• Non ci sono risultati.

Uno spazio politicamente affine. L’infrastruttura palestra popolare palestra popolare

Nel documento MUOVERSI COME PUGILI COLPIRE COME COMPAGNI (pagine 120-158)

Una prospettiva di riferimento e alcuni concetti sensibilizzanti

Capitolo 5. Uno spazio politicamente affine. L’infrastruttura palestra popolare palestra popolare

Premessa

L’obiettivo del capitolo è definire le caratteristiche organizzative di una palestra popolare – dal momento che, come anticipato nei capitoli teorici, non può esistere pratica senza infrastruttura fisica di supporto – mettendo in luce il suo radicamento tra i gruppi autogestiti. Per analizzare le affinità che intercorrono tra l’infrastruttura e gli attori sociopolitici che la implementano, viene esaminata la posizione occupata da queste ultime nello spazio sociale e politico, i cambiamenti nell’orientamento della loro azione collettiva lungo i decenni, il bagaglio valoriale, delle pratiche e dei simboli di cui si fanno portatrici. L’analisi delle affinità elettive tra un certo milieu socio-politico e le palestre popolari procede dal generale al particolare. Anzitutto, si inquadrano le dinamiche di contesto che favoriscono l’emersione dell’organizzazione palestra popolare. Successivamente si descrive come sono configurate le palestre in termini normativi e spaziali. In questo modo vengono sviscerati tutti i rapporti di prossimità che intercorrono tra le palestre e una particolare (sotto)cultura politica, preparando il terreno all’analisi della boxe popolare.

1. Nascita della palestra popolare. Una coincisa genealogia

Il radicamento della boxe tra i gruppi dell’autogestione non può essere compreso senza esplorare i rapporti che intercorrono tra la struttura che la supporta, vale a dire la «palestra popolare», e il contesto politico e culturale circostante, per quel che riguarda Milano caratterizzato da forte un impegno associativo (Biorcio e Vitale 2016).

A partire dal primo dopoguerra, e più ancora dopo la caduta del fascismo, in città le associazioni hanno giocato un ruolo chiave nel diffondere orientamenti e credenze riconducibili a culture politiche di parte – in particolare cattolica e socialista – capaci di

5.UNO SPAZIO POLITICAMENTE AFFINE

120

colmare il vuoto di cultura civica che contraddistingueva il Paese agli albori della modernità (Pizzorno 1993; Balestrini e Moroni 1995; Rusconi 1999). I due principali partiti di massa, PCI e DC, penetravano nel tessuto sociale supportati da organizzazioni preesistenti o costruite ex novo con sedi dislocate a livello nazionale, regionale e locale. Le associazioni svolgevano diverse funzioni di socializzazione politica: trasmettevano i messaggi e i valori dei partiti attraverso attività estranee alla sfera politica; mobilitavano interessi in vista di azioni collettive; formavano funzionari pubblici e privati (Galli 1966; Melucci 1982; De Nardis 2000). Il collasso della prima repubblica e lo smantellamento del Welfare State ha trasformato le reti associative in attori centrali nella vita del Paese. Oggi le associazioni sociali, ricreative e sportive diffondono cultura in forme sempre più autonome rispetto al sistema dei partiti, producendo coesione e solidarietà sociale. Allo stesso tempo, giocano un ruolo di supplenza rispetto alle istituzioni misurando l’efficacia delle politiche pubbliche e cooptando nuovi dirigenti (Biorcio e Vitale 2016). In Italia più che in altri Paesi lo scarso intervento dello Stato in materia di politiche sociali, unito alla lontananza dei partiti dai territori, crea opportunità di azione che vengono spesso colte dal terzo settore e dalle diverse forme di associazionismo Saraceno (2013). Tuttavia, i modi nei quali la società civile affronta tali opportunità continuano a riferirsi a ben precise culture politiche.

