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II. LA STORIA INTERNA. ETNOGRAFIA DI UN’ISOLA

1. Il metodo

Per raggiungere gli obiettivi preposti si è strutturato un percorso metodologico che potesse coniugare organicamente due dimensioni: il lavoro etnografico sul campo, che si è condotto in un’area circoscritta secondo specifici parametri ed è stato associato alla conduzione di interviste in profondità ai suoi abitanti6; e una pratica di osservazione di lungo periodo intesa in senso lato, come partecipazione al contesto socio-politico cittadino più ampio. Infatti il periodo della ricerca è corrisposto ad una fase di forte mobilitazione collettiva promossa dal vivace tessuto associativo veneziano su temi strettamente affini a quelli che l’indagine etnografica intendeva trattare, quali la turistificazione e i suoi effetti sulla vita degli abitanti, la fruizione degli spazi pubblici, il rapporto della comunità con il patrimonio storico-artistico, la gestione politica dell’industria turistica. Tali mobilitazioni, articolate sullo spazio urbano e riportate dai quotidiani, hanno alimentato nel tempo un milieu discorsivo e una sensibilità sociale diffusi, divenendo punti di riferimento non trascurabili per la comunità residente. In considerazione di ciò si è adottata una concezione allargata di campo, inteso come punto di intersezione di linee di forza che in esso si concentrano, ma che potenzialmente anche lo trascendono: il campo specificamente analizzato, infatti, non si costituisce come nucleo isolato ed autonomo rispetto al complesso cittadino, ma è parte integrante di un contesto che incessantemente vi si riverbera e da cui esso viene incorporato. Durante l’intero periodo, pertanto, si è seguita da vicino anche l'attività di associazioni e comitati locali e si è mantenuta una partecipazione assidua a convegni, incontri pubblici, dibattiti, manifestazioni, iniziative sociali e politiche legati ai temi di interesse7, oltre alla consultazione quotidiana di giornali e riviste, pagine Facebook e blog. In questo modo è stato possibile familiarizzare con lo stato attuale del discorso pubblico sulla città e sul problema dello sviluppo turistico, individuando sensibilità collettive, gerarchie tematiche, gradienti di urgenza, scelte linguistiche, percezioni condivise e problemi avvertiti dalla popolazione locale.

Per quanto invece riguarda il lavoro sul campo, seppur preceduto da una prolungata fase di approfondimento teorico e acquisizione concettuale, esso ha seguito un procedimento di tipo induttivo: per quanto alcune ipotesi di massima abbiano fatto da sfondo alle 6 Vedi anche M. Pavanello, Fare antropologia: metodi per la ricerca etnografica (2010) e C. Pennacini,

La ricerca sul campo in antropologia. Oggetti e metodi (2010)

7 Vedi appendici n. 4-5. Vedi anche R. Sanjek, "Going public: responsibilities and strategies in the aftermath of ethnography", in Human organization, 2004, pp. 444-456 e I. Severi, N. Landi. Going

conversazioni, si è lasciato cioè ampio spazio ai soggetti con cui ci si relazionava di generarne inesauribilmente di nuove, in base agli spunti emergenti dall’articolazione progressiva dei racconti. Sulla scorta dei suggerimenti di Ciucci, flessibilità ed emergenza sono dunque stati i principi cardine sui quali il disegno di ricerca si è orientato. Anziché procedere ad una sequenza lineare di operazioni previamente programmate, si è quindi mantenuta una continua interazione tra le varie fasi del lavoro, ovvero tra costruzione dell’impianto teoretico e lavoro etnografico, connesse in una costante e modulabile relazione di reciproco feedback. Ad una forma di interrogazione standardizzata si è preferita perciò quella che Ciucci definisce «strategia relazionale» complessa, in cui

il ricercatore preferisce abbandonare le certezze e le assolutezze dell'approccio positivista e determinista, per passare ad una costruzione di senso partecipata e processuale, assieme agli altri soggetti, entrando in relazione con essi8.

Vediamo quindi nel dettaglio i principi metodologici in base ai quali il lavoro etnografico è stato strutturato e realizzato.

