Capitolo III. La situazione italiana
3.2 Il museo italiano negli anni del cambiamento
L’Italia è nota al mondo per essere il paese del museo “diffuso”, che conta una grande varietà e numerosità di istituzioni museali, la densità di musei rispetto al numero di abitanti è tra le più elevate al mondo, nel 2006 pari a 71 per milione di abitanti; una conformazione istituzionale caratterizzata da regimi giuridici differenti, situati in territori altrettanto eterogenei (Baia Curioni, 2008). Tale peculiarità è stata indicata da Baia Curioni (2008) come una delle difficoltà da fronteggiare in termini metodologici e concettuali al fine di individuare schemi di gestione adattabili alla pluralità dei casi, senza rischiare allo stesso tempo di avere dei processi produttivi troppo generici. Le varietà del patrimonio culturale italiano è uno degli aspetti che conduce gli istituti museali ad operare instaurando una mediazione sempre più connessa tra istituzione pubblica centrale e singole realtà locali, anche mediante la devoluzione della gestione del patrimonio storico-artistico ai privati, approccio gestionale utile per dare priorità alla risoluzione dei problemi organizzativi, affinché il sistema normativo possa trovare applicazione concreta e opportuni spazi di sviluppo (Trimarchi, 2002).
Una soluzione confacente alla valorizzazione di un patrimonio culturale così frammentato è stata individuata nello sviluppo cluster museali30 (Cini, 2007) che
consentono di conseguire vantaggi in termini di visibilità ed efficienza, promuovendo la cooperazione nel territorio e integrando risorse e servizi (Istat, 2019). L’Istat ha rilevato che nel 2019 in Italia il 42,5% degli istituti aderisce a sistemi museali organizzati, che includono altri musei o istituzioni, allo scopo di condividere risorse umane, tecnologiche o finanziarie. Questo tipo di gestione sistemica è diffusa maggiormente in alcune regioni come la Toscana, l’Umbria, il Lazio e l’Emilia- Romagna, in misura minore in Valle d’Aosta, Calabria e Abruzzo, più che in altre. La maggioranza dei musei pubblici (72,6%) è propensa a “fare sistema”, mentre per i musei privati è una strada ancora nuova che è stata intrapresa solo negli ultimi anni (Istat, 2019).
In merito alla situazione italiana degli ultimi anni, Migale (2010) riscontra una crescita qualitativa e quantitativa degli istituti museali, dovuta anche alla riapertura di strutture ormai chiuse da molto tempo. Lei stessa le qualifica come condizioni che hanno
favorito lo sviluppo del territorio e degli istituti stessi, in termini di completamento o ampliamento delle collezioni, consentendo così di mostrare una parte delle opere che precedentemente si trovavano nei magazzini. Una crescita resa possibile anche dall’accesso ai finanziamenti europei, i quali hanno consentito di investire maggiormente nelle attività e nel rilancio di rinnovati musei. Al processo di crescita è mancata la volontà di trasparenza e controllo in relazione all’accountablity e alla governance, in altri termini è emersa una carenza nel controllo della gestione dovuta, stando alle dichiarazioni di Migale (2015), alla mancanza di strumenti contabili adeguati e all’assenza di programmazione nelle scelte strategiche, entrambi fattori poco discussi nel panorama culturale ma indispensabili. L’ istituzione dell’obbligo di redazione del bilancio economico in capo ai musei, non comporta necessariamente la volontà di orientare la propria attività al conseguimento del profitto, ma consente a ciascun istituto di potenziare le capacità di individuazione e misurazione delle specificità del settore per poi farle confluire nella ricerca dell’economicità di gestione (Migale, 2010). Per contro, l’Italia si confronta da decenni con una gestione insoddisfacente dell’intero patrimonio italiano, dove tuttora innumerevoli istituti sono ancora condannati alla marginalità e al degrado, situazione che il settore pubblico non si è dimostrato in grado di gestire da solo e in modo diretto (Volpe, 2019). Sommando, a tale incapacità, i tagli di bilancio che hanno caratterizzato gli ultimi anni, dovuti alle crescenti difficoltà economiche, si giunge ad una penalizzazione del patrimonio artistico, il quale necessita invece di essere valorizzato (Migale, 2010). Oltre alle riduzioni che hanno interessato il patrimonio culturale a seguito della crisi finanziaria, il sistema museale è continuamente soggetto a tagli dei finanziamenti da parte dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, riduzioni che mettono in discussione la sopravvivenza delle strutture stesse.
Tarasco (2019) individua quelle che per lui sono le principali cause di cattiva gestione nelle organizzazioni museali, le quali possono essere ricondotte principalmente a tre fattori che agiscono simultaneamente: la concentrazione di beni culturali nel territorio nazionale, l’incremento delle strutture museali e la prevalenza della gestione centralizzata. L’elevata concentrazione di beni culturali che caratterizza il patrimonio italiano è spesso vista esclusivamente come fonte di ricchezza ma in realtà è anche una causa dei problemi gestionali, in special modo se associata ad altri fattori quali la proliferazione delle strutture museali (con i correlati costi di funzionamento) e la tendenza a una gestione quasi esclusivamente pubblica. Un'altra questione tutta
italiana è la vasta diffusione del patrimonio privato che contribuisce alla dispersione della domanda di fruizione, si pensi per esempio al patrimonio di proprietà ecclesiastica. In confronto i Paesi stranieri con maggiore disponibilità di reddito rispetto all’Italia sono favoriti perché non possiedono un patrimonio vasto e diffuso come quello nostrano e i finanziamenti pubblici possono risultare sufficienti in quelle realtà come la Francia, dove sono presenti pochi grandi musei (Tarasco, 2019). Queste condizioni si combinano con la presunzione di una gestione pubblica diretta e indistinta di tutte le strutture espositive. La mancanza di consapevolezza del valore economico deriva da un orientamento amministrativo che considera il patrimonio esclusivamente come fonte di spesa inevitabile e non anche come fonte di entrata. Inoltre, esiste una diffusa consapevolezza dell’effetto economico indiretto verso i settori produttivi, mentre è considerato blasfemo avvalersi del patrimonio culturale come strumento utile alla ricerca dell’equilibrio di bilancio e come mezzo di riduzione del debito pubblico (Tarasco, 2019).