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Un “giurista sociologo” della scuola fiorentina

MauroPalma

“Chi conosce il mondo carcerario sa come esso viva molto di simboli, di segnali colti dall’esterno e visti come indicatori della strada che si vuole intraprendere. È per que-sto che è stata ovunque interpretata come inequivoco segnale positivo la nomina di Alessandro Margara a capo dell’Amministrazione penitenziaria: la nomina cioè di chi nel modo più cristallino interpreta lo spirito riformatore e rappresenta l’elabo-razione più acuta nel tentativo di riportare le pene ai criteri di umanità e di reinse-rimento sociale a cui devono essere destinate. Forse, dopo una stagione in cui il pendolo tra sicurezzaetrattamento è stato a lungo fermo sul primo polo, è possibile che oggi si inizi a spostare sull’altro, non solo sul piano dell’elaborazione di norme e progetti, ma anche su quello della effettiva gestione del Dipartimento e del poten-ziamento della professionalità di chi vi opera”.

Ho ripreso queste mie parole scritte quasi diciannove anni fa all’indomani di quella nomina che aveva fatto intravedere una diversa luce in quell’atmosfera sem-pre tendente all’opacità che avvolge l’Amministrazione penitenziaria. Un mondo, questo, dove le pur esistenti zone cromatiche vivaci, anche accese, sono comunque avvolte da una reticolo di grigio che rende la complessiva immagine poco decifrabile e molto spenta.

Margara era arrivato a guidare l’Amministrazione dopo un percorso noto: era per-sona ben conosciuta a chi dedicava intelligenza e tempo a riflettere sul sistema delle pene e delle possibili modalità esecutive o a operare nelle istituzioni a ciò preposte. Un percorso di esemplare applicazione delle norme e dello spirito della legge peni-tenziaria approvata poco più di venti anni prima, di riconosciuta competenza e as-soluto rigore e anche però di grande connessione delle norme con un sentire sociale che ha sempre caratterizzato il suo approccio al tema della pena e della sua esecu-zione e che ne ha delineato il profilo di ‘giurista sociologo’: di un operatore di giu-stizia guidato dal senso del recupero possibile e dalla non accettazione della negatività che la mera applicazione della norma penale può portare con sé qualora non orientata dal criterio del perseguimento di una qualche utilità sociale, anche nell’inflizione di una sanzione dura, e dalla ricerca del possibile recupero dell’autore del reato.

Una cultura che veniva da lontano. Aveva, infatti, radici in un cattolicesimo so-ciale ben vivo a Firenze negli anni che da un lato vedevano l’esperienza di comunità di base quale quella dell’Isolotto – tanto mal vista dall’allora Arcivescovo fiorentino reduce da recenti singolari tenzoni con il prete di Barbiana e non desideroso di aprire anche un ‘fronte’ cittadino – e dall’altro la vivacità teorica di un nucleo di riflessione di democrazia laica portato avanti da un gruppo di credenti di fisonomie e ambiti d’indagine differenti che si riconoscevano attorno alla rivista Testimonianze e alle ampie e formative discussioni sviluppate da Ernesto Balducci. Racchiudere questo mondo di confronti e discussioni nella formula di ‘ex Lapiriani’ è riduttivo: ne indica soltanto un filone genetico e soprattutto non dà conto degli sviluppi e delle ramifi-cazioni in ambiti di riflessione diversi, conservati nel tempo e tuttora riconoscibili per la loro connotazione di ricerca di una possibile positività sociale anche a partire dalle situazioni più negative e di profonda accettazione della diversità dei percorsi individuali, senza esclusioni. Non uno di meno.

Questa lettura del contesto ha fortemente influenzato l’opera del rigoroso giuri-sta, anche nella previsione acuta degli esiti di ogni norma che il Legislatore andava discutendo negli anni e di cui Alessandro Margara ha via via intuito e prefigurato l’applicazione futura, in modo da enuclearne gli elementi critici o controversi affin-ché si intervenisse in fase di analisi e di approvazione per evitare tali esiti. Molti dei suoi scritti testimoniano la costanza di questo lavoro di continua attenzione alla di-rezione che la ‘barca’ dell’esecuzione penale andava prendendo a seconda degli spo-stamenti del ‘timone’ politico, spesso determinati da emotività per alcuni eventi, ricerca di consenso, ricorso periodico all’uso simbolico delle norme penali.

