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Il fascino della boxe. L’ethos antifascista nel pugilato

Nel documento MUOVERSI COME PUGILI COLPIRE COME COMPAGNI (pagine 158-200)

Una prospettiva di riferimento e alcuni concetti sensibilizzanti

Capitolo 6. Il fascino della boxe. L’ethos antifascista nel pugilato

Premessa

Una volta descritte le affinità elettive che intercorrono tra le palestre popolari e gli attori collettivi posizionati a sinistra dello spettro politico, il capitolo ripropone la stessa analisi ma focalizzata sulla pugilistica. Lo scopo è dimostrare come nella boxe si intreccino significati, relazioni e norme di condotta che vanno oltre l’ambito dello sport e coinvolgono la sfera più generale dei costumi, dell’educazione ed il sottile processo mediante il quale i gruppi auto-organizzati di matrice antifascista generano valori e rappresentazioni che danno ordine alla realtà. Per questa ragione, le prossime pagine esaminano il ruolo strategico svolto dagli animatori delle palestre nel delineare i codici culturali distintivi della boxe popolare. Anzitutto, sono considerate le rappresentazioni sociali del connubio tra boxe e milieu antifascista espresse dai membri centrali delle palestre. La seconda parte del capitolo descrive la conformazione dei corsi di pugilato. L’analisi verte sul profilo dei frequentanti, special modo sulla mission e le pratiche messe in atto quotidianamente dalle autorità pedagogiche. La terza parte presta attenzione alla pratica più significativa della boxe popolare. Questa sezione esamina il fair play dei combattimenti di boxe popolare coniato dagli esponenti di diverse palestre popolari – non solo di Milano. L’analisi del fair play fa emergere l’identità della pratica: da una parte, il senso della boxe popolare secondo i suoi promotori; dall’altra, quali credenze e virtù gli organizzatori si attendono vengano messe in mostra nel corso delle fight night da coloro che salgono sul ring.

1. “La boxe è roba nostra”. Le narrative di un’affinità elettiva

Lo sviluppo delle palestre popolari si intreccia a doppio filo a quello del pugilato. La boxe risulta la disciplina più proposta e richiesta. Tutte le palestre popolari di Milano hanno in calendario un corso di boxe e in diversi casi la pugilistica coincide con le palestre

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popolari stesse. Nessuna delle altre attività può vantare lo stesso successo in termini di numero di praticanti. Il modo con il quale trova rappresentazione tale popolarità contribuisce a inserire la pratica entro le coordinate culturali di chi la implementa (Bourdieu 1979; Nardini 2016). Declinando alcuni assunti dell’antropologia della performance, si può intendere il racconto della pratica alla stregua di «un commento metasociale sulla vita […] di una comunità» (Turner 1993 [1986], p. 102). Da questo punto di vista, le narrative di maestri e altre figure di spicco dei corsi assumono particolare rilievo, essendo tali attori i referenti pubblici della relazione che intercorre tra disciplina fisica e milieu in cui viene svolta, sia all’interno dei gruppi – in particolare nei confronti dei nuovi membri – sia quando comunicano verso la società esterna. Come sostengono gli epigoni della teoria narrativa, gli account dell’esperienza sono decisivi nel dare coerenza all’azione, collocando l’agire presente dentro la storia sociale passata e, viceversa, attualizzano il passato nell’oggi. Infatti, le narrative non sono mai casuali. La loro logica è quella di inscriversi dentro una specifica cornice socio-simbolica contribuendo a plasmarla1.

Per esempio, che il boom della boxe nelle “palestre di sinistra” – utilizzando termini comuni fra le persone incontrate in questi luoghi nel corso della ricerca sul campo – vada ricercato negli stessi meccanismi di funzionamento dell’autorganizzazione è esplicitato da un maestro, durante il preambolo alla presentazione pubblica di un libro sull’epopea del pugile zingaro Johann «Rukeli» Trollman scritto da un boxeur con cui condivide l’allenamento:

La boxe è roba nostra, è roba dei proletari. Perché chiaramente come sport non servono grandi impianti, grandi attrezzature. Anche le palestre popolari che noi abbiamo qui, stiamo sviluppando, tutto il discorso che abbiamo sulle palestre popolari con boxe, thai boxe, sport da combattimento. Nasce questo discorso perché non serve molto. Basta un paio di fascette, un paio di guantoni, una struttura minimale. E chiaramente possiamo fare sport tutti quanti2.