Uno studio pubblicato di recente sull’associazionismo a Milano individua tre assi lungo cui si snoda la cultura di sinistra dell’impegno civico contemporaneo, identificabile non in riferimento a un partito o a «un’identità collaterale», quanto piuttosto in una serie di parametri valoriali e strategici di cui è investita la partecipazione (Caruso et al. 2016, p. 155). Per la precisione:

− Sulla partecipazione sono proiettate mete ritenute irraggiungibili da parte delle istituzioni (Lazar 2009);

− L’impegno civico è dettato dalla fiducia nel «cambiare le cose» secondo un approccio critico rispetto all’esistente (Caruso et al. 2016);

− L’azione intrapresa è investita di una «responsabilità di ordine più generale» (Boltanski e Vitale 2007).

5.UNO SPAZIO POLITICAMENTE AFFINE

121

Senza voler essenzializzare i tratti della cultura politica di sinistra, basterebbe citare la rappresentazione pubblica di una qualunque palestra popolare per trovare espressi i tre aspetti citati. La pagina web di una gym situata in una città limitrofa al capoluogo lombardo offre una definizione sui generis di cosa siano le palestre popolari, tanto sono costanti i principi guida su cui si regge la loro organizzazione:

Una palestra dal basso […] Uno spazio dove intendere lo sport come incontro e scambio, come costruzione di relazioni altre, come contaminazione fra stili e culture diverse. Uno spazio autogestito e senza fini di lucro, dove il percorso sportivo e umano di autorealizzazione viene raggiunto attraverso una crescita individuale e collettiva condivisa […] uno spazio popolare che risponda ai bisogni di sport, cultura e socialità senza la contaminazione di interessi economici e avulso dall’imperante culto della prestazione e della vittoria1.

Questa concezione di palestra si colloca pienamente della storia e nello sviluppo della sinistra extraistituzionale, i suoi riferimenti, le sue ritualità, i suoi miti e i suoi obiettivi strategici, sullo sfondo dei mutamenti del contesto politico.

1.1 Dalla lotta muscolare alla lotta culturale

L’universo delle palestre popolari e delle pratiche dal loro promosse si definisce in stretta relazione alla posizione occupata dai gruppi della sinistra radicale: collocati al vertice basso della struttura sociopolitica, in zona tra il legale e l’illegale. In quanto attori del mutamento la cui iniziativa si contraddistingue per l’impiego della protesta e dell’azione diretta, puntualmente gli esponenti di queste collettività si confrontano con una serie di attori avversi, anch’essi attivi allo street level. Addentrarsi nelle palestre popolari di Milano implica quindi, come primo passaggio, ripercorrere alcune tappe dell’evoluzione del movimento milanese, facendo specifico riferimento alle strategie di conflittualità sociale elaborate.

In seguito alla strage di piazza Fontana, nel periodo di massima mobilitazione giovanile e impegno politico extraistituzionale, i collettivi politici si moltiplicano. Il modello

