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Il ballo di Palazzo Labia: un’onta tutta italiana

2. LA SPETTACOLARIZZAZIONE DEL SÉ NEL TRAVESTITISMO

2.3 S UL PALCOSCENICO DELLA VITA TRA BALLI , MASCHERE E FOTOGRAFIE

2.3.1 I balli in maschera

2.3.1.1 Il ballo di Palazzo Labia: un’onta tutta italiana

Ci siamo approcciati alla questione performativa della vita -comprendente per l’appunto i balli in maschera e, come vedremo, le foto-, per lo scioglimento della questione critica, tutta made in Italy, secondo la quale alcune venature creative, performative e spettacolari finiane vennero etichettate come sintomatiche di una qualche frivolezza artistica.

Che i balli in maschera non vadano considerati entro quest’ottica, è stato dimostrato precedentemente: difatti, rendendo note le modalità di dialogo fra le arti, si è avuta la prova di come sia necessario tracciare un pomerium che inglobi entro la città artistica finiana, -quella nobile, autorevole-, anche le varie pratiche performative e travestitive messe in atto, alcune delle quali anticipatorie della performance.

Tuttavia, nel bel mezzo costumi, maschere e balli, ve n’è uno che certamente si può additare come il maggiore responsabile della criticità negativa rispetto all’artista triestina: stiamo parlando del Ballo di Palazzo Labia o Bal Oriental, conosciuto anche come bal du siècle, tenutosi a Venezia per volere di Carlos de Beistegui300 il 3 settembre del 1951. A ospitare l’evento, fu un luogo dalla suggestiva incantevolezza

300 Don Carlos de Beistegui y de Yturbe (1895-1970), conosciuto anche come Charlie de Beistegui, apparteneva a un’importante famiglia ispano-messicana trasferitasi in Francia. Raffinato e impregnato di gusto europeo, cresciuto fra amanti e cultori di opere d’arte –uno su tutti lo zio, ì proprietario di una vasta collezione di dipinti che lasciò in dono al Louvre- fu lui stesso pervaso da uno spiccato senso per la perfezione estetica tradotta anche nello stile di vita. A Parigi, egli risiedette in rue de Constantine; come si ricorda nel testo Fabrizio Clerici nel centenario della nascita 1913-2013, Leonor Fini, insieme a Jean Cocteau e Coco Chanel fu un’assidua frequentatrice del suo appartamento parigino.

scenografica: trattasi del salone affrescato col Banchetto di Cleopatra per mano di Giambattista Tiepolo, situato per l’appunto all’interno di Palazzo Labia, edificio che Beistegui acquistò e del quale si occupò in prima persona del restauro e dell’allestimento interno301. La fête des fêtes, come spesso venne ricordata, ebbe come

tema il più logico per quel fascinoso scenario: la Venezia di Longhi e Casanova302; torna dunque, la ripetizione di un leitmotiv in toto mondano, ma, allo stesso tempo, cosparso di una bellezza perfetta e apollinea, come del resto tale era stata la Venezia Settecentesca entro cui si respiravano gli ultimi aliti della grande Repubblica della Serenissima. Numerosissimi e soprattutto rigorosamente selezionati, furono gli invitati, che arrivarono da tutta Europa: fra questi, Lady Churchill, l’Aga Khan e Caterina di Russia303; e poi ancora, numerosi artisti, fra i quali spiccarono Salvador Dalì304 e sua

moglie Gala, e, non da ultimo, Leonor Fini, vestita per quell’occasione da meraviglioso Angelo Nero, accompagnata da Fabrizio Clerici. Per l’occasione furono recapitati oltre tremila inviti, molti dei quali vennero falsificati, tanto che Beistegui fu costretto a rifarli

ex novo305.

La stampa dell’epoca dedicò molti articoli al ballo di Palazzo Labia, motivo per il quale la ricostruzione documentaria dell’evento è risultata essere agile, dimostrando un risultato che -si spera sia- ampiamente esaustivo. Secondo quanto riportato dalle cronache di allora, la serata venne divisa in due parti: la prima fu dedicata alle entrées, la seconda ai balli e ai divertimenti306. Le entrées, comprendenti un certo numero di persone che sceglievano di fare l’ingresso al bal du siècle in maniera collettiva, potevano essere accostati a «quadri di soggetto diverso, di costo favoloso, di bellezza

fiabesca che si presentavano uno dopo l’altro nel salone»307. Inoltre un altro dettaglio