1 Nonostante gli studiosi siano maggiormente interessati a cogliere il nesso tra vicenda biografica e vicenda sociale, sulla scia di Wright-Mills, è possibile estendere tali assunti ad un livello meso, interessato cioè ad attori sociali collettivi anziché individuali – per una revisione della teoria narrativa negli studi sullo sport e l’esercizio fisico si veda (Smith e Sparkes 2009). Pur non interessandosi direttamente di narrative, Wacquant (2002) ed Antonelli e Scandurra (2010) hanno gettato luce sul ruolo di maestri e anziani, dentro le palestre di boxe, nel preservare e tramandare il patrimonio comune delle storie e gli aneddoti che comunicano il significato profondo di una pratica altrimenti solo meccanica, connotandola così in termini culturali.

2 Le parole sono pronunciate da Pietro nel corso della presentazione di «Alla fine di ogni cosa», presso lo Spazio del Mutuo Soccorso, 19 marzo 2016 (appunto di diario).

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Lo sviluppo di “boxe” e “thai boxe” nelle palestre popolari è interpretato come il risultato dell’intrinseca accessibilità delle discipline. Seguendo le fila del discorso riportato, esiste una palestra popolare nel momento in cui viene offerta una disciplina popolare. La «struttura minimale» a cui fa riferimento il maestro sono la strumentazione tecnica e l’infrastruttura fisica: per quanto riguarda le due arti da combattimento, entrambe possono essere fornite e fruite senza investimenti monetari ingenti. Di conseguenza, ampi strati di popolazione, anche le fasce sociali meno abbienti, hanno modo di venire coinvolte nella partecipazione all’attività sportiva – di qui l’espressione della boxe come «roba dei proletari». Afferma di nuovo lo stesso insegante, ma in un’intervista a tu per tu:

Le palestre popolari funzionano molto bene, in termini di aggregazione all’interno di quartieri popolari, dove magari ci sono già dei comitati che fanno cose… Insomma, la palestra popolare è una delle tante cose che sono un diretto prodotto dell’auto organizzazione, né più né meno. Cioè uno si auto organizza, non che deve fare solo la palestra popolare eh […] Però è normale che alla fine si pratica il pugilato, non lo trovo niente di strano. Ecco, non è che potresti fare il golf. È chiaro che fai il pugilato, giustamente! (Pietro, maestro, in palestra popolare da 10 anni).

La facilità materiale con cui il pugilato può essere offerto e domandato è inteso come un fattore chiave dell’affinità tra pratica della boxe e collettività autogestite. Il golf, appannaggio dell’élite economica, è presentato come la pratica massimamente distante dal Weltanschauung di collettività attive allo street level come centri sociali o «comitati» di cittadini, i cui riferimenti culturali affondano nel conflitto di classe e ancora oggi sono interessati ad incidere nell’esistenza di soggetti appartenenti al nuovo proletariato e sottoproletariato urbano. Una palestra riassume l’idea con questo slogan: «Contro sfruttamento e precariato lotta sociale e pugilato» (Pennetta 2017, p. 168).

In questo senso, la nobile arte si iscrive a pieno titolo nella tradizione delle pratiche corporee cui hanno sempre dato impulso gli attori auto-organizzati. Il teatro, la musica, la radio, il canto, i graffiti, il fumetto, la capacità oratoria e, soprattutto, l’uso del corpo come mezzo di azione diretta compongono quel campo particolare della cultura dei «senza potere» sviluppatasi a sinistra delle organizzazioni ricreative e politiche tradizionali a partire dalla metà degli anni Settanta (della Porta e Diani 1997). Una

