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Leonor Fini: musa in costume per grandi fotografi

2. LA SPETTACOLARIZZAZIONE DEL SÉ NEL TRAVESTITISMO

2.3 S UL PALCOSCENICO DELLA VITA TRA BALLI , MASCHERE E FOTOGRAFIE

2.3.2 Leonor Fini: musa in costume per grandi fotografi

Un folto gruppo di coloro che si sono occupati334 dell’arte di Leonor Fini, rimarcò sovente la profonda inclinazione dell’artista riguardo il posare per l’obiettivo di numerosi fotografi335, alcuni dei quali possono essere annoverati fra i più grandi del XX secolo.

In un’ottica di rilettura totale della vicenda critica, che vede come maggiori incriminate per l’immagine negativa di Leonor Fini in Italia quelle che abbiamo chiamato “performance della vita”, dalle quali scaturisce la mancata comprensione dell’unitarietà artista-personaggio, non si deve assolutamente eludere il discorso sulla fotografia; essa anzi deve essere intesa, alla pari dei balli in maschera, come performance della vita essa stessa. I motivi che consentono di classificarla come tale, sono presto detti: allo stesso modo infatti dei travestimenti operati per i bals masqué, anche le foto risultano essere fondamentali per la sancizzazione dello spirito artistico finiano, se pur in maniera difforme rispetto ai balli.

Si vuole puntualizzare tuttavia, che ivi non verrà proposto un mero elenco di scatti di cui Leonor Fini fu musa indiscussa, bensì si cercherà di dimostrare come il travestimento sia penetrato in ogni attività performativa della vita dell’artista, condizionandone e reggendone le redini come se si assistesse ad un gioco artistico dalle libere regole.

Per introdurre questa problematica, è stato necessario intraprendere una schematizzazione, combaciante in toto con un’esaustiva semplificazione, delle foto di cui Leonor Fini posò come modella per i più celebri fotografi del XX secolo. Osservando il materiale fotografico difatti, esso sembra avvalersi del diritto di essere scisso in due distinte tipologie: la prima di esse deve essere letta parallelamente ai balli in maschera, entro una sorta di doppio binario che conduce inesorabilmente alla

damnatio memoriae della nostra artista; la seconda è invece la fotografia propriamente

334 Fra questi, possono essere inclusi in special modo Vanja Strukelj e Maria Masau Dan per quel che concerne i loro contributi al catalogo della mostra Leonor Fini l’italienne de Paris (2009) e l’art&dossier sull’artista, edito da Giunti nel 2010.

335 Fra coloro che fotografarono Leonor Fini, possiamo menzionare Wanda Wulz, Henri Cartier Bresson, Cecil Beaton, Man Ray.

detta, sensuale ed erotica con una Leonor Fini regista della scena, della quale però è anche unica e principale attrice.

Per quel che concerne la prima tipologia, è il travestimento a richiamare l’attenzione dell’artista verso l’obiettivo del fotografo e, conseguentemente, a far sì che vi sia una sua compartecipazione all’evento; un fenomeno dunque identico a quello sviluppatosi nell’ambito dei balli in maschera ove è il costume a fare da richiamo per la partecipazione alle feste parigine. Nella seconda tipologia invece, il movente è di tutt’altro genere e si riflette nell’interesse per l’autorappresentazione di se stessa336.

Riguardo le foto della prima tipologia, esse possiedono –come anticipato poc’anzi-, un filo conduttore che le lega ai balli in maschera, del quale tiene ineluttabilmente le redini il fotografo André Ostier337.

Artefice di una moltitudine di scatti ripresi proprio durante i vari bals masqué, non mancò giustamente di immortalare l’artista triestina, la quale –come abbiamo avuto modo di notare nel precedente paragrafo- spesso si distinse nel corso di questi eventi proprio per i suoi creativi travestimenti. Sono di paternità Osteriana del resto, le stupende foto che andarono a corredare il testo di André Pieyre de Mandiargues,

Masques de Leonor Fini, opera che è risultata capitale per lo sviluppo del paragrafo sui

balli in maschera. Si può asserire che quella capacità di elargire potenza e mistero allo sguardo finiano al di sotto della maschera scarlatta da gatto, si sposi perfettamente con l’attitudine di Leonor Fini per il dipingere in maniera autorappresentativa la stessa identica declinazione espressiva, aggettivata come composta ed ambigua, spaventosa e seduttiva. I due possedettero dunque la stessa linea operativa, l’uno nella fotografia, l’altra nella pittura, collocando i loro lavori entro uno scenario spettacolare ed effimero. Di tutto questo, quel che attrasse l’artista triestina -non dimentichiamo-, fu il travestimento, unica ragione del resto per la quale dichiarò di aver partecipato ai balli in