La prima testimonianza di tale attenzione è precedente alla stessa legge del 1975, attraverso il giornalino Noi,glialtri che aveva pubblicato dibattiti con persone di diverse appartenenze disciplinari: Michelucci, Balducci, Margara e Meucci, anch’egli magistrato, La Pira, Gozzini. Il giornale aveva così raccolto le discussioni e le attese della pre-riforma e subito dopo l’approvazione valutava il testo adottato come de-ludente rispetto a tali speranze – proprio quel testo che tuttora, quarant’anni dopo viene presentato così avanzato da non essere pienamente applicato.

Spesso, molto spesso, Margara non è stato ascoltato. Anche la sua esperienza al vertice dell’Amministrazione – che molti di noi avevano appunto salutato come ini-zio di un cambiamento – si è conclusa precipitosamente, con poco più di una lettera di saluto da parte di un Ministro che pur apparteneva formalmente a uno schiera-mento progressista, ma che non voleva rinunciare al desiderio di accondiscendenza verso gli umori di una presunta opinione pubblica ciclicamente orientata a chiedere una improduttiva severità verso chi commette reati, anche di minore rilevanza, e una certa scioltezza nelle procedure, senza troppe regole e troppa attenzione ai

di-ritti delle persone coinvolte. Margara, ritornando a fare il normale Magistrato di sor-veglianza, volle scrivere una lettera – pubblicata anche in questo volume – in cui non affrontava il problema personale di come e perché fosse stato rimosso, ma il problema culturale di cosa tale rimozione rappresentasse nelle sue motivazioni e nella modalità secondo cui era avvenuta.

Del resto in quegli anni l’ipotesi ‘trattamentale’ del carcere – centrata sulla pos-sibilità di costruire un percorso di positivo reinserimento del detenuto nel contesto sociale – andava in parte affievolendosi e in parte deformandosi verso una conno-tazione correzionalista di revisione del proprio comportamento e di trasformazione soggettiva sulla base di buonsenso etico.

Nel complessivo dibattito attorno a questi temi, spesso limitato alle due polarità della fondamentalità del trattamento rieducativo come connotante la pena detentiva e dell’impossibilità di una qualsivoglia rieducazione in un contesto centrato sulla segregazione de-socializzante, Margara ha sempre assunto la posizione di sostegno alla prima delle due, se non altro perché ha sempre visto il rischio di aggravamento della durezza carceraria e il consolidarsi di una sua funzione di annientamento del soggetto, qualora tale prospettiva fosse venuta meno. Forse – ha affermato in un di-battito con Massimo Pavarini, ripreso nel volume IlvasodiPandora pubblicato dalla Treccani nel 1998 – si tratta di una “pietosa bugia” quella della possibile rieduca-zione, ma pur sempre di una bugia necessaria quale contenimento di altre direzioni che potrebbero far regredire la pena verso una sofferenza quale mera retribuzione. Massimo Pavarini osservava in quell’occasione e nei molti interventi dialoganti proprio con Alessandro Margara, come sempre più negli anni fosse divenuta evi-dente l’impossibilità del reinserimento sociale – fine tendenziale assegnato della pena – attraverso la desocializzazione carceraria. La detenzione finiva così con lo svelare la propria intrinseca connotazione strettamente afflittiva – eventualmente ridotta nei numeri, riservata a una platea minore, a un sottoinsieme di detenuti per i quali sembrano non esistere altre possibilità; comunque pronta a ristendersi così connotata anche ad aree più ampie di detenuti. Margara ribatteva che fuori dall’oriz-zonte rieducativo la pena si riduceva al male inflitto per compensare il male pro-dotto, rischiando di precipitare al livello pre-moderno di vendetta, non compiuta dal singolo, bensì affidata alla funzione esterna e ‘astratta’ dello Stato. Una deten-zione senza un’ipotesi di costrudeten-zione di un percorso di ritorno al contesto sociale del resto rischia di produrre ulteriori vittime: sono coloro che la società non reinte-gra e di fatto esclude; oltretutto con alti costi per la collettività che invece può trarre un evidente vantaggio futuro dagli investimenti in termini di intelligenze, supporto e risorse fatti per un positivo reintegro nel contesto sociale. Ovviamente senza im-proprie incursioni da parte delle istituzioni nelle convinzioni etiche soggettive e

mantenendo chiaramente la connotazione sociale del concetto di rieducazione in-serito nella nostra Costituzione.