Posizionamento

La ricerca è stata condotta da una prospettiva di semi-internità. L’autrice, infatti, pur non essendovi nata, abita da circa dodici anni nella città oggetto di analisi per motivi di studio e lavoro. Qui è stata peraltro direttamente attiva in diverse esperienze di mobilitazione politica e civica che si sono succedute nel corso del tempo, stringendo legami di cooperazione con il tessuto associativo locale. Il bagaglio di esperienze e conoscenze acquisito in questo periodo, tanto concettuali quanto incorporate nella prassi di quotidiana fruizione dell’ambiente urbano, si è rivelato a posteriori di fondamentale ausilio nella concretizzazione del lavoro. Infatti, in virtù della prolungata presenza nel luogo sia il dialogo con i suoi abitanti sia l’attività ermeneutica sui contenuti emersi sono proceduti da una posizione di autentica prossimità, mediati da una approfondita conoscenza della comunità locale, dei suoi usi, del suo linguaggio, dei suoi riferimenti simbolici, in una parola del suo cosmo. Da un lato, infatti, dal momento che l’autrice non è autoctona, ma “veneziana acquisita”, tale prossimità non si è mai assottigliata in identità, garantendo la permanenza di un margine di alterità e non completa assimilazione che ha arricchito lo scambio discorsivo, impedendogli di adagiarsi su riferimenti ritenuti condivisi, implicazioni sotto-intese e significati ovvi o presunti tali. Non è andata così smarrita quella 8 F. Ciucci, L'intervista nella valutazione e nella ricerca sociale. Parole di chi non ha voce (2012), p. 54

componente di auto-analisi che viene innescata dal confronto con l’altro, in risposta alla necessità di narrare qualcosa che non è parimenti esperito o conosciuto da entrambi i membri della conversazione. Dall’altro lato, invece, la condivisione personale della condizione di abitante della città d’acqua, oltre a permettere una comprensione più ampia dei vissuti e della parole degli intervistati, ha generato nell’incontro un clima di fiducia, dando ai soggetti la sensazione di essere effettivamente compresi e di rivolgersi a qualcuno che “sa di cosa si parla”. Si tratta di un aspetto a Venezia particolarmente sensibile, data la frequenza con cui gli abitanti vengono interrogati in telegiornali, documentari, articoli di stampa, reportages o sottoposti a questionari di natura quantitativa su temi parzialmente affini a quelli della ricerca. Questo ha generato una sorta di abitudine all’intervista che però si trincera in una forma impersonale e il più delle volte superficiale di scambio, con interlocutori che non conoscono che grossolanamente Venezia e la sua comunità e tendono pertanto a porre domande ripetitive o poco significative. Si è indotta così nella popolazione una diffusa ritrosia alla conversazione e una certa diffidenza nei confronti dei conduttori, quando non una altrettanto problematica tendenza all’adozione di modalità recitative consolidate: entrambi atteggiamenti che costituiscono un effettivo scoglio nell’incontro dialogico con i veneziani. Così, ad esempio, il membro di un’associazione locale racconta il suo rapporto con l’insistente mediatizzazione:

Tutti quanti hanno paura le prime volte della telecamera, del robetto rosso, del microfono...Però poi ho fatto talmente tante interviste che mi sono abituato e ci sono tutti i miei amici che si mettono a ridere. Mi piace perché logico che come ogni essere umano hai la tua dose di vanità e quindi ti senti importante, utile alla collettività. E però quello che mi smona è che dico sempre le solite robe perché mi fanno sempre le solite domande. E quindi...sembro un disco rotto.

Luogo di grande complessità, anche a causa di una natura anfibia che ha favorito lo sviluppo di un peculiare modo di abitare, con pratiche, usi, linguaggi e costumi cuciti su misura, Venezia richiede dunque una esperienza lunga e dilatata nel tempo per poter essere anche solo parzialmente afferrata. Pertanto, in aperto contrasto con le posizioni che sostengono la necessità di mantenere una rigorosa distanza etnografica in quanto garanzia di una comprensione non pregiudiziale e oggettiva delle comunità indagate, la prospettiva di semi-internità si è rivelata in realtà dotata di un grande valore euristico, poiché capace di coniugare una sufficiente dose di alterità con un altrettanto necessario grado di prossimità. Del resto, l'appartenenza al contesto di ricerca non può certo eliminare la dicibilità sul mondo che appartiene essenzialmente anche all'antropologo, come ad ogni altro membro della comunità.