336 La tematica del resto, ben si relaziona alla propensione di Leonor Fini per l’autoritratto, argomento questo che non si potrà affrontare in questa sede. Tuttavia numerosi studi sono stati elaborati a riguardo, il più completo dei quali in occasione della mostra triestina del 2009. Si rimanda perciò, al saggio di Luisa Crusvar, “La potenza dello sguardo negli autoritratti e nei ritratti dagli anni Trenta agli anni Cinquanta”, in AAVV, Leonor Fini l’italienne...op. cit. pp. 43-49

337 André Ostier (1906-1994), è stato un fotografo francese particolarmente conosciuto per gli scatti ad artisti tra i quali spiccano Mirò, Picasso, Bonnard, nonché per essere stato il maggior “reporter” della vita mondana parigina degli anni Cinquanta e Sessanta. Fra i personaggi da lui immortalati, possiamo menzionare Yves Saint Laurent, Coco Chanel, Elsa Schiaparelli, Paul Valéry, Carlos de Beistegui, Jean Genet, Jean Cocteau.

127 maschera338. In questi scatti difatti, la coniugazione costumistica risulta essere funzionale alla fotografia, nonché motivo dominante dello scatto stesso; questo concetto ha una valenza profonda giacché testimone del fatto che la fotografia si originò poiché vi fu in atto un travestimento; allo stesso tempo quest’ultimo, finisce per distogliere l’attenzione dallo scatto stesso di Ostier, perfetto anche da un punto di vista formale. Il risultato che ne consegue è che non solo l’obiettivo del fotografo è stato soddisfatto, ma soprattutto lo è quello dell’eccentrica artista, la quale trovò appagamento nel calamitare su stessa l’attenzione collettiva.

Precedentemente si è menzionata l’esistenza di un’ulteriore tipologia fotografica, la quale è stata definita come “propriamente detta”. In questo insieme di scatti, a destare l’interesse è solo la personalità dell’artista triestina, denudata di un qualunque travestimento e recisa di una qualsivoglia maschera, un estro che appare scenografico esso stesso nella sua singolarità, e che, per risultare tale, non ha bisogno né di maschere né di costumi. Si tratta di scatti in cui la sensualità è condotta al suo vertice estremo e nei quali vi è la delicata esaltazione di un soffice erotismo, il tutto declinato entro la sua definizione più pura. In questa tipologia, si sviluppa un cammino progressivo dal punto di vista della canonicità dello scatto: si inizia, difatti, con l’ordinarietà della foto di Wanda Wulz (Fig. 58) del 1928, priva di qualunque teatralità339 ma già interessante per la capacità dell’artista di polarizzare verso se stessa l’interesse dello spettatore, il quale viene soggiogato del suo sguardo apparentemente innocente; si raggiunge poi l’apice della declinazione espressiva della musa fotografica finiana con gli scatti di Henri Cartier Bresson del 1932, sui quali apriremo una breve parentesi nelle prossime righe. Il cerchio di questa seconda tipologia infine, può dirsi concluso con uno scatto di Man Ray (1936) e con uno di Georges Platt Lynes (1936), il quale pochi anni dopo scoprirà l’amore per l’immortalare il corpo nudo maschile.

Per quel che concerne le foto bressoniane, è ragguardevole l’articolazione di esse entro due nuclei: nel primo è lo sguardo della Fini a catturare lo spettatore; nel secondo è invece il suo corpo.

338 «L’occasion de se costumer fut la seule raison pour moi d’aller à des bals, à l’époque de leur apogée,

juste après la guerre». Cfr. L. FINI, Mes théâtres, in «Corps écrit. Théâtres», n° 10, 1984, pp. 31-33

In seno al primo gruppo, è possibile racchiudere due scatti, entrambi del 1932, nei quali è messa in risalto la potenza per l’appunto dello sguardo. In tali fotografie, quest’ultimo risulta in antitesi in primis con quello inesistente del manichino de chirichiano presente nello scenario immortalato (Fig. 59), e, in seconda battuta, con quello altrettanto assente della bambola innalzata al cielo dall’artista nel secondo scatto –un omaggio forse, al film La corazzata Potemkin340-. Entrambe le scene, condite di

una teatralità inquietante, trasudano di una drammaticità oggettiva e senza tempo, localizzata entro uno spazio dal retrogusto metafisico. E’ una drammaticità però, cosparsa di ambiguità per via dello sguardo finiano, che a tratti può apparire tremendo e minaccioso, e a tratti seduttivo. E dunque, ancora una volta, ci troviamo davanti ad una Leonor Fini che ci confonde e ci rende deboli, persi e smarriti entro la profondità del suo sguardo ambiguo e seducente.