Un confronto, questo, che rappresenta bene il dialogo tra due intellettuali che hanno sempre avuto a cuore la dimensione operativa del proprio riflettere, uno sul piano dello studio accademico l’altro su quello dell’esercizio di giustizia, e che hanno speso larga parte della propria quotidianità accompagnando tali rispettive profes-sioni con una grande presenza nel dibattito ampio, nella costruzione di un sentire sociale diverso verso tali temi e nella possibilità di operare perché le norme che ri-guardano questa sensibile area del confine tra inserire ed escludere tenessero aperte ampie porte e non concedessero nulla alle ricorrenti paure.

Negli anni, da un lato la crisi economica ha portato progressivamente a ridurre le speranze delle strutture solide per il percorso rieducativo – proprio Margara ormai nella funzione di Garante delle persone private della libertà della Regione Toscana organizza nel 2013 un Convegno di studio dal titolo ben chiaro: Ilcarcerealtempo

dellacrisi. Dall’altro, il peggioramento delle condizioni detentive, anche per il

so-vraffollamento, ha portato a spostare l’attenzione verso l’obbligo assoluto di rispet-tare in ogni caso la dignità della persona ristretta: dalla finalità rieducativa affermata in coda al terzo comma del sempre citato articolo 27 della Costituzione alla prima parte del suo enunciato che recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.

Due processi che saldano le due polarità dialettiche verso un unico obiettivo: ri-dare fisionomia e sensatezza al nostro sistema delle pene.

Questa è stata l’ultima fase della discussione sul carcere nel nostro paese: una fase che ha visto tuttavia un nuovo coinvolgimento di un largo numero di operatori e analisti, espressione di diverse attenzioni e diverse sensibilità ma accomunati dal-l’impegno a considerare l’esecuzione penale come qualcosa che interroga diretta-mente il nostro comune tessuto sociale e che non può essere occultato dietro muri e sbarre o rimosso dalla riflessione collettiva. Accomunati anche dal voler diffondere tale volontà di riappropriazione positiva di questo problematico tema. Sono gli Stati

generalidell’esecuzionepenale – così è stata denominata la consultazione promossa

dal Ministro della giustizia su ‘perché’ e ‘come’ punire chi commette un reato e su quali misure adottare per non aggiungere alla lacerazione che ogni reato comporta nel tessuto sociale, l’ulteriore lacerazione dell’incapacità di riannodare il filo che l’autore del reato ha reciso.

Gli Stati generali non si sono potuti avvalere di Massimo Pavarini, ormai a livello avanzato della malattia che lo ha portato recentemente alla morte, né dell’apporto diretto di Alessandro Margara a cui non è stato possibile richiedere un ulteriore one-roso impegno dopo una vita dedicata in modo infaticabile a tali temi.

I suoi scritti, nelle pagine che qui seguono, non sono quindi un omaggio, quan-tunque doveroso; sono il suo contributo di saggezza, studio ed esperienza alla larga discussione in corso. Materiale di analisi e studio proprio per chi oggi vuole riavviare una riflessione ampia e non episodica su questi temi.

Memoria di trent’anni di galera

Un dibattito spento, un dibattito acceso

Se ricerco fra i primi ricordi della galera, trovo un detenuto sul letto di conten-zione, nel carcere di Ravenna, più di trenta anni fa. Ricordo come si chiamava, lo ri-vedo, allampanato, disteso, su quell’attrezzo, che veniva chiamato “la balilla”: un uomo, un crocefisso plebeo (l’iconografia dei crocefissi dà generalmente sul signo-rile), che viveva la sua passione con un’aria di sfida sarcastica, rifiutando la soddi-sfazione della sua sofferenza a chi l’aveva messo in quelle condizioni.

