2.1. GENESI DELLA CITTA’ SUB SAHARIANA
2.1.2. Il ruolo della colonizzazione nella città sub sahariana
L’Africa a sud del Sahara sta crescendo notevolmente in quanto ad urbanizzazione in questi ultimi anni, le aree urbane, infatti, assumono sempre più importanza in confronto a quelle rurali, e ospitano, oggi, gran parte della popolazione africana. Questa grande espansione urbana era già stata accertata e descritta nel 1955 con un rapporto della Commissione reale britannica per l’Africa in cui si parlava delle città di questo paese come luogo della vita sociale, intellettuale, economica e politica del paese. Si parla inoltre della diffusione della città come cambiamento, come incentivo al progresso.
Come abbiamo già visto nel paragrafo precedente, si ritiene che esistessero delle organizzazioni urbane o para urbane africane già prima del colonialismo, anche se probabilmente con un assetto diverso da quello poi dato dagli invasori. Si pensa che tra il XVII secolo e la prima metà del XIX, durante le prime colonizzazioni europee, ci fosse persino una stretta collaborazione fra governo
52 dell’élite locale, che faceva da intermediario sul fronte
commerciale, e i coloni; i due attori erano ancora su un livello di parità, non c’era sfruttamento, le popolazioni locali non avevano ancora rinunciato alla propria identità, come accadrà durante l’occupazione coloniale in seguito. Queste città erano probabilmente fondate dai coloni attorno a nuclei di insediamento preesistenti, ma rette e abitate prevalentemente da africani.
Il colonialismo in Africa da parte delle nazioni europee, raggiunse il proprio apice a partire dalla seconda metà del XIX secolo, periodo in cui si ebbe una vera e propria spartizione del continente e i cui protagonisti furono soprattutto Francia e Gran Bretagna, e in misura minore, Germania, Portogallo, Italia, Belgio e Spagna.
Riferendosi spesso a una presunta "missione civilizzatrice", nei confronti soprattutto dei popoli relativamente arretrati dell'Africa subsahariana, le potenze coloniali europee si dedicarono soprattutto allo sfruttamento, a loro favore, delle risorse naturali del continente. Soltanto in alcuni casi la presenza europea in Africa portò a un effettivo sviluppo delle regioni occupate, per esempio attraverso la costruzione di infrastrutture. Nei luoghi in cui si stabilirono le comunità di origine europea, infatti, la popolazione locale fu in genere discriminata politicamente, economicamente e anche dal punto di vista sociale.
Il colonialismo europeo si espresse principalmente in due modi nel continente: colonialismo commerciale e
53 colonialismo moderno, cioè sfruttando le materie prime
presenti nell’entroterra.
Fino al XIX secolo il continente africano presentava solo forme di colonialismo commerciale, diffuso lungo le coste. Portoghesi, Inglesi, Francesi e Olandesi si erano limitati a fondare varie basi sulle coste africane. Esse, da un lato, servivano da supporto ai bastimenti in rotta lungo le grandi vie di comunicazione marittima e, dall'altro, fungevano da centri di smistamento e raccoglimento delle merci e dei prodotti africani: oro, pelli, avorio, legni pregiati, caffè, pietre preziose, che erano destinati ad essere esportati in Europa. Importante aspetto di questo tipo di colonialismo, era il commercio degli schiavi, che si diffuse fra il XV e il XVIII secolo. In questo periodo un grande numero di africani veniva rastrellato e venduto come schiavo da parte di quei mercanti europei detti negrieri. Questi provvedevano poi a portarli con le loro navi attraverso l’Oceano Atlantico per venderli ai grandi latifondisti americani, come schiavi adibiti alla coltura delle piantagioni. Questo commercio darà grandi guadagni e cesserà solo nel corso del Settecento e dell’Ottocento, quando dovunque si sancirà l’abolizione della schiavitù in seguito all’affermazione del pensiero illuminista e l’avvento di esploratori – missionari provenienti dai paesi protestanti del nord Europa come
per esempio David Livingstone.
Dal XIX secolo il colonialismo moderno si è volto, invece, allo sfruttamento delle risorse naturali dei paesi colonizzati. La penetrazione coloniale nell’entroterra in Africa avvenne dopo spedizioni esplorative, che
54 permettevano di capire e studiare le risorse presenti sui
territori. In seguito a ciò, le potenze europee decisero di impossessarsi dei territori africani per avere materie prime e importanti basi e traffici commerciali. Inizia allora l’espansione coloniale, che raggiunge il suo apice nella seconda metà dell’Ottocento.