Nel secondo nucleo di scatti bressoniani –che dal punto di vista fotografico sono senza dubbio più interessanti dei precedenti- possiamo annoverare tutta la serie di foto che videro come protagonisti Leonor Fini e Andre Pieyre de Mandiargues. Tale corpus fotografico – uno dei primi esperimenti di Bresson - fu concepito nell’estate del 1932 a Trieste ed è straordinario per la naturalezza con la quale egli riprese i due amanti (Fig. 60). Lo scatto è preso dall’alto: l’obiettivo bressoniano si rivolge verso la limpida acqua marina triestina che accoglie i corpi intrecciati di Leonor Fini e Mandiargues; sono scatti in cui viene messo in risalto il corpo dell’artista, il quale sembra nascere dalle acque e ivi perdersi. Esso dà vita ad un bioritmo perfetto con esse, un bioritmo che sembra trovare il suo equilibrio anche grazie alle gambe incrociate che vengono immortalate qui quasi come se fossero delle “sezioni” corporee. Inconsapevolmente in questi scatti, Bresson racchiuse tutta la poetica finiana: l’idea di nascita e rinascita dalle acque, nonché quella della morte –che viene richiamata dalle gambe quasi “sezionate” nello scatto; la tematica del femminino, ma soprattutto il rapporto quasi corporale e metamorfico che Leonor Fini ebbe con la natura, una relazione questa che bene si evidenzierà negli scatti di Eddy Brofferio a Nonza negli anni Sessanta e Settanta.

Leonor Fini in tali fotografie riuscì inoltre nell’impresa di cancellare, senza alcuna problematicità, la presenza di Mandiargues: allo stesso modo delle sue tele in cui la

129 figura femminile dominò senza riserve su quella maschile, l’artista, grazie non solo ad una scontata seduttività femminile che si coniugò nell’ovvia bellezza corporea, ma soprattutto per merito della sua capacità di apparire come figlia appena partorita dalle limpide acque, riuscì a concentrare l’attenzione su stessa. Lo fece, anche in questo caso, con un tenore dal ritmo ambiguo e subdolo: in quanto creatura che nasce dalle acque e con esse si metamorfizza, essa può essere guardata e ammirata, senza per questo dover essere necessariamente un richiamo sessuale.

Come è stato asserito in precedenza, con le foto di Cartier-Bresson l’apice della declinazione espressiva della musa finiana è stato raggiunto nella sua interezza: dapprima con lo sguardo, poi con il corpo sacralizzato dalla compresenza della natura ad esso legata in maniera ombelicale. Ma, la seconda tipologia fotografica definita come “propriamente detta”, è stata identificata in quella che compie un cammino progressivo iniziato con Wanda Wulz –foto canonica e per niente teatrale-, e che raggiunse la vetta con Cartier-Bresson. Il cerchio, infine, come abbiamo detto, si chiude con due foto, una di Man Ray (Fig. 61) e l’altra di George Platt Linette del 1936 (Fig. 62). La prima evade il classico copione teatrale, riconducendosi in qualche modo allo scatto prettamente canonico della Wulz; il secondo invece, immortalando il corpo nudo inginocchiato di Leonor Fini, accarezzato sensualmente dalla luce che dipinge soavemente le sue curve, non può che essere in linea con gli stupendi scatti bressoniani.

Abbiamo visto dunque, come le foto in cui Leonor Fini apparve in qualità di splendida musa per fotografi di fama internazionale, possano essere distinte in due tipologie –l’una legata al travestimento, l’altra alla mise en pose dell’artista stessa, flessa in termini quali seduttività, profondità dello sguardo, etc-; viene da domandarsi se esistano, nell’infinita moltitudine fotografica che la vide protagonista, degli scatti che siano riusciti a coniugare entrambe le declinazioni espressive. La ricerca ha trovato una risposta positiva in questo senso, e precisamente negli scatti di Dora Maar (1936) e in quelli di Eddy Brofferio (1965).