5.UNO SPAZIO POLITICAMENTE AFFINE

122

organizzativo movimentista sperimentato nel biennio Sessantotto-Sessantanove viene soppiantato da una miriade di strutture verticistiche (Balestrini e Moroni 1995). Ogni organizzazione extraparlamentare si dota del proprio servizio d’ordine, nella generale convinzione che i rappresentanti della società borghese – industriali, partiti, istituzioni – abbiano deciso di spostare lo scontro sul piano militare. Tra il 1969 e il 1974 la risposta alla strategia della tensione è l’impiego di repertori di contrapposizione fisica tra fazioni avverse, non senza spargimenti di sangue da una parte e dall’altra (Grespini 2016). Uno dei protagonisti di quella stagione, esponente del più temuto servizio d’ordine della città – una banda di periferia convertita alla militanza politica – dipinge una città trasformata a campo di battaglia, con bagarre continue fra gruppi di colori opposti, con la polizia, nonché fra gruppi di estrema sinistra. Nella descrizione del programma settimanale delle attività della «Banda Bellini» (Philopat 2002, p. 110), uno dei capibanda ricorda come le attività di judo e karate – particolarmente partecipate – fossero indispensabili per coltivare «la cultura dello scontro», «del corpo a corpo», che contraddistingueva il braccio marziale del movimento. Ai servizi di ordine erano assegnati compiti chiave nella vita politica di allora, quali il controllo dello svolgimento delle regolari attività dei gruppi autorganizzati, la difesa delle strade dalla presenza di nuclei di neofascisti, la tutela dell’incolumità degli avvocati e di altri esponenti di spicco dei gruppi della sinistra extraparlamentari, la testa delle occupazioni degli immobili condotte dai comitati inquilini. Ma soprattutto, spettava a questa specie di polizia interna, auto-addestrata e fortemente coesa, la gestione delle interazioni conflittuali con reparti celere e carabinieri durante le manifestazioni, quando contavano «esclusivamente due cose […] compattezza e determinazione» (Ibidem, p. 114).

Gli anni Settanta e Ottanta: il retaggio della cultura dello scontro

La parabola della lotta armata, il compromesso storico e l’inizio di una repressione senza quartiere sancisce il «reflusso» delle masse dalla vita politica (Melucci 1982). Con lo scioglimento dei gruppi extraparlamentari e l’immediato successo dei circoli del proletariato giovanile, dal 1975 i centri sociali fanno irruzione in città. Al proprio interno le nascenti strutture politico-aggregative inglobano diverse attività, tra cui dei corsi di

5.UNO SPAZIO POLITICAMENTE AFFINE

123

arti marziali. Una protagonista di allora riconduce l’origine delle palestre popolari proprio a quel periodo:

La palestra è nata dentro quel retaggio della cultura degli anni Settanta che guardava ai centri sociali come la fucina del soggetto rivoluzionario. Per cui l’autodifesa faceva parte del kit dell’alternativo. Lo scontro in piazza era “l’attività per lo sport e il tempo libero” come veniva definita. Quindi, ad esempio, non aveva canali di pubblicizzazione sulla città […] era dentro un discorso di auto-valorizzazione di una società altra e contro. E che partiva da delle competenze materiali delle persone. Sapevano anche un’arte marziale e la socializzavano tra gli amici invece che farlo da soli. (Elisabetta, intervista, 31 gennaio 2017)

In questa fase – che grossomodo abbraccia la prima e la seconda generazione di centri sociali – le palestre popolari esistono ad uno stadio embrionale. Il termine stesso “palestra popolare” ancora non apparteneva al vocabolario degli attivisti. Le arti marziali svolte rispondono ad una logica «tribale»/«gruppettara» non così dissimile da quella abbracciata dai servizi d’ordine degli anni appena trascorsi (Martin e Moroni 2007)2. Detto altrimenti, i corsi erano concepiti ad usum militante; privi di programmazione e chiusi al pubblico, servivano ad un numero ristretto di frequentanti dei centri per scopi di autodifesa: rafforzare la coesione tra un ristretto gruppo attivo in città, rinvigorire i muscoli e la prontezza dei riflessi in vista di azioni dirette – ad es., barricate nei cortei, ronde antispaccio, risse con nuclei di estrema destra, violazioni di proprietà. La stessa intervistata ricorda come l’esperienza di un’arte marziale all’interno del centro sociale Leoncavallo si allineasse perfettamente ai rischi dell’impegno femminista dell’epoca:

Io facevo thai boxe, ed era interessante perché eravamo tante donne e ancora c’era una cultura femminista che, insomma, si faceva vedere, faceva le azioni: scrivevamo sulle saracinesche dei cinema porno, pubblicavamo opuscoli sull’aborto, facevamo volantinaggio sull’aids che in quegli anni era una piaga. E tra le varie attività ci stava anche un corso di autodifesa (Elisabetta, intervista, 31 gennaio 2017).

