro docile ed economico, ed è comunque teatro di forme di organizzazione e protesta messe in atto dai suoi abitanti nei confronti dell’ostilità e dell’esclusione perpetrate dall’esterno, l’outcast ghetto dell’epoca postfordista perde anche questa funzione essendo luogo di convivenza degli esclusi piuttosto che degli sfruttati e dominati, manifestazione evidente del processo di inclusione differenziale promosso dal potere imperiale.

Al suo interno l’esclusione permanente dalla forza lavoro -

hyperpauperization - si somma alla continua discriminazione razziale (Marcuse

1996, 181) e il vuoto creato dal progressivo sgretolamento delle sue istituzioni interne diventa spazio d’azione della burocrazia statale che, quando non può incarcerare, trasforma i suoi apparati – la scuola, per esempio – in dispositivi di custodia e controllo.

“The ghetto converted into an instrument of naked exclusion by the concurrent retrenchment of wage labour and social protection [...], became bound to the jail and prison system by a triple relationship of functional equivalency, structural homology and cultural syncretism, such that they now constitute a single carceral continuum which entraps a redundant population of younger black men (and increasingly women) who circulate in closed circuit between its two poles in a self-perpetuating cycle of social and legal marginality with devastating personal and social consequences” (Wacquant 2002, 52-3).

E’ quanto sostiene anche Wilson (1978 e 1987), riferendosi a processi di segregazione ancora in atto nelle metropoli occidentali: attraverso l’elaborazione della mismatch thesis, egli suggerisce che la marginalizzazione di ampi segmenti di popolazione sia da imputare alla crescente domanda da parte dell’economia urbana di elevati standard di educazione e specializzazione. Il processo di deindustrializzazione produce, cioè, da una parte, un economic mismatch tra i lavori disponibili e le qualificazioni delle minoranze residenti nelle inner-city (Wilson 1987), dall’altra, stimolando il trasferimento verso i quartieri residenziali di periferia della middle class professionalmente qualificata, instabilità delle istituzioni sociali e deterioramento della vita comunitaria.

Il risultato della convergenza di questi due processi, l’aumento della disoccupazione dovuto alla de -industrializzazione e il fallimento delle ‘risorse di comunità’ è il formarsi di una underclass, sempre più isolata socialmente ed economicamente (Yetman 1999, 270) e spazialmente confinata entro il cosiddetto hyperghetto, sorta di ‘prigione a cielo aperto’.

La storia dei ghetti afro-americani, come del resto quella dei ghetti ebraici, conferma allora che non si tratta, come Wirth (1928) e Burgess (Park, Burgess e McKenzie 1925) vorrebbero, di ‘aree naturali’ derivanti da un processo biotico di adattamento all’ambiente.

Il ghetto è, semmai, manifestazione spaziale del quadrillage agito dal potere che fissa ad un’appartenenza artificiale i migranti, volendo privarli, così, di qualsiasi spinta e di qualsiasi divenire. Esso è spazio analitico, clausura, risultato visibile della riduzione identitaria che la biopolitica – opponendo un interno ad un

esterno, un proprio ad un altrui – è in grado di operare , negazione della multiappartenenza che è fondo comune, esperienza senza limiti, terreno fertile per la nascita di un’esistenza pienamente singolare.

Unità omogenea assolutamente artificiale, il ghetto prima e l’hyperghetto poi sono alcuni dei frammenti in cui lo spazio sociale risulta diviso dopo l’intervento livellatore dei micropoteri che, dividendo e separando, rompendone la relazione con l’ambiente, operano nella direzione di una funzionale intercambiabilità degli individui – in questo caso degli immigrati - e dei loro ruoli.

Manifestazione del prevalere della ‘logica del muro’, il ghetto si distingue, perciò, dall’enclave, in cui, infatti, la separazione residenziale è meno netta e la segregazione, in un certo senso, più parziale e ‘porosa’ e, soprattutto, dall’ethnoburb, che, è, invece, spazio sociale trasversale e luogo fisico entro il quale le pratiche dei transmigranti producono autovalorizzazione.