301 J. L. de FAUCIGNY-LUCINGE, op. cit. p. 85 302 Ibidem

303 Ibidem

304 All’interno della mostra Salvador Dalì l’uomo, l’ artista tenutasi al Complesso del Vittoriano di Roma dal 10 marzo al 30 giugno 2012, un’intera ala venne dedicata proprio alla partecipazione di Dalì e Gala al ballo di Beistegui. Numerosi furono gli spogli, con articoli relativi all’evento, esposti in mostra, unitamente ai costumi indossati dall’artista spagnolo e da sua moglie. Per approfondimenti, si veda M. AGUER, L. MATTARELLA (a cura di), Dalì un artista un genio, catalogo della mostra, Skira, Milano, 2012

305 Venezia ha rivissuto una notte del Settecento, in «Oggi», 13 settembre 1951, p. 9 306 Ibidem

117 che desumiamo dalla stampa del tempo308, è quello riguardante la presenza di un accompagnamento musicale per ciascuna entrée: ognuno di questi, fu scelto da George de Chavchavadze309 mentre per le entrate singole vennero suonate delle arie.

Nella recente monografia su Fabrizio Clerici310, comprendente saggi di autorevoli personalità della cultura artistica del XX secolo -fra questi, Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Federico Zeri, Gillo Dorfles, etc-, non viene giustamente a meno la menzione di tale evento, sul quale Giancarlo Renzetti riporta un dialogo sviluppatosi nel 1986311 fra lui, Leonor Fini e lo stesso Clerici. Riferiamo in questa sede, i frammenti più significativi di questo affascinante colloquio intellettuale; essi possono essere facilmente fraintesi ed essere letti quali segni dimostrativi di una semiotica frivola e mondana. Di questo del resto, ne era ben cosciente Clerici –come probabilmente anche la stessa Fini-, il quale, nella chiacchierata con Renzetti, non si risparmiò di ricordare il ballo come: «un avvenimento memorabile, entrato nella storia dei balli e delle feste tra

i più sorprendenti e forse inutili del Novecento»312. Clerici descrisse l’evento come «un avvenimento mondano, importante ma contrastato dalle classi meno abbienti313, che vedevano nell’ostentazione della ricchezza uno spreco inutile. Anche la chiesa cattolica non fu da meno»314. Ed egli proseguì, raccontando a Renzetti di come quella sera, lui, Dior e Leonor Fini –alla quale qualcuno tentò di strappare via un’ala del costume-, furono quasi aggrediti da una folla furibonda che, ancora turbata e ferita dai dolori insanabili della guerra conclusasi pochi anni prima, ben poco aveva a che spartire con la magnificenza del bal du siècle.

308 G. BERTI, M. RENDINA, F. SERRA, “Gettate zecchini” gridava la folla sotto le finestre, in «La Settimana Illustrata Incom», 08 settembre 1951, p. 5

309 George de Chavchavadze (1904-1962), fu un noto pianista russo

310 Cfr. Archivio Fabrizio Clerici (a cura di), Fabrizio Clerici nel centenario della nascita 1913-2013, Skira, Milano, 2013

311 Scrive Renzetti: «Durante una di queste visite movimentate all’appartamento-studio di rue de la Vrillière, nel 1986, ebbe luogo la nostra conversazione sul “ballo del secolo”. [...]L’interesse per quel ballo mi era stato stimolato da alcune foto che possedeva Fabrizio, lui vestito di blu e d’argento con una maschera di legno, lei di nero», Cfr. E. RENZETTI, “Maschere e domino. Conversazioni con Fabrizio Clerici, Leonor Fini e Marina Cicogna” in Ivi, p. 112

312 Ivi, p. 113

313 A conferma di ciò, basti la menzione del titolo di un articolo precedentemente citato, apparso nella Settimana Incom Illustrata (“Gettate zecchini” gridava la folla sotto le finestre) dal quale si avverte il sentimento di malcontento di cui parla Clerici.

Addentrandoci nello specifico terreno finiano, ritroviamo tre substrati artistici aventi come comune denominatore ancora una volta il travestimento. Essi, i quali sembrano aver trovato la loro culla uterina entro il ballo di Palazzo Labia, furono costituiti da: il costume per l’evento, l’esposizione personale che l’artista tenne dal 2 al 15 settembre 1951 al Museo Correr di Venezia e, infine, i costumi realizzati per il balletto Orfeo, la cui prima si ebbe il 19 settembre del 1951 presso il Teatro la Fenice. Un medesimo segmento temporale dunque, sviluppatosi per intero nel settembre del 1951 entro la cornice veneziana, il quale sembra toccare tre diversi punti, specchi questi di differenti pratiche artistiche.