Con la Maar, la Fini sembrerebbe nutrire un’affinità artistica veramente notevole e, come ben evidenziato da Strukelj (2009): «Le due artiste sembrano complici di una

della “femme enfant”»341. E difatti gli scatti della fotografa francese non mancarono di

mettere in risalto la sensualità finiana, ad esempio nell’immagine in cui la Fini, con indosso solamente un corpetto e delle calze velate smagliate (Fig. 63) –la cui sfilatura sembrerebbe essere attribuita ad un graffio felino -, tiene fra le mani un gatto nero all’interno di una scenografia teatrale, nella quale appare anche una tenda-sipario in velluto. E poi ancora: Leonor Fini nel medesimo scenario teatrale, scosta la tenda di velluto per uscire poi da essa; in questa fotografia l’artista appare coperta nel busto, ma ancora una volta con le gambe vestite unicamente dalle sue calze velate. E infine, sempre di Dora Maar, non si può non menzionare la stupenda fotografia con ripresa dall’alto dell’artista triestina (Fig. 65), la quale appare sdraiata su un pavimento in legno, in una posa che riporta alla mente le fusa che compiono i suoi amati gatti. La Fini qui appare contornata di drappi e tessuti, dissipati e gettati disordinatamente su un pavimento-palcoscenico; essi sono toccati dalla luce alla stessa maniera di quella che accompagna gli attori a teatro. Da questi tre brevi esempi, si evince come nelle fotografie di Dora Maar si generi una perfetta dialettica fra teatralità e personalità dell’artista, in una dimensione da liber conformitatum che ivi raggiunge il suo apogeo sensuale. L’inclinazione teatral-costumistica dunque, qui dialoga ineccepibilmente con la potenza del personalismo finiano, che sebbene a prima vista sembrerebbe peccare di morbosità ed egocentrismo, in realtà riflette un’accezione quasi riconducibile alla filosofia del personalismo tout court.

L’altra sfumatura personale, declinata in termini teatrali attraverso il mezzo fotografico, è l’unitarietà con la natura, della quale si rende padre fondatore ed interprete assoluto Eddy Brofferio342 nello suggestivo scenario di un monastero di proprietà dell’artista a Nonza, in Corsica. Il travestimento qui, raggiunge il vertice espressivo ed è pure utile quale mezzo per metamorfizzarsi col paesaggio; un esempio ragguardevole può essere offerto da uno scatto del 1965 in cui l’artista (Fig. 64), ripresa dal basso verso l’alto, appare in piedi in prossimità di quello che sembrerebbe essere un dirupo. Vestita con un costume che rimanda alla vegetazione circostante, -composta di sterpaglie, fiori che sembrano quasi essere stati bruciati dal calore della stagione estiva e

341 Ivi, p. 34

342 Eddy Brofferio (1931-1982) è stato un celebre fotografo italoamericano, autore di numerosi scatti raffiguranti artisti quali Anna Magnani, Andy Warhol –del quale Brofferio fu molto amico-, Fabrizio Clerici, Salvador Dalì.

131 rocce-, anche nella posa la Fini si confonde con la scenografia dello scatto. La posizione da lei adottata infatti, sembra istituire un parallelismo con il vecchio campanile sullo sfondo, che spunta al di là di un ammasso roccioso che fa un tutt’uno con esso, quasi come l’artista sembra esserlo con il ciglio del dirupo. La metamorfizzazione in questo scatto è totale: sia il costume che la scenografia infatti, nascono e si metamorfizzano con la natura; l’artista qui rappresenta il ragguaglio perfetto di tutto, ed è l’univoca interprete di uno spettacolo naturale e teatrale.

Si potrebbe continuare per lungo tempo a discorrere su questa tematica sviluppata dalle fotografie di Eddy Brofferio, dal momento che cospicuo è il numero di scatti orientato in tale senso (Fig. 66-67). Tuttavia quel che interessa in questa sede, è il riscontro di quella tipologia fotografica che potrebbe essere definita “mediana”, poiché incentrata sulla dispiegazione unitaria e del travestimento, e delle varie sfumature personali della natura dell’artista. Di questo, abbiamo visto che ne costituiscono una prova le foto di Dora Maar -le quali tracciano una linea fra travestimento, teatralità e sensualità-, e quelle di Brofferio, riprove salienti del segmento teatrale e natural metamorfico.