Analogamente, l’istruttore di thai chi chuan e wushu di una palestra popolare odierna ricolloca il proprio avvicinamento alle arti marziali dentro le dinamiche di contrapposizione tra centro sociale ed estrema destra vissute in prima persona:

5.UNO SPAZIO POLITICAMENTE AFFINE

124

Io mi sono avvicinato alle arti marziali a 14 anni. A dire il vero all’epoca avevo molta paura delle arti marziali. Frequentavo un centro sociale… era il 1976 o 1977. Il centro sociale [Corso Lodi 95] erano delle case di ringhiera occupate. C’era chi ci viveva perché non poteva permettersi altri posti. Poi c’erano dei ragazzi che organizzavano attività politiche, ma anche ludiche se vuoi. Mi ricordo un gruppetto più grande di noi che giocava provando le mosse di karate. Io ero proprio spaventato, mi facevano tanta paura loro. Figurati a quell’età… Poi un giorno abbiamo subito un’aggressione fascista da parte di una banda che era al bar davanti al civico, dall’altra parte della strada. Qualcuno si è fatto male e la cosa ha scosso molto a me e ai miei amici. Allora ci siamo convinti iniziando ad allenarci anche noi più piccolini col karate. E da lì è nato un gruppo di amici e abbiamo intrapreso lo studio del karate (Jack, intervista, 6 maggio 2016).

Come a dire, in un periodo nel quale la violenza politica era all’ordine del giorno e assumeva le forme più imprevedibili, per i giovani avventori di uno spazio culturalmente connotato sembrava potesse tornare utile apprendere delle abilità marziali3.

Gli anni Novanta: la svolta difensivista

Sulla spinta del movimento della Pantera e in concomitanza con l’insurrezione dell’esercito zapatista contro il governo messicano, gli anni Novanta decretano un turning point per il movimento dei centri sociali (Mudu 2012). Nell’agosto-settembre del 1994 lo sgombero e l’immediata rioccupazione del Leoncavallo induce ad un generale ripensamento delle tattiche di piazza. Inquadrando l’importanza assunta dai media, i repertori di azione sono ripensati in senso più difensivista e mediatico, anziché di scontro frontale (Ibidem). In altri termini, si comincia a parlare di “resistenza passiva” ed azioni spettacolari. In parallelo, si fa largo la prospettiva di aprirsi maggiormente al territorio e rivendicare un ruolo più consapevole in quanto produttori di servizi aggregativi, culturali e assistenziali innervati nel tessuto urbano. Su questi temi si creano forti spaccature nelle diverse reti del movimento e affiora l’area disobbediente. Sebbene secondo modalità che continuano ad affermare orientamenti ideologici specifici, e senza

3 L’episodio più esemplificativo è l’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio, freddati attorno le 20 del 18 marzo 1978 mentre passeggiavano su un marciapiede di Via Mancinelli. Rivendicato dalla cellula terroristica di estrema destra dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) il caso è stato archiviato il 6 dicembre 2000 senza alcuna sentenza per via della mancanza di prove necessarie ad incriminare gli esponenti della destra eversiva individuati come esecutori del delitto. Numerose sono le ipotesi sulla dinamica degli eventi e sulle possibili collusioni tra servizi segreti, terrorismo di destra, criminali organizzata, sistema dei partiti (Adriano e Cingolani 2000). L’omicidio è infatti avvenuto due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro, nel pieno della stagione della lotta armata, dentro il clima di terrore istauratosi nelle metropoli italiane durante la seconda metà degli anni Settanta con il progetto dell’alleanza storica tra DC-PCI sullo sfondo. I due giovani, appena diciottenni, erano attivisti del Leoncavallo, da mesi impegnati nella stesura di un dossier sul traffico di droga nel quartiere Casoretto.