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cultura prettamente «cinetica», «orale», e solo in una certa misura anche figurativa, cui i centri sociali hanno sempre cercato di dare espressione (Wacquant 1995b). Esattamente come scrive Wacquant (Ibidem, p. 22) citando lo studio di Keil (1966) sull’impiego dei neri nell’industria dello spettacolo, la pugilistica è maestra «del suono, del movimento e del ritmo» e, proseguendo in una interpretazione di stampo culturalista, «incarna gli orientamenti assiologici» che identificano l’ethos di chi anima gli spazi sociali autogestiti: il protagonismo sociale; l’auto-mutuo aiuto; «il gusto per la performance» (Wacquant 1995b); un senso accentuato del rispetto – valore centrale della cultura di strada (Brighenti 2014); un certo fascino nei confronti del rischio. Di più. Nell’immaginario collettivo alimentato dai media, come nell’interpretazione di alcuni studiosi (Beauchez 2014), la boxe è popolare perché i suoi uomini sono spesso descritti, in accordo a una «rappresentazione selettiva», come esponenti delle classi sociali inferiori capaci di risalire la china ed emanciparsi da una condizione di subalternità grazie alla propria dedizione a combattere (Wacquant 2002). Scrive una palestra, sintetizzando quanto espresso fin qui, «il pugilato è uno sport popolare per eccellenza, perché viene dalla strada e non ha bisogno di attrezzature costose per essere praticato e anche per questo che la sua storia è una storia di emancipazione e rivincita»3. E proprio la vocazione alla lotta è uno dei principi guida – forse il principale – dell’umanità che resiste allo status quo. Questo elemento si ritrova al centro delle narrative con cui viene sovraccaricato di senso il rapporto tra pugilistica e attori collettivi a stretto contatto con la vita di strada che si fanno promotori del mutamento.

1.1 Resistere!

Quella della resistenza è la narrativa politica dominante utilizzata per significare la boxe. Si tratta di una narrativa politica per due ragioni. In primo luogo, il termine resistenza rievoca la lotta partigiana al nazifascismo che ha insanguinato l’Italia: la mitogenesi dei gruppi antifascisti contemporanei va rintracciata proprio in quel conflitto. In secondo

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luogo, il termine resistenza identifica una logica di azione politica poiché finalizzata alla trasformazione/«invenzione del presente» (Melucci 1982).

Questa narrativa generale assume tre declinazioni specifiche. Tutte incorniciano l’esperienza della boxe popolare esprimendo le affinità che intercorrono tra disciplina fisica e cultura di sinistra antifascista (Goffman 1974). In altri termini, le narrative sono (con)presenti e modellano, appunto, il «master frame» (Snow 2004) della resistenza. In alcune palestre e per alcuni membri centrali alcune contano più di altre; di conseguenza, sono mobilitate con maggiore frequenza nelle interazioni quotidiane e/o pubbliche. Mentre talvolta vengono espresse tutte quante da parte degli stessi individui – per esempio, nel corso della medesima intervista.

Queste rappresentazioni sembrano confermare l’esistenza di un rapporto ambivalente, di «simbiosi e opposizione», tra la gym e la «strada» già individuato da Wacquant (2002) studiando le funzioni della boxe nei ghetti delle metropoli postfordiste nel nord America. Un’ambivalenza riscontrata anche in ricerche condotte in altri contesti urbani (Antonelli e Scandurra 2010; Beauchez 2014). Nel caso esaminato, tale relazione assume tinte particolari alla luce dell’identità degli animatori delle palestre, della loro storia sociale e di mete di azione che, anche in virtù della mancanza di legami manifesti con le federazioni competenti, trascendono l’ambito dello sport.

Una forza sociale in tutte le strade

Una prima narrativa politica della resistenza interpreta la boxe nei termini di una pratica corporea straordinariamente utile al conflitto da protrarre con l’azione diretta. In accordo a questo account, il “ring” – spazio fisico e simbolico destinato al pugilato – non rappresenta un fine in sé, bensì è pensato in funzione alla “strada”. Un maestro, nonché attivista di un centro sociale, ne parla così:

Noi comunque siamo in strada, quindi del ring ci interessa un po’ meno […] è più importante allenarsi per portare avanti i valori nei quali crediamo, capito? Perché ci sono delle volte in cui si devi mettere anche il fisico di mezzo più che la testa. Hai voglia a fare comizi… poi quando ci si incontra e scontra sarebbe meglio anche prepararsi, perché di fronte abbiamo persone ultra preparate, sia in divisa che non! [il riferimento è ai gruppi neofascisti e neonazisti in corso di radicamento in città] (Mariano, maestro, in palestra popolare da 3 anni)

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Secondo questo punto di vista, le capacità fisiche sono poste allo stesso livello dell’arte retorica. Muscoli e cervello – “fisico” e “testa” – sono ritenuti ugualmente rilevanti secondo una certa concezione della vita politica. La contrapposizione disincarnata e la contrapposizione corporea – il “comizio” e lo “scontro” – configurano così i due momenti della prassi politica condotta allo street level. Così come l’acquisizione delle capacità indispensabili al confronto dialettico ha i suoi tempi e i suoi luoghi, l’apprendimento delle competenze necessarie a sfidare le forze sociali ostili, vale a dire polizia e gruppi di estrema destra, passa attraverso la boxe. Precisa lo stesso intervistato:

