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Chi sei tu, chi sono io? Identità allo specchio

Nel documento Da dove vengono e dove vanno? (pagine 78-84)

3. Cittadini senza cittadinanza?

4.2. Chi sei tu, chi sono io? Identità allo specchio

Come è stato approfondito nel paragrafo introduttivo, uno dei temi centrali nelle ri- flessioni sulle seconde generazioni e al tempo stesso uno dei temi più complessi e sfug- genti da analizzare è proprio quello dell’identità e della sua definizione. Domanda diffi- cile non tanto per gli stranieri ma in quanto tale poiché appunto rimanda ad un concetto, sociologico e psicologico, di difficile definizione e soprattutto descrizione.

Chi siamo noi? Chi sono gli altri?

Queste domande complesse e sfuggenti per noi rischiano di diventare scontate se ri- volte allo straniero perché ci aspettiamo che ci risponda usando la categoria della nazio- nalità: sono peruviano, ecuadoriano, marocchino e così via o al limite che utilizzi le co- siddette categorie delle identità “col trattino”, hyphenated.

Come sottolinea Eve «Il quadro dominante […] dà per scontato che le persone si rap- presentino socialmente in funzione di requisiti culturali legati alla loro appartenenza a popoli o razze, senza studiare i contesti in cui queste rappresentazioni emergono e pre- valgono su altre possibili identità (2013, 44)».

In realtà, il primo dato significativo che si coglie dalle narrazioni degli intervistati è che di fronte alla domanda “come ti definiresti”, qualcuno si è descritto senza fare riferi- mento alla nazionalità ma parlando delle proprie caratteristiche personali o facendo un cenno alla provenienza ma come elemento secondario legato anche ad altre caratteristiche personali:

Sono una persona introversa, però cerco di fare amicizia con le persone che ritengo interessanti, soprattutto dal punto di vista intellettuale. Poi sono una persona un po’ seria, per quanto riguarda il lavoro e lo studio, e queste sono le mie caratteristiche principali; poi tutto il resto sono tutte sfuma- ture. A volte ho una visione troppo ottimistica del mondo, e sono troppo fiducioso.

E i tuoi amici e i tuoi compagni come ti identificano?

Adesso i miei compagni mi vedono come l’alunno perfetto, anche i professori (A., m., Marocco). Se dovessi definire te stessa, come ti descriveresti? Facendo una presentazione di noi stessi, come ti presenteresti?

Se dovessi definire te stesso, come ti definiresti?

Mi sento un ragazzo come ne puoi trovare tanti altri qua, ho la particolarità del colore della pelle, e magari di essere più sensibile verso certi temi, perché lo sono di indole, che mi toccano di più (Z., m., Eritrea).

Se ti dicono “di dove sei tu?”, qual è la prima cosa che ti viene? Di La Spezia (A., f., Albania).

In altri casi invece la nazionalità viene esplicitata chiaramente, ma sarebbe comunque interessante approfondire quanto la risposta sia stata condizionata dal contesto dell’inter- vista dove la condizione di straniero veniva messa in rilievo sin da subito. In questo se- condo gruppo la definizione di sé, auto ed eteropercepita, passa anche attraverso il legame con le origini, in particolare per chi è nato in un Paese straniero e poi è emigrato ma anche per chi è nato in Italia. In queste descrizioni emergono spesso elementi emotivo-affettivi, molto legati (riprendendo le parole degli intervistati) ad un aspetto potremmo dire di le- game simbolico con la Terra di origine o le radici:

Sono peruviano ma mi sento italiano, ma comunque le mie radici sono quelle. Mi sento molto fiero di essere peruviano; poi se mi parli di razzismo, razzismo verso le mie origini, mi arrabbio (L., m., Perù).

Senti ma tu come ti definisci?

Peruviano, io mi sento peruviano e basta. Si può dire anche peruano. Ovvio ho anche delle abitudini europee. Ma io mi sento peruviano semplicemente perché sono nato in Perù. Anche se quando vado là mi vedono come straniero (M., m., Perù).

Se uno ti chiede: “Tu di dove sei” tu gli dici? Italiana, peruviana, italo-peruviana, cosa gli dici?