Questo risultato è stato tuttavia raggiungibile a condizione di mantenere un atteggiamento pienamente riflessivo, dove il proprio modo di osservare e il prodotto quotidiano dell’osservazione sono stati sistematicamente messi in discussione e si sono adottate determinate cautele metodologiche per garantire alla ricerca un adeguato livello di validità scientifica. Pertanto, data la naturale tendenza degli interlocutori ad intercettare ed assecondare le aspettative o le opinioni dell’intervistatore, si è sempre fatto in modo che esse non trasparissero, nemmeno per via indiretta o per interposta persona; un compito che non si è rivelato semplice in una realtà sociale ristretta, interconnessa e ciarliera quale è quella veneziana. Innanzitutto, si è quindi scelta una area di ricerca in cui non si è mai abitato o lavorato e si sono intervistate esclusivamente persone non conosciute previamente né aventi amicizie o conoscenze comuni, in modo da limitare il più possibile l’effetto di perturbazione. Ci si è inoltre presentati sul campo con un profilo neutrale di ricercatrice universitaria, senza accennare all’impegno pregresso nel tessuto associativo locale, e non si è consentito l’accesso al proprio profilo sui social networks se non una volta concluso lo scambio dialogico e solo nel caso in cui la persona interessata non fosse a sua volta intermediaria verso altri interlocutori. Non si è quindi partecipato ad attività politiche o sociali in qualche misura connotanti nell’area considerata per l’intera durata della ricerca e si è parimenti evitata ogni esposizione pubblica che prevedesse l’espressione di posizioni ideologico-politiche, in modo da non condizionare le persone con cui ci si interfacciava pregiudicandone la spontaneità comunicativa.

In sintesi, quello che così si è voluto conseguire è un bilanciamento equilibrato tra alterità e prossimità, tra oggettività e soggettività, al fine di oltrepassare le rigide e sterili dicotomie su cui si fonda il cosiddetto paradigma oggettivista9, cercando al contempo di limitare gli effetti distorsivi che un eccessivo disvelamento della individualità del ricercatore può produrre sul dialogo. Un simile intento si inserisce nel quadro di un peculiare modo di intendere il ruolo dell’antropologia nel mondo contemporaneo, che si lascia definitivamente alle spalle la concezione di stampo coloniale della possibile esistenza di uno sguardo distaccato e neutrale rivolto ad una società altra per rivendicare invece la funzione autenticamente pubblica e politica del sapere etnografico. Quale membro attivo e parte integrante della comunità che studia, infatti, l’antropologo può mettere a sua disposizione i propri strumenti analitici per promuoverne una maggiore riflessività, generando al suo interno stimoli che facilitino un incremento di auto-comprensione. Da occhio ciclopico che osserva e deduce, dischiudendo per altri i cosmi attraversati, egli può divenire così strumento di accrescimento della coscienza collettiva del gruppo sociale cui appartiene, rendendo il sapere etnografico uno specchio per il riconoscimento infra-culturale, oltre che interculturale. Ciò non significa naturalmente 9 S. Portelli, La città orizzontale: etnografia di un quartiere ribelle di Barcellona (2017), p. 284

sposare la più assoluta arbitrarietà metodologica, quanto piuttosto non rifiutare aprioristicamente la propria appartenenza al gruppo studiato, elaborando invece proprio a partire da questo dato strategie di ricerca adeguate, capaci di garantire una effettiva scientificità pur rinunciando all’oggettività quale valore assoluto. Si tratta di un modo organico10 di approcciarsi ai gruppi umani che non rifugge la spinta passionale che lo muove, per quanto rimanga attento ad esplicitarla chiaramente e a confrontarvisi in modo critico.

