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Il giudice dei diritti

EmilioSantoro

Le tre ordinanze di Sandro Margara, raccolte in questa sezione, sono piene di considerazioni che offrono l’occasione, date le analisi acutissime che contengono, per affrontare due questioni scottanti sul piano giuridico e sociale come quelle del carcere duro e dell’ergastolo ostativo. Due questioni oggi al centro del dibattito non solo italiano, ma europeo sui diritti dei detenuti: basti ricordare che siamo in attesa della pronuncia della Grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Hutchinson, vale a dire sulla normativa inglese relativa all’ergastolo e alla pos-sibilità di interromperne l’esecuzione scarcerando il detenuto. Ma lascerò sullo sfondo questo, pur importante scenario,per evidenziare invece come le tre ordi-nanze siano rappresentative del “Sandro giudice dei diritti” dei detenuti.

Questa scelta è dovuta al fatto che questo suo forte beruf (uso volontariamente l’espressione tedesca per riempire il concetto di contenuti weberiani) è quello che mi ha sempre affascinato da quando, studente di giurisprudenza, ho conosciuto San-dro, fino all’altro ieri quando discutevamo delle cose da fare nella sua qualità di Ga-rante regionale per i detenuti. E’ probabilmente per questa sua vocazione e per il modo in cui l’ha sempre vissuta, vale a dire battendosi, che si è creato con lui, fin da giovane, un legame che mi ha portato, da filosofo e sociologo del diritto, a discutere, con i giuristi positivi, delle sottigliezze interpretative del diritto penitenziario e della giurisprudenza, di merito e di legittimità, nazionale ed europea, relativa ai diritti dei detenuti.

Le tre ordinanze ripropongono e traducono in concreti atti giudiziari quello che, ai miei occhi, è stato il principale merito ed insegnamento di Sandro: la rilettura dell’art. 27 comma 3, nella parte in cui prescrive che la pena deve tendere alla rie-ducazione del condannato, come la pietra angolare su cui fondare l’esistenza di diritti inalienabili e incomprimibili dei detenuti, a prescindere dalla gravità e dall’effera-tezza dei loro delitti e dalla loro presunta “pericolosità”.

Questa tesi passa attraverso una costruzione suggestiva e potente che muove dalla sentenza n. 204/1974 della Corte costituzionale. In questa famosa sentenza la Corte impone la giurisdizionalizzazione della concessione della liberazione condi-zionale, costringendo, di fatto, il legislatore a dare vita all’ordinamento penitenziario del 1975.

In uno dei passaggi della sua brevissima motivazione la Corte afferma che dal pre-cetto costituzionale che prescrive che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato

[…] sorge […] ildirittoper il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale.

Sandro in tutti i suoi scritti teorici (si veda il saggio contenuto in questo volume tratto da “Il Ponte”, n 7/9 del 1995, intitolato Memoriaditrentaannidigalera:un

dibattitospento,undibattitoacceso, e il successivo Ripensarel’ordinamentopeni-tenziario) ha sempre valorizzato questa affermazione facendola diventare la

pro-spettiva da cui ricostruire il filo conduttore della giurisprudenza costituzionale in materia di esecuzione della pena.

Nella sua visuale questa affermazione ha fatto ben più che rendere costituzionale il principio della flessibilità della pena: lo ha reso costituzionalmente doveroso, ne-cessario. Ma ha anche configurato un diritto costituzionale soggettivo del detenuto al trattamento risocializzante, o meglio a ricevere l’offerta di percorsi di risocializ-zazione. Il legame tra queste due tesi derivate dalla sentenza 204/74 è espresso con nitida chiarezza nelle prima delle ordinanze sul 41 bis riportate in questa sezione. In essa, infatti, Sandro denuncia:

[...] la violazione di un preciso diritto costituzionale, che, ricollegandosi all’art. 27, comma 3, della Costituzione, stabilisce il diritto del condannato ad un trattamento rieducativo e al riesame degli effetti del medesimo per verificare se la espiazione della pena abbia raggiunto le finalità rieducative per cui viene eseguita. Tale diritto è stato affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204/1974 e più volte ripetuto in seguito.