La violenza fisica richiamata da questo ricordo, più o meno istituzionalizzata, fa parte di questa macchina che è il carcere; ricordo, consapevole o meno, dei supplizi, che ha rimpiazzato (non per sempre, a vedere cosa continua ad accadere nel mondo, ai tempi nostri, quando l’ uomo vuole punire il suo prossimo). La violenza è intrin-seca, naturale, nel carcere, un filo rosso che lo accompagna, ne lega i tempi e la sto-ria. Nel carcere sarebbero poi scomparsi i letti di contenzione, le celle imbottite. Questi strumenti di rappresentanza, diciamo così, sarebbero rimasti appannaggio dei manicomi giudiziari. Ma la tradizione è lunga a morire: e infatti ho risentito par-lare in questi giorni in carcere della “cella liscia” (cioè senza nessun appoggio, né appiglio), mentre ho ritrovato un vecchissimo conoscente che veniva da decenni di galera e di manicomio giudiziario e che ripeteva i gesti e le sfide del passato (barri-camenti, ingestioni di pezzi di ferro, autolesioni), come a ricercare e a giustificare il vecchio armamentario della contenzione: e la cella liscia era pronta per lui. È la con-ferma del filo rosso e forse di un altro aspetto, scontato, è vero, ma da ricordare: che lo spirito dei gentiluomini Sade e Von Sacher-Masoch aleggia in questi luoghi, come in tutti i luoghi in cui degli uomini dispongono del corpo e dello spirito di altri uo-mini.

Chiarisco un concetto: non dico che il carcere va eliminato, perché ragiono su quello che esiste e con cui dobbiamo fare i conti. Penso però che vada guardato senza illusioni; solo così si potranno, se non eliminare, almeno contenere i suoi meccani-smi. E chiarisco un altro concetto, una volta per tutte: la violenza dell’istituzione carcere non rende innocenti i colpevoli che ospita (anche se essi si sentono vittime, e lo sono soggettivamente e sovente anche oggettivamente). Ma la violenza che essi

hanno espresso con i loro delitti e per la quale possono cercare spazi anche in galera, non giustifica mai la violenza della comunità, dello Stato, che non dovrebbe aggiun-gere alla forza necessaria per realizzare la reclusione alcun additivo di violenza gra-tuita quando non compiaciuta.

Questo esordio può forse sembrare slegato dal discorso che segue, ma ne rappre-senta invece una specie di memorandum-punto di partenza. La riforma del carcere è il tentativo, forse illusorio, di trasformarlo da luogo di affermazione della forza, fino alla prevaricazione dell’uomo sull’uomo a luogo di servizio e, come si dice, di risocializzazione di chi vi è rinchiuso.

Memoria

Sono partito da un ricordo che colloco nel 1961-62. Allora, avevo però un rapporto superficiale col carcere, che divenne più intenso con la fine degli anni sessanta.

Giudice di sorveglianza a Firenze, avevo a che fare con le carceri di questa città, i vecchi istituti ormai chiusi, oltre che con l’immarcescibile manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, che sopravvive accanto alla e nell’antica villa medicea.

Alle Murate, che era il carcere giudiziario, c’erano gli imputati dei processi fio-rentini e i condannati con le pene più modeste. Era il carcere più inquieto: gli im-putati, che non sapevano come sarebbero andate a finire le loro storie, e i condannati per reati minori (ma quali reati erano allora maggiori, quando per un furto si pote-vano prendere tranquillamente vari anni di galera?) erano i più instabili e impreve-dibili. Le sommosse di quegli anni sarebbero in gran parte nate lì.

A S. Verdiana c’era il carcere femminile, che aveva anche condannate a pene mag-giori, compreso l’ergastolo. Ricordo sempre il salottino con il pianoforte in cui facevo i colloqui. C’erano le protagoniste di vicende della cronaca nera nazionale degli anni cinquanta, in un ambiente e con un clima in cui si poteva parlare, con la gestione molto sapiente di una comunità di suore.