Riguardo il primo substrato, ossia il costume per il ballo di Palazzo Labia, la metodologia di ricerca ha proceduto analizzando la stampa dell’epoca, poiché, come assunto precedentemente, l’evento fu ripreso e documentato da numerosi giornali. In primo luogo, quel che balza all’attenzione è il fatto che il costume di Leonor Fini, in quasi tutti gli articoli del tempo, non mancò di essere identificato come uno dei più sorprendenti e sensazionali tra quelli indossati dagli invitati al ballo. La diciottesima

entrée –ossia quella formata dall’artista, da Clerici e da Dior315- fu una delle più superbe poiché «Ammiratissima è stata la pittrice Leonor Fini, la quale indossava un abito di

piume nere»316. Jacques Audiberti invece, raccontò l’epilogo della serata e in particolare del momento in cui la Fini, un volta terminata la festa, ripose le ali da angelo nero con un gesto che fu «il più naturale e il meno premeditato»317; egli descrisse queste come:

«grandi ali nere di aquila dominatrice, fatte in piume ben ordinate, ma dove pure dei peli sarebbero appuntati. Li ho visti. Alcuni raggiungevano i quaranta centimetri. Che queste ali fossero fatte per il ballo, non prova nulla, null’altro che il ballo doveva aver luogo perché noi potessimo vedere e toccare una buona volta queste mostruose appendici, prova evidente della natura elementare e poetica assieme della nostra artista»318.

Nel colloquio tenutosi fra Renzetti, Clerici e Fini emerge la descrizione immaginativa del costume da angelo nero (Figg. 54-55-56); tuttavia, in quest’occasione, l’artefice di tale enunciazione dialettica fu la stessa artista, la quale, rivolgendosi a Renzetti, disse che il costume si caratterizzava per essere:

315 La corretta composizione dell’entrée la apprendiamo dalle parole di Eros Renzetti. Cfr. E. RENZETTI, op. cit. 113

316 Venezia ha rivissuto...op. cit. p. 9

317 J. AUDIBERTI, Leonor angelo nero, in «Epoca», 22 settembre 1951, p. 56 318 Ibidem

119 «Nero, come le foto che vedi! Con due tipi di stoffe plissées, lucide e opache; le piume mi erano arrivate a Parigi da Roma, da una modista mia amica di via Gregoriana319. Erano

state composte, su mio disegno, da un costumista che lavorava all’Olympia»320.

Il travestimento da angelo nero – creatura misteriosa e affascinante il cui habitat erano le tenebre, le notti spaventose e dalle tinte fosche, che di contro ben poca assonanza aveva con lo sfavillante secolo dei Lumi che Beistegui voleva rappresentare al suo ballo-, permase nella memoria della carta stampata italiana, sia in positivo che in negativo. Liana Bortolon321, dopo ben undici anni, non mancò di ricordare quella notte a Palazzo Labia: «A Venezia, a una festa a palazzo Labia, indossò una fastosa veste nera

con un paio di grandi ali, da angelo della notte»322.

Benché per l’appunto, la ricerca abbia evidenziato nella stampa italiana un rimarchevole stupore alla vista di codesto travestimento, in questa sede si vuole dichiarare come, in realtà, il costume da angelo nero non fu di certo più stupefacente e fastoso rispetto a quelli indossati alle precedenti feste parigine. L’unico elemento di novità furono infatti le ali, nonostante l’assemblaggio delle piume per nulla abbia differito da quello messo in atto per la costituzione delle maschere indossate in altre occasioni. Lo stupore in realtà, fu dettato da implicazioni di carattere più che altro antropologico e storico: l’Italia del dopoguerra, per nulla abituata al fasto proprio del

dèguisement made in France, accolse per la prima volta nel suo territorio un evento di

tale portata. Una festa in cui ogni elemento che la andava a comporre e caratterizzare, esisteva solo e soltanto alla luce di implicazioni puramente dilettevoli e fastosamente scanzonate. Lo stupore per il costume di Leonor Fini, insomma, fu direttamente

319 Il riferimento è con tutta probabilità a Simonetta Colonna di Cesarò (1922-2013), famosa per essere stata la designer di nicchia del jet set internazionale degli anni Cinquanta e Sessanta. Risiedeva in via Gregoriana –dove tutt’ora abita la figlia, con la quale ho avuto modo di parlare durante lo sviluppo della ricerca- e fondò, negli anni Settanta, la celebre casa di moda Simonetta & Fabiani. Fu profondamente legata alla Fini, con la quale condivideva molti interessi e per la quale posò per un ritratto.