In effetti la Corte non ha mai più affermato in maniera così esplicita l’esistenza del diritto costituzionale alla flessibilità della pena sulla base del comportamento tenuto in fase esecutiva, né ha mai affermato chiaramente l’esistenza di un diritto costituzionale al trattamento penitenziario. La stessa sentenza n. 306/1993, che San-dro, nell’ordinanza, richiama immediatamente dopo il passo citato, non afferma esplicitamente l’esistenza di un diritto soggettivo del detenuto, costituzionalmente garantito e quindi inalienabile, al trattamento penitenziario. Il valore tutelato

dal-l’art. 27 comma 3 non è tradotto in maniera esplicita in un diritto dei detenuti, ma è individuato “nel perseguimento della finalità educativa della pena”. La Corte si li-mita a dire che l’obbligo di collaborazione, imposto ai detenuti per reati di mafia per accedere alle misura alternative, comprime questa “finalità” nella misura in cui im-pedisce l’accesso a “tutte le misure extramurarie, delle quali il legislatore ha rico-nosciuto l’utilità per il raggiungimento dell’obbiettivo della risocializzazione”1.

Come scrive, sintetizzando la posizione del giudice remittente, la Corte nella sen-tenza 351/1996, che accoglie la sua interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 41 bis e dei poteri di garanzia dei diritti dei detenuti del Magistrato di sor-veglianza, Sandro è sempre stato convinto che

[…] i detenuti sono titolari di diritti che debbono essere garantiti, e dunque quando siano in gioco tali diritti o la violazione del rispetto della personalità del detenuto è ammesso il sindacato del Tribunale di sorveglianza.

Che Sandro abbia intrerpretato il suo ruolo come quello del giudice dei diritti dei detenuti è testimoniato dal fatto che, come dà atto la Corte nella stessa sentenza 351/1996, con cui decide sulla sua ordinanza di remissione in merito all’art. 41 bis, la questione della costituzionalità della compressione dei diritti dei detenuti mafiosi è da lui “sollevata d’ufficio”, il che non depone bene sull’attenzione degli avvocati a questi profili.

Che l’insegnamento di Sandro sia rimasto abbastanza inascoltato lo testimoniano le condanne che l’Italia ha ricevuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Sulejmanovic e poi nel caso Torreggiani.

Più ancora il fatto che la Magistratura di sorveglianza non ha saputo assumere agli occhi dei detenuti italiani il ruolo di garante dei loro diritti è dimostrato dagli oltre 3.500 ricorsi da loro presentati pendenti davanti a quella Corte al momento della recente pronuncia della sentenza Stella.

Il detenuto italiano sembra convinto di non aver un giudice vicino che tuteli i suoi diritti e di doverlo andare a cercare, se non a Berlino, a Strasburgo.

Questo nonostante che oltre, quindici anni dopo la sentenza con cui la Corte co-stituzionale accoglieva le obbiezioni di Sandro in tema di tutela dei diritti dei dete-nuti in 41 bis, la stessa Corte, con la sentenza n. 26/1999, avesse affermato che

[…] l’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzial-mente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato as-soggettamento all’organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti.

La Corte proseguiva sottolineando che l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti

[...] è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Co-stituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all’art. 2 della Costi-tuzione (sentenza n. 98 del 1965) e caratterizzanti lo stato democratico di diritto (sentenza n. 18 del 1982): un diritto che non si lascia ridurre alla mera possibilità di proporre istanze o sollecitazioni, foss’anche ad autorità appartenenti all’ordine giu-diziario, destinate a una trattazione fuori delle garanzie procedimentali minime co-stituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l’impugnabilità con ricorso per Cassazione.

Sulla base di queste premesse la Corte sollecitò il legislatore all’esercizio della funzione legislativa che ad esso compete e dichiarò l’illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 della legge n. 354 del 1975, “nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria le-sivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale”.

Il legislatore però rimase totalmente inerte! Questa inerzia ha comportato che, a dieci anni di distanza, con la sentenza 266/2009, la Corte è tornata sul punto affer-mando che la sua decisione del 1999, “oltre a sollecitare l’intervento del legislatore (finora mancato)”, richiedeva anche “ai giudici di ricercare, con gli strumenti del-l’interpretazione sistematica, una soluzione conforme a Costituzione”. Con soddi-sfazione la Corte notava che

[...] ciò, in effetti, è avvenuto, perché la Corte di cassazione, pronunciando a Sezioni Unite penali, con sentenza del 26 febbraio 2003, n. 25079, decidendo sul contrasto giurisprudenziale insorto circa la natura del provvedimento del Magistrato di sor-veglianza reso ai sensi del citato art. 35, ha affermato che, se un’interpretazione della normativa ordinaria conforme a Costituzione impone di rinvenire un mezzo di tutela definito dai caratteri della giurisdizione contro la lesione delle posizioni soggettive del detenuto, secondo le progressive sequenze ermeneutiche indicate dalla sentenza n. 26 del 1999, un simile mezzo non può che ricondursi – proprio per le esigenze di speditezza e semplificazione che devono distinguerlo, considerando le posizioni sog-gettive fatte valere – a quello di cui agli artt. 14 ter e 69 dell’ordinamento peniten-ziario, che prevede la procedura del reclamo al Magistrato di sorveglianza nelle materie indicate dalla prima di tali disposizioni.