Del Perù. Molto spesso me lo chiedono, perché lo vedono che sono straniera, però molte persone mi dicono: “Ma tu sei italiana”, ma non lo so, io non mi vedo italiana (M., f., Perù).

Si mescolano comunque appartenenze diverse, la descrizione di sé racchiude tratti molteplici che uniscono appunto riferimenti culturali e nazionali plurimi ma che in ultima

analisi rimandano all’idea di identità costruite su tratti diversi che vanno ben al di là dell’origine nazionale (Caneva 2010; Ambrosini 2016)2.

Il fatto di sentirsi italiani nasce dall’esperienza di socializzazione in Italia (in primis quella scolastica) dall’interiorizzazione di un certo quel modello di comportarsi, agire e pensare che comunque è sempre ancorato anche ad elementi, benché minimali, del paese di origine. Sono soprattutto – come emerge anche dai dati dei questionari – agli aspetti legati alla cucina, al cibo, alla musica, ad una certa estetica che possono coesistere senza conflitti con gli elementi distintivi “dell’italianità”, sono tratti culturali più soft che non solo non entrano in conflitto con altre adesioni valoriali e identitarie ma ben si amalga- mano e trovano un riconoscimento positivo nel contesto italiano3.

Io mi sento comunque italiana, anche perché dei primi 5/6 anni della mia vita mi ricordo poco, gli altri 6 anni li ho vissuti là, ma la maggior parte di quelli che mi ricordo li ho vissuti qua. Anche se comunque non mi va di dimenticare le mie radici […] guarda è strano, però nei cibi, io non so cucinare la roba di giù, tipo il platano, non lo so cucinare, però ogni tanto il mio corpo proprio ne ha bisogno di mangiare il cibo di giù, è stranissimo, mia madre mi prende in giro e mi dice: “Eh, sono le tue radici che ti chiamano […] comunque [mi definirei, ndr] italo-ecuadoriana; perché sono legata a queste due cose (L., f., Ecuador).

Beh, io sono italiana, non c’è dubbio, anche le mie compaesane, quando inizio a parlare arabo si meravigliano, mi è capitato nella casa dello studente che ci fossero queste ragazze tra cui due marocchine e un’algerina che stavano parlando in arabo, e io sono intervenuta ed è stata una sorpresa perché per loro ero italianissima, mi hanno detto: “Sì, potresti avere qualche tratto del viso però sei troppo europea nel modo di fare”, mai avrebbero pensato. Ci sono delle ragazze a Il Cairo che sono molto emancipate e tutto, però evidentemente trasmetto proprio una modalità di re- lazione e di atteggiamento talmente europeo che mai si sognerebbero di pensare che possa essere egiziana […] io non mi sento egiziana, poi ovvio che dato che in casa

2 Per un ulteriore approfondimento bibliografico si veda l’introduzione a questo volume.

3 Si veda la moda per il cibo etnico, per certi generi musicali o stili di abbigliamento che sono valorizzati

mia c’era la cultura egiziana, in realtà ho, soprattutto per quanto riguarda l’alimen- tazione, o cose di estetica, come per esempio ci si fa la ceretta con il caramello, mi sembra un po’ di aver preso il positivo di entrambe (C., f., Egitto).

Questo aspetto si collega con l’uso della lingua; tutti i ragazzi parlano un perfetto italiano ed è interessante notare che per tutti l’italiano è diventata la lingua principale, orale e scritta. Chiaramente qui appare significativa l’età di migrazione; chi è nato in Italia spesso non conosce, se non superficialmente la lingua dei genitori, chi è stato ricongiunto spesso è bilingue con livelli diversi di conoscenza della lingua di origine (parlata e scritta), anche se talvolta la conoscenza della lingua di origine col tempo si perde e diventa meno fluida e spontanea:

Mi viene più facile parlare in italiano. Non è che voglio dimenticare lo spagnolo, solo che penso in italiano e quindi per lo spagnolo ci devo pensare (L., m., Perù). Già sto perdendo la lingua, è strano a dirsi, ma non parlandola più di tanto…

Ma neanche in casa la parlate? Cioè parlate italiano a casa?