320 E. RENZETTI, op. cit. p. 113

321 L’articolo della Bortolon è l’unico italiano che menzionò qualche festa in maschera –oltre quella di Venezia- alla quale prese parte Leonor Fini. Fra queste, il ballo del conte di Beaumont al quale «Leonor Fini si presentò come Persefone regina dell’inferno; in casa dello scultore Sforzino Sforza, sempre nella capitale francese, apparve travestita da civetta, a Roma mise sul viso una maschera da gufo e un’altra volta si trasformò in sfinge». Tuttavia la Bortolon, sembra sempre non volersi mai sbilanciare, tanto che a tratti ella dà l’impressione di essere combattuta fra il voler dare un parere positivo sull’artista e, invece, l’etichetizzazione spicciola e superficiale. Alla fine quest’ultimo atteggiamento avrà la meglio, e la giornalista non mancherà di sottolineare la “stravaganza” finiana.

322 L. BORTOLON, Un tempo in Corsica la credevano una strega, in «Grazia», n° 1122, 19 agosto 1962, p. 64

proporzionale a quello provato nei confronti di tutto l’evento, che, come abbiamo visto, non fu di certo ben accolto dal popolo. Se difatti la Francia del dopoguerra vedeva le feste in maschera come un’occasione di riscatto nonché come un mezzo atto a rivendicare il primato del prestigio parigino sul resto delle capitali europee, l’Italia era sintonizzata su tutta un’altra linea d’onda, nella quale non vi era spazio per il divertimento mondano né tanto meno per artisti come Leonor Fini, che dello stupore e della magniloquenza fecero il proprio alfabeto creativo.

Abbiamo visto come, procedendo entro la traiettoria del ballo di palazzo Labia, sia rimarchevole all’interno di essa anche l’inclusione di due ulteriori eventi artistici, considerevoli anch’essi per quel che concerne il tema del costume e del travestimento. Trattasi, come è stato precedentemente detto, della mostra personale di Leonor Fini tenutasi nel settembre del 1951 al Museo Correr di Venezia e della messa in scena del balletto Orfeo entro il medesimo mese e anno.

La teatralità e il gusto per il decoro sono, in questi due eventi, espressi in maniera totalmente differente: nell’esposizione infatti, a essere presente è una teatralità dell’animo; nei costumi per il balletto invece, è una teatralità che prende forma nella realtà stessa. Vediamo di esprimere meglio questo concetto attraverso il testo di Jean Cocteau che fece da presentazione per l’esposizione finiana323; (Fig. 57); ecco quello che il drammaturgo francese amico della Fini, scrisse in quell’occasione:

«Leonor Fini résume, dans son réalisme irréel, toute une période récente dont le plus vrai que le vrai sera le signe. Elle y ajoute ses propres racines d’énigme et de tragique. Pareille à la rose rouge qui pompe la terre des morts, elle dresse avec insolence une jolie bouche profinde. Et jusqu’à son nom nous évoque soit une Gradiva, soit une des héroines divines d’Edgar Poe. Au reste, sa personne expose une petite tete de mort, une petite figure de Sphinge qui témoigne du peu d’artifice dont elle use. Tout ce surnaturel lui est naturel. On ne saurait imaginer d’autres acteurs, ni d’autres décors, que ceux qu’elle tire du theatre de son ame»324.

323 J. COCTEAU, Tout ce surnaturel lui est naturel, texte de presentation de l’exposition de Leonor Fini au Museo Correr à Venise en 1951, in J. AUDIBERTI, Y. BONNEFOY, V. BRAUNER ET AL, Leonor Fini, Éditions Hervas, Paris, 1951

324 «Leonor Fini riassume nel suo realismo irreale, tutto un periodo recente di cui il più vero del vero sarà il segno. Lei aggiunge le sue radici d’enigma e di tragico. Simile alla rosa rossa che pompa la terra dei morti, lei si trova con insolenza una bella bocca profonda. E anche il suo nome ci evoca che sia una Gradiva, sia un’eroina divina di Edgar Poe. Inoltre, la sua persona espone una piccola testa di morto, una piccola figura della Sfinge che riflette il piccolo artificio che lei indossa. Tutto questo soprannaturale è naturale. Non si possono immaginare altri attori, né altri decori, se non quelli che lei richiama dal teatro della sua anima». Ibidem, p. 16