dete-nuti costruito dalla Corte di cassazione a legislazione vigente ricalcava quello trat-teggiato da Sandro nell’ordinanza 904/95. Il ragionamento di Sandro aveva preso le mosse dalla constatazione storica e giuridica che “l’inserimento, con la legge n. 663/1986, nell’Ordinamento penitenziario, degli artt. 14 bis e segg., corrispose la soppressione dell’art. 90, che consentiva proprio regimi restrittivi insuscettibili di sindacato, che si volevano invece rendere impossibili”. Da questa premessa si svi-luppa il suo ragionamento che così riassume la Corte costituzionale nella sentenza in cui accoglie la sua tesi:

[...] secondo il remittente, può essere materia del reclamo ex art. 14 ter anche la il-legittimità delle singole misure disposte; onde, parimenti, in sede di reclamo avverso il decreto di cui all’art. 41 bis dovrebbe potersi accertare sia se il provvedimento violi situazioni soggettive attive del detenuto, tenendo anche conto delle indicazioni for-nite dall’art. 14-quater, quarto comma ove si specificano le materie che non possono essere toccate dalle restrizioni disposte col regime di sorveglianza speciale, sia se le limitazioni apportate alle comuni regole di trattamento siano coerenti con i fini di cui all’art. 41-bis, e non siano adottate a scopi puramente afflittivi, che potrebbero contrastare con le regole minime di rispetto della personalità del detenuto. D’altra parte sostiene il remittente se così non fosse non sarebbe possibile controllare che i provvedimenti ministeriali contengano solo limitazioni che non ledono diritti del detenuto, e dunque si potrebbe dare un’applicazione dell’art. 41 bis contrastante con la Costituzione.

Sandro continua e conclude il suo ragionamento individuando nel comma 4 del-l’art. 14 quater l’elenco di quelle che la Corte chiama “posizioni soggettive attive”, e lui diritti, incompriibili, vale a dire:

[...] l’igiene e le esigenze della salute; il vitto; il vestiario ed il corredo; il possesso, l’acquisto e la ricezione di generi ed oggetti permessi dal regolamento interno, nei limiti in cui ciò non comporta pericolo per la sicurezza; la lettura di libri e periodici; le pratiche di culto; l’uso di apparecchi radio del tipo consentito; la permanenza al-l’aperto per almeno due ore al giorno salvo quanto disposto dall’articolo 10; i collo-qui con i difensori, nonché quelli con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli.

Ho imparato da Sandro che il primo compito del Magistrato di sorveglianza è di-fendere i diritti dei detenuti, per quanto “delinquenti” siano2. Solo una volta assi-curato che il detenuto ha il pieno godimento di questi diritti, a partire da quello di

un’offerta trattamentale adeguata, può valutare il percorso di reinserimento sociale. Il magistrato di sorveglianza sarà riconosciuto ed invocato dai detenuti come il fa-moso “giudice a Berlino” dell’apologo, se, e solo se, sarà in primo luogo il giudice dei diritti.

Prima di essere giudice della rieducazione, deve assicurare che il detenuto goda effettivamente di tutti i suoi diritti a partire, come le ordinanze sul 41 bis ci ricor-dano, in linea con la sentenza della Corte costituzionale dal 1974, da quello di vedersi offerti una serie di servizi che possono contribuire al suo reinserimento sociale.

1 La Corte si affretta anche ad affermare che tra coloro a cui viene precluso il percorso rieducativo “non può certo farsi rientrare quello del condannato che assume di non poter collaborare perchè si protesta innocente, giacchè dopo il giudicato una simile evenienza può assumere giuridica rile-vanza solo a seguito dell’apposita procedura di revisione”.

2 Ho molto ammirato il fatto che Sandro abbia dedicato gli ultimi mesi prima di andare in pen-sione come Magistrato di sorveglianza a costruire il percorso di fuoriuscita dal carcere di alcuni condannati per reati gravissimi (mafia, terrorismo, pluri-omicidio) per i quali considerava ormai maturo il ritorno in libertà: era convintissimo che se non avesse disposto lui la scarcerazione prima di andare in pensione questi soggetti sarebbero rimasti in carcere a lungo. Oggi a molti anni di distanza posso dire che uno solo di loro è tornato in carcere, e non per aver commesso un nuovo reato, ma per aver violato le prescrizioni della misura alternativa.

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