5.UNO SPAZIO POLITICAMENTE AFFINE

125

mai abbondare del tutto il repertorio della protesta, da questo momento in poi tutti le realtà autorganizzate cercano di rileggere le proprie attività in senso propositivo rispetto al contesto circostante, per «sottrarre spazi di autonomia e libertà culturale alla colonizzazione degli ambiti vitali operati dal mercato» (Montagna 2007, p. 215).

In primis dentro al Leoncavallo, anche la (ri)definizione della palestra e delle sue funzioni viene investita da questi processi:

Cioè mentre prima era autodifesa in generale, cioè la vita è una jungla […] Poi a un certo punto scatta il meccanismo dell’autodifesa collettiva, in manifestazione, e quindi una funzione del centro sociale diversa […] A quel punto la palestra è diventata uno spazio pubblico come tanti. Nel senso che lì, per dire, ad estate, in agosto, aspettando le ruspe, ci si doveva difendere contro di loro [i carabinieri] armati fino ai denti, e si facevano le simulazioni degli scontri, con le protezioni e tutto… avevamo iniziato a rivendicare questa cosa contestualmente alla svolta pacifista, cioè rivendicare l’autodifesa, in termini inoffensivi, no? Da cui poi è partita tutta la storia delle tute bianche [… per cui] la palestra, come attività strutturale, è stata compresa, progettata e rilanciata in via Watteau 7 [occupazione di una cartiera dismessa avvenuta nel 1994, attuale sede del Leoncavallo SPA] […] ok il diritto al benessere, benessere per tutti, palestra popolare, quindi palestra gratuita. Ma anche che le manifestazioni hanno bisogno di un servizio d’ordine per cui la palestra è uno spazio, come lo spazio riunioni, di cui deve essere attrezzato un centro sociale (Elisabetta, intervista, 31 gennaio 2017).

Nella nuova occupazione la palestra è immediatamente impostata come servizio aperto al pubblico, in un’ottica di promozione del diritto al benessere come anche di reclutamento politico. Vengono realizzate docce e un impianto di riscaldamento, ma il progetto non decolla. Contestualmente a un nuovo decreto legge sul controllo dei flussi migratori, la palestra viene adibita a ricovero per stranieri bisognosi di accoglienza4.

Nel Duemila: un nuovo sbocco per l’azione politica

Nonostante l’interesse per lo sport popolare tra i gruppi dell’autogestione inizi ad affermarsi attorno alla metà del decennio – la prima edizione del Torneo dei centri sociali, delle associazioni e delle comunità straniere è datata 1997 – è necessario attendere ancora nove anni perché a Milano faccia apparizione la prima palestra popolare. Il 2003 è segnato dall’omicidio del militante Davide Cesare «Dax», accoltellato

5.UNO SPAZIO POLITICAMENTE AFFINE

126

in un raid notturno per mano di due simpatizzanti neonazisti. L’episodio scatena la mobilitazione immediata dei collettivi antifascisti cittadini, seguita da una risposta repressiva5. La morte acuisce le tensioni tra gruppi di estrema destra e di estrema sinistra innescando un ciclo di azioni collettive6. In autunno i membri del collettivo RAF cui Dax era legato – sigla di Resistenza Antifascista, attiva per arginare la diffusione delle aggregazioni di destra – trasformano l’ex officina di un condominio ALER presidiata abusivamente dal 1992 in un corso di isoeikanbudo. Sorge così la prima palestra popolare a Milano:

Prima la palestra popolare a Milano era la palestra dei militanti: l’esperienza del Leoncavallo per intenderci. Negli anni invece, con l’evoluzione di un centro sociale diventa un qualcosa che tu offri anche al quartiere più in generale. La cosa che io ci tengo a sottolineare è che la palestra che ho contributo a creare non è nata come uno spazio per militanti. Ancora oggi la palestra popolare è palestra popolare, punto. È uno spazio destinato a quello. Non è un centro sociale. Non c’è una gestione di uno spazio politico. È un collettivo che gestisce solo lo spazio sportivo. E fa iniziative, anche politiche, però di tipo sportivo […] ma comunque quello che ho contribuito a creare è la palestra radicata in un contesto determinato. Non è che io ho creato un corso all’interno del comune […] Sennò andavo ad insegnare con il mio maestro, pagato, e avevo quello. Io l’ho voluto fare con dei compagni, in un contesto antifascista, a me vicino (Lorenzo, fondatore, da 14 anni in palestra popolare).