121 Cocteau parlò per l’appunto, di «teatro della sua anima», intendendo con tale definizione un vero e proprio spettacolo dell’intima psiche, nato nell’interiorità dell’artista –generatosi, come abbiamo visto precedentemente, dalle immagini racchiuse nella sua memoria- e successivamente manifestato mediante segni che altro non sono che costituenti della pittura. Identificò l’arte della Fini come testimonianza di un «realismo irreale», inquadrando probabilmente in esso evocazioni memoriali e dunque reali, raggruppate entro il teatro dell’anima; esse emergono per davvero se pur nella loro irrealtà, con un inquietante e affascinante realismo. Dunque, allo stesso modo del teatro, Leonor Fini descrive nell’irrealtà della pittura una lavagna reale, colma di segni e simboli, che altro che non sono che piccole tessere del suo mosaico memoriale.

La teatralità, unitamente al travestimento, compie un percorso; un cammino che, dopo essere nato nell’anima dell’artista, abbiamo visto che attraversa i sentieri della pittura, giungendo alla fine ad una manifesta materialità reale che trova la sua corporeità nella costumistica. Essa può essere esibita ai balli, ed essere dunque destinata solo a se stessa, oppure può essere creata artificiosamente per uno spettacolo reale. Nel primo caso è un costume reale proiettato nell’irrealtà fastosa; nel secondo caso, è un costume irreale nella realtà dello spettacolo.

Ed ecco che, a Venezia, in quel settembre del 1951, questa materialità affiorò, e prima nel travestimento per il ballo a Palazzo Labia, e dopo nei costumi per l’Orfeo. Sul primo, già abbiamo disquisito; sul secondo, è necessario invece spendere qualche parola, in primis inquadrando lo spettacolo stesso.

Esso consistette in una cantata coreografica su musica di Roberto Lupi tratta da Le

Georgiche di Virgilio, andata in scena presso il teatro la Fenice di Venezia il 19

settembre 1951. La coreografia fu di Janine Charrat, la quale danzò pure nello spettacolo col ruolo della lamentatrice. Nell’Archivio online del teatro La Fenice325, si è avuto modo di rinvenire la locandina dell’evento, la quale ha dimostrato che lo spettacolo fece parte di una triade di eventi –fra questi, La Clementina e La commedia

sul ponte-, organizzati nell’ambito del XIV Festival Internazionale di Musica

Contemporanea. La Fini lavorò ai costumi e alle scene per Orfeo, dando vita anche in quest’occasione ad una magistrale elaborazione del suo teatro intimo. Nell’ambito della

ricerca documentaria, è stata rinvenuta a questo proposito, un’interessante testimonianza di Iréne Lidova326, produttrice dello spettacolo; fu lei stessa a convocare l’artista triestina, e ne ricordò così il suo superbo lavoro:

«Disegnò per Orfeo una scenografia fantastica: una specie di grotta strana e misteriosa, grondante di mostri e di piante rampicanti. Orfeo doveva scendere in questa grotta lottando con la Ménade minacciosa. I tre costumi ideati dalla Fini erano altrettanto inusitati, fatti esclusivamente di piume e realizzati da una certa Madama Parfan, una vera artista nel suo genre, che creava le acconciature piumate delle ragazze delle Folies Bergère. Orfeo-Miskovich indossava una pelle di belva grigia e nera, fatta a ciuffi incollati su una base di tulle, che pesava in tutto qualche decina di grammi. Euridice- Pagava era acconciata con una voluminosa parrucca di piume nere327 guarnita di fiori

bianchi»328.

Di questi supremi lavori per Lupi, che vanno a chiudere una triade artistica che, come abbiamo constatato, trovò la sua alba entro i cieli veneziani degli anni Cinquanta, abbiamo rinvenuto due fotografie molto interessanti: trattasi non di scatti di scena, ma bensì di testimonianze che vedono l’artista operare direttamente sul costume assieme al danzatore. La prima di queste foto, è di Serge Lido e va a corredare la testimonianza di Iréne Lidova pubblicata su «Balletto Oggi». Lo scatto329 rappresenta l’artista triestina

intenta a studiare il costume da lamentatrice di Janine Charrat, e in particolare a elaborarne il copricapo. La seconda fotografia fa parte invece dell’articolo di Jacques Audiberti per «Epoca». Ivi330, Leonor Fini, immortalata con lo sguardo vigile verso la camera, sta aiutando il ballerino protagonista Milorad Miskovich ad indossare, forse per

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