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Capitolo 4. La food experience

4.1. Il marketing esperienziale

Oggigiorno si parla sempre più spesso di esperienze. Di fatto, il consumatore odierno non si domanda più quale oggetto che ancora non possiede può acquistare, ma quali esperienze non ha ancora vissuto, dimostrando l’inserimento della cultura e delle esperienze culturali nella sfera del consumo. Jeremy Rifkin, economista, sociologo, attivista e saggista statunitense in “L’era dell’accesso” (2000), afferma che in un futuro ormai prossimo, non si parlerà più di possedere beni ma piuttosto di controllare le esperienze. Secondo l’autore, la cultura è stata posta in un recinto per poterla mercificare e trasformarla in esperienze a pagamento. La cultura si esterna infatti nelle parole, nei

gesti, nelle danze e arti del popolo a cui si riferisce. Secondo Clifford James Geertz, antropologo statunitense, in “Mondo globale, mondi locali: cultura e politica alla fine del ventesimo secolo” (1999), la cultura va intesa come una cornice colma di significati, all’interno della quale gli uomini vivono e condividono le loro convinzioni e danno vita alla solidarietà e al loro essere. Questo concetto fa comprendere come la cultura stessa sia agevolatrice delle varie forme di comportamento sociale e anche regolatrice delle esperienze, poiché alcune di esse possono essere vissute solo all’interno di determinate culture. Il modo di vivere le esperienze, inoltre, non è universale ma declinato e diversificato cultura per cultura e individuo per individuo. Di fatto, prendere un caffè al Caffè Gambrinus in Piazza Plebiscito a Napoli o al Caffè Florian in Piazza San Marco a Venezia è un fatto esperienziale che lascia sicuramente forti emozioni e piaceri. Queste due tipologie di esperienze sono sorte perché da singoli fatti sono nate delle storie culturali che si sono affermate grazie alla loro progressiva comunicazione. Le esperienze e i momenti della vita quotidiana, quindi, si possono definire tali grazie alla presenza del corpo, il quale ha il ruolo fondante non solo di far ricordare le proprie esperienze passate, ma anche di vivere e costruire le proprie passioni e articolarle.

Fig. 4.2. Il circolo comunicativo e cultural-esperienziale.

Fonte: Ferraresi, Schmitt (2018).

Il circolo comunicativo e cultural-esperienziale dimostra visivamente come la cultura e la comunicazione, due elementi esterni al corpo, producono continuamente delle impronte

che sono segnate nel corpo come esperienze. Il circolo mette in correlazione le esperienze esterne, del mondo, con quelle interne, dei pensieri e sentimenti, e crea sempre nuove impronte. Il circolo spiega anche il dilemma sociologico e storico relativo alla nascita dei consumatori esperienziali. Di fatto, il quesito che si pone, vede da una parte l’idea del parco a tema e la sua relativa comunicazione, la quale, secondo alcuni, ha fatto sorgere i consumatori esperienziali. D’altro canto, il pensiero di altri sostiene che dal desiderio dei consumatori di voler vivere esperienze si siano generati i parchi a tema. La risposta a questo dilemma sta nel mezzo, poiché dal circolo è possibile far operare entrambe le teorie, che si possono quindi definire entrambe vere (Ferraresi, Schmitt and Polesana, 2018). Di fatto, oggi i consumatori non ricercano più prodotti con caratteristiche funzionali ed estetiche, in grado di soddisfare i loro bisogni, ma vogliono esprimere la loro identità ed i loro valori mediante esperienze collegate ai processi di acquisto e consumo. Secondo M. R. Napolitano e A. De Nisco in “La rappresentazione dell'identità di marca attraverso i luoghi di acquisto: la brand experience e i flagship store” (2003), questa è l’era delle esperienze. I bisogni odierni si dividono infatti in esistenziali ed esperienziali. I primi comprendono quelli innati, già soddisfatti più e più volte, i quali sono utili agli individui per mantenere il loro stato di benessere. I secondi, invece, sono quelli che i consumatori vogliono soddisfare per provare qualcosa di piacevole e divertente, non legati all’ottenimento di qualcosa nello specifico (Dona, 2010). Secondo B. H. Schmitt, professore di business internazionale nel dipartimento marketing della Columbia Business School (Columbia University di New York), in “Experiential Marketing: How to Get Customers to Sense, Feel, Think, Act, Relate” (1999), esistono diverse tipologie di esperienze che si possono sviluppare in moduli esperienziali strategici (SEMs). Per creare un’offerta esperienziale, le cinque dimensioni che si possono sviluppare sono legate alla sensorialità (sense), all’affettività (feel), alla creatività e alla cognizione (think), alla fisicità e all’interazione (act) e alle relazioni (relate). Ognuna di esse è contraddistinta da una propria struttura che porta ad accrescere il valore dell’offerta e aiuta i clienti ad avere un legame più stretto con il brand (traduzione mia, Schmitt, 1999). Dal punto di vista della ricerca di marketing, l’esperienza di consumo si sviluppa totalmente sul consumatore, sul suo network e sull’impresa. Dall’analisi svolta sono state individuate altre cinque aree riconducibili all’esperienza. La prima è relativa alla “consumption experience” ed alle discipline comportamentali in fatto di consumo. La seconda, “consumer experience”, è l’area maggiormente studiata in quanto relativa all’individuo, grazie alla quale, sono state