Gli esempi dipanati entro questo breve -e si spera esaustivo-paragrafo, hanno indubbiamente dimostrato come la fotografia, nel momento in cui si affronta uno studio su Leonor Fini e in particolar modo sulla costumistica, non vada affatto trascurata. Riconducendoci all’incipit di tale argomentazione, la pratica fotografica deve essere necessariamente identificata quale “performance della vita” alla pari dei balli in maschera. In questa performance, giocosa ed ambigua, naturale e teatrale, il travestimento gioca un ruolo cruciale, a riprova ancora una volta del fatto che esso debba essere considerato come essenza costitutiva nonché come nutrimento vitale per l’esistenza della stessa Leonor Fini, la quale –non dimentichiamo- esiste come unità totalitaria di artista e personaggio.

Il bilancio che ne deriva dalle argomentazioni ivi proposte, è piuttosto complesso e articolato, del quale possiamo tentare un breve sunto. La considerazione del travestimento, e conseguentemente del costume come elementi-chiave della personalità

artistica finiana, non ha difatti risposto a nessun principio postulato, e proprio per questo motivo si è ambito a dimostrare la validità di tale aggettivazione.

Nella prima disamina, che si è incentrata sugli spogli della stampa del tempo, è stato messo in luce come la critica italiana, seppur talvolta ammettendo la validità artistica di Leonor Fini, sia stata sempre prevenuta ab inizio. Le motivazioni sovente, abbiamo visto, furono racchiuse proprio nella propensione dell’artista verso il travestitismo e nell’ineffabile sua inclinazione nei confronti di un qualsivoglia senso spettacolare. Per la stampa, il punctum dolens è stata la mancata comprensione dell’unitarietà artista- personaggio; in tale equazione, il secondo termine è stato considerato ribaldo e frivolo e senza alcun merito artistico.

D’altro canto però, il “personaggio” ha risposto anche alle caratteristiche del

performer. Quale corollario di tale identificazione, sono state adottate quelle che

abbiamo definito come “performance della vita”, delle quali il travestimento ha costituito il leitmotiv. Esse, riflesse nei balli in maschera e nelle fotografie, appaiono a prima vista di semplice comprensione; in questa sede però, sviscerandole e riducendole ai minimi termini, abbiamo dato vita ad una lettura complessa nella quale nulla, in verità, si è verificato per dettami casuali e fortuiti; neppure –come la ricerca ha dimostrato- nei vestiti scelti per i balli in maschera, per il quali nella maggioranza dei casi si è trovato un corrispondente pittorico o disegnativo.

Leonor Fini dunque, è fedele ad una sorta di mos maiorum che si articola in principi complessi ed enigmatici, dei quali il primo, per ordine d’importanza è senz’altro il costume e il travestimento, cresciuto non di rado entro un perimetro “performativo- vitale” costituito da balli e fotografie. Nessuno, eccetto pochi lungimiranti critici e giornalisti, ai tempi lo comprese.

Forse uno, di questo ristretto gruppo di oculati personaggi, fu l’artista Fabrizio Clerici. Difatti egli, già nel 1945, corredò un articolo343 dedicato alla Fini con tutta una serie di scatti –raggruppati entro la didascalia “L’album di Leonor Fini” - ove il travestimento costituì il predicato verbale di un soggetto perfettamente descritto dal Clerici quale «connubio di una gatta e d’Apollo»344. In tale articolo il pittore,

ripercorrendo uno dei suoi primi incontri con la Fini -in realtà qui con un suo

343 F. CLERICI, Incontro con Leonor, in «Il Quadrante», 6 gennaio 1945, pp. 8-9 344 Ibidem

133 autoritratto-, avvenuto entro una cornice tragica quale quella della Seconda Guerra Mondiale, diede un ritratto poetico ed intenso della pittrice triestina. Il suo descrivere la Fini risuona quasi come il tracciare il profilo di un’entità trinitaria, costituita in questo specifico caso da artista capace, personaggio e creatura metamorfica. Clerici insomma, fu uno dei pochi a non considerare esecrabile “il personaggio finiano”, ma anzi a capirne la sua profonda ricchezza nonché il suo legame gemellar-siamese con quella che fu l’artista.

Questi due capitoli hanno costituito un proemio teorico e filosofico per la

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