Le potenze europee iniziarono una vera e propria corsa alle colonie: ogni paese inviava in Africa contingenti militari per occupare i vasti territori dell’entroterra. Gli europei consideravano i terreni del continente “terra di nessuno”, l’Africa era dichiarata res nullius, e ciò permetteva loro di appropriarsene senza scrupoli, poiché non erano sotto alcuna giurisdizione. I territori venivano occupati sia con la forza sia con la diplomazia, concludendo trattati con i capi dei popoli africani, con cui cedevano la loro sovranità alle potenze europee. Successivamente, le aree occupate dalle truppe venivano proclamate colonie dalla madrepatria, e considerate proprio territorio.
Dopo l’occupazione militare, la madrepatria poneva sul territorio occupato un'amministrazione e un esercito, modellati secondo la tradizione europea. Ovviamente, c’era, da parte della madrepatria, l’interesse a mantenere il potere; per far questo, le potenze europee iniziarono a mandare cittadini bianchi nei territori occupati. Questi divenivano i detentori del potere nelle colonie e la classe dirigente, seppur sempre soggetta alle decisioni della madrepatria. Essi mantenevano nelle proprie mani il potere politico ed economico; solo i funzionari bianchi,
55 nell’amministrazione e nell’esercito. Si arricchivano
sfruttando le risorse delle colonie, latifondi, piantagioni, miniere, impiegando come manodopera gli indigeni sfruttandoli e sottopagandoli.
Il dominio bianco era imposto alle popolazioni indigene nere, costrette ad accettarlo; ogni loro tentativo di resistenza era spezzato dalla violenza delle truppe coloniali bianche. I bianchi avevano la convinzione di essere superiori rispetto alla popolazione locale di pelle nera. Ciò spiega le vessazioni e le atrocità che subivano gli indigeni durante il colonialismo; le truppe coloniali ricorrevano spesso, per incutere timore e sedare le ribellioni, a metodi atroci, come la distruzione di villaggi, la cattura di ostaggi, le torture, le esecuzioni di massa e massicce deportazioni. In certi paesi si arrivava addirittura allo sterminio di interi popoli indigeni che si erano dimostrati contrari al predominio.
Le popolazioni indigene che si ritrovarono costrette e sottomesse al volere e alle politiche coloniali, erano costrette ad accettare lingua, religione e cultura europea. Le élite delle popolazioni indigene, i capi di tribù, spesso riuscivano a trarre alcuni vantaggi dal colonialismo, per esempio occupare posti nell’amministrazione coloniale, anche se di minore importanza e studiare presso scuole europee.
Il colonialismo ha quindi portato a un impoverimento dei popoli neri, sia in termini economici sia in termini culturali; i bianchi hanno distrutto la cultura e lo stile di vita dei popoli indigeni, imponendo il proprio, e sfruttando le loro ricche risorse. Inoltre l’impostazione
56 politica data dai coloni impedisce alle popolazioni locali di
sviluppare una coscienza politica e nazionale e di essere capaci di governarsi autonomamente.
Il processo di colonizzazione assunse quasi l’aspetto di una partita da cui non si poteva rimanere estranei e a distinguersi furono soprattutto inglesi e francesi. Gli altri Stati europei si impadronirono di quanto rimase fuori dai possedimenti inglesi e francesi. Il Belgio ottenne la vasta regione del Congo, la Germania arrivò ad esercitare il controllo su Togo, Namibia, Camerun e Tanganika (Tanzania); l’Italia assoggettò la Libia e la Somalia. Questa ripartizione non avvenne che in parte per effetto di guerre di conquista.
Per ridurre i pericoli di conflitto fra le potenze coloniali impegnate a disputarsi il dominio dell’Africa, venne indetta a Berlino, nel 1884, una Conferenza che avrebbe dovuto sancire i diritti dei singoli Stati europei, in un certo modo regolamentando la corsa alla colonizzazione. Nel corso dei lavori, che durarono fino all’anno successivo, i rappresentanti dei cinque Paesi europei – Belgio, Germania, Francia, Portogallo, Spagna procedettero alla divisione del continente senza che ovviamente fosse presente una delegazione africana. Nella conferenza venne di fatto riconosciuto il predominio della forza sul diritto e il continente africano fu considerato privo di personalità giuridica e così venne quasi interamente occupato dalle potenze europee.