Noi ci siamo scontrati anche prima. È andata bene anche allora, ma probabilmente adesso andrebbe anche meglio. Non so come dire… in questo momento come siamo cresciuti noi sono cresciuti anche loro. Il problema è questo! (Ibidem)

Regolarmente, la palestra di cui l’istruttore fa parte trova il modo per enfatizzare questo messaggio. In occasione della pubblicizzazione della nuova felpa del team di boxe, la palestra mostra sulla propria pagina facebook un attivista del centro sociale mentre indossa il capo di vestiario. Diverse fotografie dallo stile truce immortalano il militante in azione nello spazio della gym. In un paio di scatti imbraccia una mazza da baseball posando di fronte a una locandina affissa su una parete. Il poster ritrae in primo piano un anonimo mezzo busto con la testa incappucciata, la maschera antigas a protezione del volto. Sotto al corpo recita la scritta: “chi pensa deve agire/partizan”.

La capacità di lottare fisicamente è celebrata attraverso simboli e rappresentazioni anche da altri corsi di boxe. Ad esempio, lo scontro fisico con la polizia è pensato come una delle esperienze fondanti il progetto della palestra vissuta da alcuni attivisti-pugili. Racconta il promotore di una palestra popolare, tuttora boxeur in erba del team che ha contribuito a mettere in piedi:

Lorenzo: Come mai avete scelto il toro come simbolo della palestra e il nome Antifa Bull’s Boxe? Luca: Ma perché in realtà è nata da una proposta di me e Johnny che abbiamo messo in piedi

la baracca. Durante un corteo c’è stato il momento di impatto con gli sbirri… e c’erano un po' delle persone che hanno iniziato a fare la palestra. Mentre stavano facendo la situazione, essendo che avevamo mandato indietro alcuni di loro, io e Johnny eravamo da una parte e sentiamo uno sbirro che fa: «ma guarda questi tori di merda come spingono!». Allora ho poi detto: «Johnny mettiamo bull come parte del nome?». E lui ha detto: «ah, sì, ci sta!». Ahahah [ride rievocando la vicenda] Non so, Antifa è anche un

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po' relativo all’Askatasuna, perché alla fine è un po' il perno, l’inizio delle palestre. E quindi chi di noi ha iniziato a costruire la palestra ha detto: «Va bene come nome? Cosa ne pensate voi?». E tutti all’epoca hanno detto: «bella, ci piace». E così è nata la cosa e l’abbiamo mantenuto. Quando abbiamo iniziato ad aprire va detto che facevamo solo boxe, per questo è Antifa Bull’s Boxe (Luca, fondatore, da 4 anni in palestra popolare).

A dire il vero sono diverse le personalità di riferimento dei corsi a sottolineare come la pratica possa essere messa al servizio dell’azione diretta. Secondo la lettura che ne fa un maestro, il pugilato è la disciplina che meglio produce nei praticanti qualità psichiche, più che tecniche, adatte ad altre azioni che implichino la messa in discussione della propria incolumità fisica. Come si legge nel lungo stralcio di una intervista:

In un mondo come il nostro, molto eterogeneo come modo di pensare, l’autodisciplina è un qualcosa di profondamente importante […] Cioè dare a dei ragazzi giovani la percezione che tutto sia possibile: anche imparando a preparare un incontro, essere decisi, capire che quando tu vuoi fare una cosa ce la fai e la ottieni. Allora è una bomba. Da quel contesto lì puoi estrapolare tutto quello che c’è nel politico, come organizzare una TAZ. Senza esagerare, senza dire: «noi siamo dei grandi». […] Dobbiamo anche noi organizzarci ed essere prepararti, preparati fisicamente e soprattutto mentalmente: perché se sei preparato fisicamente lo sei anche mentalmente… […] Adesso è brutto dirla anche così: ma quando gli sbirri si trovano davanti delle persone che non hanno paura allora viene fuori a loro la cattiveria! Non è solo con l’odio che si risolvono le cose. Ma anche la resistenza passiva fatta con le palle è un’altra questione. Sicuramente il pugilato, da questo punto di vista, sull’autodisciplina, tra le arti è quella giusta (Patrick, maestro di boxe, da 8 anni in palestra popolare).