Sì, ora ci sta provando mio padre, però non c’è lo stimolo. Studio in italiano, fre- quento persone che parlano italiano, quindi non ho la necessità della lingua. Un po’ con mia madre, ma io le rispondo in italiano. […] La parte scritta, prima scrivevo, ora proprio zero. La parte orale, diciamo che se devo esprimere un concetto fonda- mentale riesco a farlo (J., f., Eritrea).

Penso in italiano, questo sì, ma ascolto anche musica in spagnolo […]. Parlo spa- gnolo solo coi parenti, le cugine e la ragazza che fa servizio civile con me è vene- zuelana, quindi parliamo, poi c’è un ragazzo peruviano. Però se uno non inizia a farmi un discorso in spagnolo, io non lo inizio, non mi viene (L., f., Ecuador).

Ovviamente, come ampiamente analizzato in letteratura, è fondamentale il gioco di specchi tra auto ed eteropercezione e, in particolare, alcuni ragazzi intervistati sono riu- sciti ad esprimere molto bene questo rapporto sottile. Come spiega A. (in questo lungo passo di intervista che abbiamo scelto di riportare perché molto significativo) è l’equili- brio tra la definizione che uno dà di se stesso e il rimando che gli altri restituiscono che

permette di definire una etichetta identitaria chiara. Ciò, però, non è sempre possibile, in alcuni casi l’auto e l’etero percezione non coincidono e diventa necessario escogitare delle strategie di mediazione:

Non ho mai detto di essere italiano.

Cioè tu sei nato in Italia, hai la cittadinanza italiana, ma come ti senti a riguardo?

Senegalese.

Al 100%?

No, dentro di me no, però per gli altri mi definisco senegalese. Per me è complesso come risposta, perché come ho detto andare in Senegal ha i suoi lati positivi e nega- tivi. Però adesso, a 22 anni, non potrei vivere in Senegal. Sono combattuto perché sono nato in Italia, ho mangiato cibo italiano, ho amici italiani, ragazze italiane, però amo il mio paese, il Senegal. Amo il cibo senegalese, amo la cultura, quindi dentro di me sono combattuto, ma in senso positivo.

Dentro di te ti senti da entrambe le parti?

Sì, da entrambe le parti all’interno, però all’esterno dico sempre di essere senegalese.

Quindi diciamo italo-senegalese dentro, e senegalese fuori, estremizzando molto.

Esatto, detto in modo semplice è così.

E perché dici di essere senegalese e non italiano o italo-senegalese?

Perché secondo me gli altri non sono ancora pronti a sentire il termine italo-senega- lese o italiano. L’etichetta è data dalla percezione degli altri, secondo me, e gli altri non mi percepiscono italiano, non ancora, secondo me probabilmente potrebbero percepire i miei nipoti come italiani, non possiamo ancora adesso, per il semplice discorso di prima come esempio dell’afro-americano. L’afro-americano lo è perché è centinaia d’anni che è in America, qua sono pochi anni quindi ci vorrà tanto tempo prima che venga accettata questa cosa qua. Ci vuole un bel po’ di tempo (A., m., Senegal).

In queste riflessioni abbiamo notato che una dimensione sicuramente significativa è data da quei tratti somatici, soprattutto il colore della pelle, che non possono essere mi- metizzati, nascosti e che al tempo stesso richiamano una maggiore ostilità vs. curiosità da parte degli italiani. Ritorna ancora il tema di come oggi sia difficile a livello di percezione

sociale concepire e accettare un italiano nero (Andall 2002) o un italiano i cui tratti so- matici siano palesemente molto distanti dal modello dell’uomo/donna bianco europeo.

Lo sguardo diventa allora uno dei temi dominanti, avere la sensazione di essere guar- dati, osservati in modo particolare, non godere appunto, riprendendo le riflessioni dell’in- troduzione, di quella “disattenzione cortese” di cui parla Goffman, che pertiene al citta- dino nello spazio pubblico:

… Io ti direi italiana perché non ho nulla di eritreo, cioè non saprei cosa dirti di eritreo. Un po’ sì perché comunque ci sono nata e ho in comune alcuni comporta- menti con gli eritrei.