classificate le varie possibili esperienze ed i processi di costruzione delle stesse. La terza è relativa alla “product and service experience” a cui fanno riferimento tutte quelle interazioni dirette, relative all’interazione fisica con il bene in questione, o indirette, mediante comunicazione pubblicitaria. La quarta area è dedicata all’”offline e online experience” mentre la quinta alla “brand experience” (Sfodera, 2017). Questa disciplina propone infatti anche un nuovo modo di fare branding. L’approccio tradizionale considera il brand come un identificatore statico dei prodotti di un’azienda che si realizza mediante nomi, loghi e slogan pubblicitari. Un approccio più moderno, invece, vede il brand come fornitore di esperienze. Questo avviene perché ogni impresa deve riuscire a essere attraente agli occhi del cliente, toccando tutti i cinque sensi, il cuore e la mente (traduzione mia, Schmitt, 1999). Ogni campo ha portato alla definizione di una nuova tipologia di offerta e ad una nuova area del marketing management la quale viene definita da Schmitt come Marketing esperienziale (Sfodera, 2017). Con il passaggio da una società basata principalmente sulla produzione ad una in cui l’elemento principale è il consumo, molte imprese hanno iniziato a spostare l’attenzione verso una differenziazione basata sulla creazione di un contesto, un set, all’interno del quale mettere in scena i propri marchi. In questo senso, se l’aspetto tecnologico può essere recuperato facilmente dai concorrenti, l’esperienza diventa un rito che arricchisce il marchio, qualcosa di irripetibile che riempie di senso il consumatore. Al momento dell’acquisto di un’esperienza, il consumatore spende tempo e denaro per beneficiare di una serie di eventi memorabili. All’interno dei luoghi di consumo si assiste quindi ad una spettacolarizzazione degli stessi e ad una teatralizzazione dell’esperienza di marca. Di fatto, questi punti vendita contribuiscono a soddisfare l’esigenza di comunicare al meglio l’identità del brand. Intorno ad esso si costruisce una realtà immateriale e comunicativa di grande identità e stile che porta alla personificazione della marca in quanto in grado di regalare emozioni, personalità e carattere proprio come un singolo individuo. Secondo Daniel Miller, antropologo inglese, grazie alla teoria della riappropriazione simbolica è possibile utilizzare i beni per “produrre” significati differenti rispetto a quelli per cui erano stati pensati dal sistema di produzione. L’utilizzo di un bene, infatti, fa rielaborare e riappropriare gli oggetti, generando una produzione simbolica che trasforma la merce in bene di consumo. Al contrario, George Ritzer, sociologo americano, sostiene l’esistenza di tanti prodotti ed esperienze che tendono verso il nulla, poiché prive di contenuto. Secondo l’autore, infatti, ne esistono anche altre, più dense che rappresentano qualcosa. Oggi il mondo è pieno di

non-prodotti, non-esperienze, non-servizi e non-persone, azioni e ruoli sociali standardizzati che, ripetuti e automatizzati, creano una progressiva perdita di contenuto sostanziale. Con la globalizzazione, l’identità di un brand non si basa più sull’appartenenza ad un territorio, ma sul riconoscimento delle merci che si rendono visibili mediante immagini e luoghi. Secondo Michel Foucault, sociologo francese, questi luoghi appartengono alle “eteroutopie”, a quei luoghi reali e localizzabili che sono allo stesso tempo anche l’inverso ed il rovesciamento degli stessi in quanto riescono a sottrarsi alla temporalità e alla spazialità inserendo l’individuo altrove (Ferraresi and Parmiggiani, 2007).

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