L’ “autodisciplina” è vista come un ipotetico collante, non tanto fra le palestre quanto piuttosto tra le organizzazioni politiche che le gestiscono o a cui sono legate. Non c’è dubbio che tutta la sinistra cosiddetta «antagonista» sia frammentata al suo interno in «aree» e «reti» (Montagna 2007). In questo senso, il pugilato rappresenta l’«arte giusta» per «estrapolare» competenze settoriali da un contesto sportivo e riversarle nella politica concreta: mentre gli orientamenti ideologici risultano variabili tra le organizzazioni, i modus operandi sono al contrario simili se non proprio identici (Mudu 2012). Ecco quindi che “preparare un incontro”, faticare e raggiungere un obiettivo specifico sono considerati prodromici alla realizzazione e al mantenimento di disegni di cambiamento di più ampio respiro. Due pugili impegnati nelle palestre popolari di Bologna, autori di un volume dedicato alla boxe cubana, espongono un punto di vista simile, in accordo al quale esisterebbe un’equivalenza tra vita rivoluzionaria e pugilato:

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un legame che a Cuba ha nella boxe il suo fiore all’occhiello. Con questo sillogismo i due autori interpretano l’affinità culturale tra politica e pugilato: «Nella rivoluzione […] si vive duramente. Vivere duramente richiede una certa disciplina. E nella disciplina i pugili sono maestri per natura» (Gregoris e Ligabue 2015, p. 39).

Riprendendo di nuovo le parole del maestro citato in precedenza, costui è ancora più esplicito riguardo all’importanza di praticare proprio la boxe allo scopo di plasmare posture corporee capaci di concretizzare il principio della resistenza. Un principio che acquisisce tutto il suo senso rispetto al contesto sociale circostante:

Mentre passeggiamo dopo l’allenamento chiedo a Patrick come sta procedendo il nuovo corso di kung fu. La sua risposta è un lungo ragionamento sulla valorizzazione di certe discipline anziché altre: «È iniziato da poco e voglio farmi un’idea… anche se detto papale: a me le arti marziali mi stanno un po' sul cazzo. Tutti quegli sport producono persone che sono in pace col mondo, sereni, alla ricerca dell’equilibrio. Ma li vedi? I movimenti sono volti alla pienezza dell’io, a forgiare persone che stanno bene. Cioè, non è quello in cui crediamo noi. Le arti marziali secondo me producono soggetti psicologicamente pacificati, e noi non dobbiamo essere pacificati, ma di che? Il mondo fa schifo, la società è una merda: e io dovrei stare in pace con me stesso e gli altri? No! Dobbiamo resistere. Almeno quello: non faremo la rivoluzione, ma almeno resistiamo. Siamo un gruppo, impariamo a resistere tutti assieme. La fatica, i colpi… cioè la boxe ti carica, col cazzo che ti pacifica. Voglio vedere se vai in corteo, gli sbirri ti caricano, cosa cazzo fai? I monaci tibetani si danno fuoco perché fanno del male alle pecore siccome il buddismo è contrario a queste forme di sopraffazione. Ma perché protestare così? […] Cioè io credo che sia anche uno degli obiettivi della palestra popolare preparare le persone ad eventuali situazioni di scontro, è inevitabile se condividi certe idee e fai certe cose. E poi nelle arti marziali c’è un rapporto di tipo esclusivo con il maestro, credi in lui, si formano come delle sette, per cui il maestro lo vedi in pace con il mondo e anche tu vuoi stare in pace con il mondo. È notevole che in società di tipo piramidale si ripropongano situazioni sportive di tipo piramidali. Invece nella boxe c’è l’opportunità di scambiare coi compagni. Nelle arti marziali hai il maestro ed è la tua divinità (appunto, 18/3/2017).

In contrapposizioni ad arti marziali codificate in oriente, prodotto di una società distante da quella occidentale e, più precisamente, da quella italiana, la boxe assume tutta la sua importanza nel diffondere l’ideale della resistenza: una virtù in grado di dare forma a individui pronti al conflitto, e non “soggetti psicologicamente pacificati”.

Attraverso processi che non implicano esplicitazione riflessiva e toccano l’inconscio e le viscere, il pugilato renderebbe quindi possibile sviluppare personalità disposte all’azione collettiva. In tal senso, la spinta all’azione costituisce un presupposto indispensabile al cambiamento dell’esistente attuato collettivamente. Allo stesso tempo, sempre

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