Qual è dunque la passione che muove la presente ricerca? Si è deciso di interrogare gli abitanti di Venezia innanzitutto per una forma di stupore di fronte alla loro sorte, di curiosità di fronte ai loro vissuti quotidiani, nonché di grande rispetto per le strategie adattative e i moti di resistenza che essi mettono in atto per rispondere ad un ambiente che si trasforma con grande rapidità, sollecitandoli ad una perpetuo sforzo riorganizzativo. Per una intima condivisione di destini, di speranze e di paure. Per un autentico dolore nei confronti di una cultura inesauribilmente ricca e variegata, dalla millenaria storia e dalle continue reinvenzioni, oggi così pesantemente minacciata dall’omologazione capitalistica. Per il desiderio di comprendere come tale divenire sia effettivamente stato possibile e di aiutare la propria comunità a comprenderlo a sua volta, interrogandosi sul tema in modi più fertili, ovvero secondo chiavi interpretative più stimolanti di quelle in cui i rivoli del discorso mediatico normalmente si incanalano. Proprio per questo l’origine e la destinazione finale del presente lavoro tendono a coincidere, conferendo al momento della restituzione un’importanza decisiva. Da corollario dell’indagine etnografica, spesso peraltro trascurato, la diffusione pubblica dei risultati emersi ne diviene qui il fulcro, laddove il dialogo con la comunità costituisce allo stesso tempo il mezzo e il fine dell’intervento della ricercatrice. L’intento non è infatti quello di estrarre dal gruppo sociale prescelto informazioni e memorie per trasporle sul piano astratto della narrazione accademica, ma di creare una circolarità virtuosa in cui la comunità è al contempo datrice, produttrice e recettrice di informazione: in cui cioè il sapere etnografico può assumere un autentico valore d’uso per gli stessi soggetti insieme ai quali è stato plasmato.

Un simile approccio risponde peraltro ad un bisogno sinceramente sentito da parte dei destinatari, che con assidua frequenza propongono incontri di approfondimento sulle tematiche trattate, nonché da parte degli stessi intervistati, che hanno ripetutamente premesso alla conversazione la richiesta di essere resi partecipi dei risultati finali dell’indagine. È infatti proprio la restituzione l’anello capace di garantire alla catena etnografica una effettiva orizzontalità, dal momento che è in questo atto che diviene possibile smarcarsi dallo sfruttamento della comunità quale oggetto di esotica fascinazione o di personale affermazione per porsi invece integralmente al suo servizio, offrendole 10 Ivi, p. 292

concreti strumenti di apprendimento e maturazione. È quindi soprattutto in questo ultimo movimento che l’antropologia risponde fattivamente alla funzione politica che, come ogni sapere umano, anch’essa è chiamata ad assolvere.

Le tecniche

La ricerca etnografica condotta rientra nella categoria delle indagini qualitative, centrate cioè sulla comprensione dei significati emici delle rappresentazioni e dei comportamenti dei soggetti. In accordo con la visione oggi corrente, che ha abbandonato come stereotipa una rigida distinzione tra ricerca qualitativa e quantitativa dal momento che le due dimensioni paiono co-implicarsi nella maggior parte degli studi, si intende qui con qualitativa la non codificazione standardizzata dei risultati tramite regole statistiche ed il rispetto dei principi di pluralità e composizione11. Tale formula include infatti un insieme variegato di pratiche che sono state esercitate in modo sinergico nel corso del tempo, quali osservazione partecipante, note di campo, interviste in profondità, analisi di documenti storici e testimonianze familiari, rappresentazioni fotografiche, costruzione di modelli analitici.

Accanto all’assidua presenza sul campo, che ha avuto cadenza quotidiana, un ruolo preponderante nella costruzione della ricerca e nell’elaborazione del suo impianto teorico hanno avuto le interviste in profondità realizzate con gli abitanti dell’area campione. Primo problema, in questo ambito, è stata l’individuazione di un criterio di demarcazione delle categorie di persone idonee all’intervista per gli scopi che ci si prefiggeva. Si è quindi stabilito innanzitutto di focalizzarsi sugli abitanti del luogo, lasciando al di fuori dell’inquadratura turisti e visitatori, che costituiscono una popolazione mobile e in transito, la cui quotidiana mutevolezza non consente l’esercizio di una selezione rappresentativa. Data però la liquidità della categoria “veneziano”, ampiamente variabile a seconda di chi viene invitato a fornirne una definizione, si è qui optato per una concezione non etnica o identitaria del termine (a causa dello scarso valore che gli abitanti attribuiscono a questo aspetto), né burocratico-amministrativa (data la sua scarsa rappresentatività, escludendo essa un largo spettro di casi che sono imprescindibili per la restituzione di un’immagine realistica della comunità indagata). Si è invece sposata come categoria demarcativa l’abitare in senso lato, qualsiasi sia lo status giuridico che a tale condizione può associarsi. Si sono poi limitate le interviste agli abitanti dell’area campione (l’insula dei Santissimi 11 Vedi D. Della Porta, L'intervista qualitativa (2014)

Apostoli) oppure a chi quotidianamente vi lavora, pur abitando in un’altra area della città storica o al di fuori di essa. Il parametro di selezione è stato infatti individuato nella presenza di un rapporto assiduo ed organico con il luogo che, indipendentemente dalla forma specifica con cui si concretizza, preveda una frequentazione continuativa e duratura dell’area. Per tale motivo si sono esclusi i detentori di seconde case, che, pur avendo talvolta una approfondita conoscenza della città, intrattengono con essa un rapporto di natura saltuaria che solo parzialmente li implica in un legame biunivoco e pare pertanto, nel continuum fluido che caratterizza la spazialità delle società cosmopolite odierne, più prossimo alla fruizione turistica che all’abitare12.