Ma nessuno ti chiede: “Sì, sei italiana ma dove sei nata?” per esempio?

Sì, sì una domanda che fanno spesso è: “Ma sei stata adottata?”, sai a volte mi vedono in giro con Nadia [amica di famiglia italiana, ndr] e pensano che sia adottata (J., f., Eritrea).

Recentemente ho portato un gruppo di ragazzi al mare, siamo andati a Bogliasco, dieci ragazzi africani bellissimi, tutti che ci guardavano, mi sentivo a disagio pure io. A un certo punto poi te ne freghi, ma lo sguardo lo senti addosso, lo senti che qualcuno ti sta osservando. Io faccio lezione con un ragazzo senegalese, sempre nel centro, che ha fatto diversi lavori, nei ristoranti, nei bar, e gli ho detto: “Ma tu sei mai stato a un bar?” e lui “Sì una volta” e io “Ah, cosa hai preso?” e lui “Un cappuc- cino”, e io: “Ah, e dove?”, e lui: “Al bar a De Ferrari quando esci dalla metropolitana, ma non l’ho bevuto” e io “E perché?” “Perché sono entrato e ho ordinato un cappuc- cino, ma la gente mi fissava, così ho lasciato i soldi e me ne sono andato”, io stavo per mettermi a piangere. Lo senti che ti guardano (L., f., Ecuador).

Un ultimo elemento di riflessione, che verrà poi ripreso nel capitolo successivo, ri- manda al significato che i ragazzi attribuiscono a questi eventi; alcuni infatti parlano chia- ramente di razzismo, di subire cioè un trattamento diseguale perché hanno un colore o dei tratti somatici diversi. È molto interessante vedere come essi usino la strategia dell’ironia e del distacco, della superiorità culturale per non entrare in conflitto, per non lasciarsi trascinare nella discussione. Forti del loro elevato capitale culturale molti interpretano

questi comportamenti come frutto di ignoranza e limitatezza e provano a ribaltare i ter- mini del discorso, a rifiutare il ruolo di vittime rivendicando una superiorità intellettuale:

Tante volte che magari ci sono persone che parlano in genovese, io non lo so parlare ma lo capisco, e magari parlavano e mi insultavano, e io dicevo sempre la stessa cosa “signora la razza è la mexima (la stessa)” e me ne andavo cosi. E la signora senza parole, ed è divertente. È una lotta quotidiana però è divertente, ed è più bello che affrontarla con: “Eh, mi ha detto negro adesso mi incazzo, lo picchio, e su e giù”, ma no non c’è tempo per queste cose. Divertiamoci un po’ di più. Sei ignorante? Eh va bene, divertiamoci sulla tua ignoranza. È un po’ brutto detto così (A., m., Senegal 22 anni).

Non dimostrando di essere straniera, la gente se non legge il mio nome non lo sa che sono straniera, quindi non ho mai avuto problemi di questo tipo. Però non diretta- mente su di me, so di altre persone che comunque, però nella mia vita sicuramente ho visto del razzismo.

E, visto che tu dici: “Io non sembro albanese”, ti è mai capitato di persone che parlando con te parlavano male?

Molto, spesso, soprattutto in autobus. A volte sono stata zitta e ho fatto parlare, non avevo voglia, altre invece, c’era questa persona particolarmente razzista, che tutti i luoghi comuni esistenti sugli immigrati li ha messi in mezzo, quindi alla fine gli ho detto: “Guardi che lei ne parla con un’albanese quindi”, si è scusata ed è finita lì. Mi diverto, soprattutto in autobus, ora lo prendo poco non andando più a scuola a La Spezia, ma prima lo prendevo tutti i giorni e mi divertivo molto a sentire quello che dicevano (A., f., Albania).

Nei paragrafi successivi affronteremo più in dettaglio alcuni di questi aspetti e in par- ticolare l’effetto e il significato attribuito ai comportamenti razzisti.

Nel documento Da dove vengono e dove vanno? (pagine 78-84)