A S. Teresa, la casa penale maschile di via della Mattonaia, c’erano i reclusi in ese-cuzione delle pene maggiori. I colloqui si svolgevano in una stanzetta che dava sul cortile cinquecentesco. Ho in mente i detenuti che aspettavano e camminavano nel porticato: liberavano nei passi veloci la compressione prodotta dai ristretti spazi in-terni. Le celle erano cubicoli (anche questo un classico: si parlava di “sistema cubi-colare”), nei quali c’era poco più dello spazio indispensabile per il letto. Questo carcere, vecchio cadente, era quello in cui i detenuti stavano meglio: dentro i cubicoli non potevano stare chiusi, per cui questi erano aperti tutto il giorno, e la maggio-ranza dei detenuti lavorava in attività e officine non prive di senso.

dal Codice Rocco del 1930. Tra i ricoverati c’erano molte persone dalle vite perse, presenti lì da decenni, destinati a finirvi i loro giorni. Una cinquantina di questi ri-coverati erano in posizioni giuridiche sospese: per oltre trenta, era sospesa la ese-cuzione della pena perché, essendo diventati matti in carcere, non potevano espiare la pena e attendevano in quel luogo che tornasse la salute (male grazie, l’invariabile risposta alle domande sulle loro condizioni); per altri era sospeso il processo, sempre perché nel frattempo apparivano impazziti, e analogamente accadeva per altri an-cora in situazioni analoghe.

La situazione degli istituti di pena italiani era abbastanza vergognosa. Le condi-zioni generali degli edifici erano pessime, aggravate dall’affollamento di sempre, temperato da condoni e amnistie, i cui effetti, da sempre, duravano ben poco. Lavoro ovviamente insufficiente e mercedi irrisorie (la paga di un mese superava, nei casi più fortunati, di poco le 10.000 lire). Minime le altre attività interne. Drammatiche le permanenze in cella che, per i moltissimi che non lavoravano, erano di 16-18 ore, in locali affollati e invivibili.

La gestione degli istituti aveva notevoli debolezze: si destreggiava fra paternali-smo e forza (talvolta: violenza), nell’incapacità di dare qualche risposta ai bisogni reali e, inevitabilmente, di tenere in pugno la situazione. Il personale di custodia, ben più scarso di ora, cercava il modo di convivere, sempre oscillando fra tolleranza e violenza, con una popolazione penitenziaria che, se mi si passa l’espressione, era meno “cattiva”, ma più “disperata” di quella di oggi.

Che prospettive avevano questi detenuti, cosa potevano sperare al di là dei con-doni e delle amnistie, che ogni tanto ne riducevano i ranghi e, per chi restava, i tempi della galera? Cosa speravano, dunque? In pratica, nulla: aspettavano la fine della pena. Quando uscivano, erano ubriachi di galera, avevano perso il senso dello spazio e delle distanze e, cosa verificata in svariate occasioni, si infortunavano facilmente. Era il loro impatto con la libertà. C’erano, è vero, la grazia e la liberazione condizio-nale, ma venivano decise lontano, al ministero, ed erano così rare da non farci conto.

Poteva durare a lungo il silenzio del carcere? No, era logico che finisse.

Anche il carcere ha conosciuto il suo Sessantotto, con le sue sommosse, che por-tavano avanti disordinatamente delle rivendicazioni, che, consapevoli o meno, ave-vano a che fare con la Costituzione, che da vent’anni parlava di un altro carcere e affermava che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E nelle sommosse si chiedeva, appunto, che cessassero gli aspetti disumani della condizione carceraria, che venisse finalmente varata la Riforma penitenziaria, attesa, dopo la Costituzione, ormai da vent’anni. La tensione in carcere diventava sempre più forte, tanto più forte quanto più la situazione restava quella descritta, inaccettabile e inaccettata.

L’organizzazione carceraria, come ho accennato, non era forte. Cominciò a la-sciare qualche spazio alle richieste dei detenuti. La televisione (sempre lei) fu il ca-vallo di Troia. I televisori, allora rari, venivano posti nelle sezioni e queste dovevano, quindi, restare aperte nelle ore serali, proprio quando il personale di custodia era al minimo. Sezioni di 100, o anche di più di 200 detenuti, aperte potevano decidere in

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