Una volta individuati i soggetti di interesse, si è proceduto secondo una duplice modalità. Da un lato si sono raccolti contatti attraverso l’incontro diretto con i frequentatori dell’area durante la presenza sul campo, previa presentazione personale e del progetto di ricerca. Dall’altro si è elaborato un doppio livello di raccolta delle testimonianze, articolato in più fasi:

I) si sono individuati i soggetti forti per livello di interazione sociale (testimoni privilegiati), quali commercianti, organizzatori di eventi, portavoce di associazioni o circoli, baristi, e si è chiesta loro una lista di nominativi appartenenti al proprio giro di frequentazioni, tramite un tradizionale campionamento “a palla di neve”. Essi sono stati selezionati secondo il criterio della maggiore eterogeneità possibile per quanto riguarda classe sociale, visione politica o livello culturale, così da intercettare il più alto numero di nicchie sociali presenti sul campo.

II) Si sono poi contattati gli informatori generici individuati dai testimoni privilegiati e li si è intervistati. Si sono predilette persone ordinarie, che non ricoprissero ruoli pubblici o avessero profili di leaders, essendo oggetto precipuo dell’indagine le modalità percettive e narrative collettivamente diffuse dell’ambiente urbano. Essi hanno fornito la maggioranza dei casi concreti su cui si è valutata l'esistenza di regolarità sociali, la pluralità dei contesti d'uso delle nozioni e dei concetti locali, la plausibilità delle riflessioni critiche e interpretative sulle rappresentazioni collettive.

III) Si è creata una prima elaborazione sommaria di temi e risultati emersi dalle interviste e la si è sottoposta ai testimoni privilegiati, chiedendo un loro commento ed introducendo così un secondo livello di analisi che costituisse già in nuce una forma di auto-riflessione della comunità.

12 Vedi C.M. Hall, D.K. Müller, Tourism, mobility, and second homes: between elite landscape and

IV) Ci si è infine confrontati con entrambi i livelli di interpretazione per elaborare i risultati finali.

Infatti l'obiettivo ultimo era quello, attraverso la ricostruzione narrativa della propria esperienza cui l'intervista conduce, di coinvolgere i locali fino a farli intervenire nella definizione del quadro concettuale della ricerca. Si trattava di fare ciò che a Venezia è raramente stato sperimentato, ovvero lasciar emergere dalle parole e dai gesti degli abitanti stessi, tramite una sorta di composizione collettiva a patchwork, un quadro di analisi ed interpretazione del processo storico recente attraversato dalla città e vissuto nella quotidianità da ciascun soggetto in modo diverso. Dare quindi voce a persone cui di frequente sono state sovrapposte categorie dense e giudizi talvolta precostituiti, dando loro l'opportunità di interrogarsi sul proprio abitare e, oltre l'ipertrofia narrativa e la prolissi d'immaginario che sommerge Venezia, di raccontarlo con parole proprie.

In realtà tale impianto metodologico, ipotizzato nella fase iniziale della ricerca, si è potuto adottare nella concretezza del campo in maniera parziale. Si è infatti rivelato efficace solamente quando il testimone privilegiato era un soggetto avente un ruolo organizzativo in strutture associative o una sensibilità politica, ovvero qualora egli fosse già in qualche modo familiare con i temi trattati dalla ricerca, quindi più pronto a comprenderne natura e motivazioni e a coinvolgervi attivamente le proprie conoscenze.

In generale, inoltre, si è riscontrata una certa difficoltà preliminare nell’instaurazione del dialogo: ardua si rivelava infatti per i soggetti la comprensione di cosa esattamente la ricercatrice volesse da loro, di quale fosse l’oggetto specifico della conversazione e di come fosse strutturata. Molto spesso, poi, essi sentivano il bisogno di smarcarsi

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