Da questo momento in avanti le palestre iniziano ad essere integrate nei centri sociali e in altre associazioni create da attivisti o ex attivisti.

La citazione permette di operare una sintesi delle condizioni che, sommate tra loro, hanno concorso alla fondazione della palestra popolare. In primo luogo, una sensibilità

5 In ordine di tempo, quello di Davide Cesare detto Dax è l’ultimo omicidio politico di un attivista della sinistra radicale avvenuto a Milano. La sera del 16 marzo 2003 – ricordata come la «Notte Nera di Milano» – un padre e i suoi due figli, di cui uno minorenne, attentano alla vita di tre amici-attivisti su un marciapiede di via Brioschi, di fronte ad un pub frequentato da giovani e meno giovani politicamente impegnati, o anche solo simpatizzanti di sinistra. Il movente è un’offesa subita dai killer mentre passeggiavano col cane di nome Rommel, per questo aggrediti – più verbalmente che fisicamente – da una decina di ragazzi del quartiere. Alla notizia dell’attentato dei tre attivisti segue un’immediata mobilitazione di fronte all’ospedale San Paolo, in solidarietà ai feriti ricoverati d’urgenza. La polizia schiera i carabinieri e «carica» i manifestanti fin dentro le corsie, dove in molti fuggono per trovare rifugio. Per i fatti di quei giorni, i giudici emettono sentenze detentive e pecuniarie che condanno sia gli assassini sia gli attivisti coinvolti nei disordini dell’ospedale, mentre restano impunite le forze dell’ordine coinvolte negli incidenti dell’ospedale (Associazione Dax 16 marzo 2003 e Mutuo Soccorso Bandito 2015).

6 Come accaduto per Fasto e Iaio, anche Dax è assurto a simbolo dell’antifascismo. Oltre alla nascita dell’associazione Dax 16 marzo 2003 e un elenco di iniziative difficilmente sintetizzabile, ogni 16 marzo viene organizzato un corteo in città. Sono numerosi i tributi che il mondo dell’underground ha dedicato a Dax, come canzoni, graffiti, le scritte «Dax Vive», «Dax Odia», «Dax Odia Ancora» visibili sui muri dei quartieri delle città di mezza Europa. Di fronte al civico in cui ha trovato la morte Davide Cesare è stata affissa una targa, che recita: «Rassegnazione è paura e complicità! / Contro la rassegnazione pensare l’impensabile! / Contro la paura imparare il coraggio! / Cospirare vuol dire respirare insieme / Viva Dax libero e ribelle Davide 16.03.03 / Ucciso perché militante antifascista».

5.UNO SPAZIO POLITICAMENTE AFFINE

127

nei confronti dell’autodifesa da parte di attori del mutamento che fanno uso dell’azione diretta. In secondo luogo, una generale apertura dei collettivi politici al contesto circostanti con l’obiettivo di insinuarsi nelle maglie del sistema economico, relazionale e simbolico. Inoltre, un ciclo di mobilitazione che traina un nucleo di attivisti all’elaborazione di una nuova progettualità. Come quarto aspetto, la presenza di risorse sociali e materiali imprescindibili a qualsivoglia azione collettiva (della Porta e Diani 1997).

L’intreccio fra questi fattori – autodifesa, clima culturale, mobilitazione, risorse

Nel documento MUOVERSI COME PUGILI COLPIRE COME COMPAGNI (pagine 120-158)