57 La spartizione del Congo, che venne suddiviso tra
Congo francese e Congo belga lungo il fiume Congo;
La libera navigabilità dei principali fiumi, essenziali vie commerciali, tra cui il fiume Congo ed il fiume Niger, in favore del libero scambio; Tentativo di trovare una risoluzione, invano,
contro la schiavitù, che divenne illegale, ma restò ampiamente applicata in tutta l'Africa;
Il principio di effettività, che sanciva il possesso del territorio solo previa ratifica. Secondo questo principio chi occupa per primo un territorio può vantarne i diritti. In particolare è il principio di effettività la molla che accelera lo "scramble for Africa", la corsa per l’Africa, cioè la necessità di giungere per primi in un dato territorio, nonché di occuparlo realmente, per poterne rivendicare il possesso.
La mancata coincidenza fra confini politici ed etnie, conseguenza dell’artificiosità di linee di frontiera che tagliano il territorio come se si trattasse di una di una composizione geometrica, costituisce una delle molte questioni lasciate in eredità all’Africa dal lungo periodo della dominazione coloniale.
Quando, infatti le potenze europee si spartirono il continente africano (alla fine dell’Ottocento) mancava un’adeguata mappatura delle regioni oggetto della spartizione; le frontiere furono fissate seguendo, dove possibile, gli elementi fisici dei quali si era a conoscenza,
58 tracciando in tutti gli altri casi lunghe linee rette. La
divisione del continente africano fu fatta sulla base di una terribile violenza geografica e ideologica, seguendo cioè le coordinate geografiche o il corso dei fiumi e l’orografia, ma non tenendo minimamente conto delle caratteristiche storiche, culturali, antropologiche, economiche dei popoli che vi abitavano. Intere formazioni nazionali vennero così smembrate, mentre altre, da sempre rivali, vennero costrette a convivere, scatenando contrasti sanguinosi che stanno anche alla radice dei conflitti del nostro secolo. L’Africa diventò uno spazio “europeo”.
Nella fascia sahariana e subsahariana, dove il fenomeno è più rilevante, la maggior parte dei Paesi possiede oggi dei confini che sembrano tracciati con il righello. L’aspetto geometrico è dunque conseguenza di un’operazione compiuta a tavolino. Le potenze coloniali fissarono le frontiere politiche in base ai loro rapporti di forza, non rispettando le differenze tribali. Così una medesima etnia fu divisa fra territori assegnati a Stati diversi, ed etnie caratterizzate da culture differenti furono inserite in una stessa colonia.
59
Con la conferenza di Berlino si ha quindi la spartizione vera e propria del continente, e diverse forme di occupazione coloniale. Nasce in questo periodo la città coloniale in Africa, di matrice straniera e molte volte in contrasto con la tradizione indigena che l’aveva preceduta.
Dove la città era più consolidata, come nel caso delle città della Nigeria per esempio, con il regno degli Yoruba, l’assetto della città africana si è integrato con quella di matrice coloniale, resistendo ai dettami del regime. Diversamente accadde per tutte quelle aree e territori in cui le strutture istituzionali urbane locali erano deboli, per cui è stato facile per gli invasori imporre il loro modello esterno.
Figura 4_ Colonizzazioni rispettivamente del 1885 – 1914 – 1939, Harry Wesseling, La spartizione dell’Africa
spartizione dell’Africa 1880 – 1914, Corbaccio, 2001
60 Questa disparità non permette di trovare un modello
unico per descrivere la città coloniale. Ci sono casi quali per esempio, Kano in Nigeria in cui il complesso urbano tradizionale ha imposto la costruzione della città coloniale al di fuori delle mura indigene; la città coloniale diventa così una appendice esterna e straniera innestata sulla vecchia città. Altra cosa sono le “Bantu Towns”. Ne sono un esempio le città del Copperbelt in Zambia, cresciute attorno al nucleo straniero, ed europee per pianificazione aspetto e struttura interna.
In ogni caso però le capitali coloniali si posero come straniere e di rottura con la tradizione locale, con risultati estremamente negativi sul paese. Queste città non avevano alcun interesse alla crescita autonoma delle società indigene o allo sviluppo delle loro tradizioni. Alcuni antichi centri politici, come per esempio Kumasi, Gana, vennero mantenuti e riconvertiti in sedi amministrative del governo coloniale; altre città, invece, vennero costruite su importati snodi ferroviari per incentivare i collegamenti e i commerci, come per esempio, Nairobi, in Kenia, o Livingstone, in Zambia, cresciuta nei pressi del ponte ferroviario passante sulle cascate Vittoria, che collegava la capitale zambiana alla zona del Copperbelt per lo sfruttamento minerario del rame.
Le capitali fondate dai coloni rispondevano a esigenze esterne, legate ai traffici coloniali. Nel 1905, per esempio, Nairobi divenne la capitale del Kenya, andando a sostituire Mombasa per andare a rafforzare la linea
61 ferroviaria che collegava l’Uganda con la costa
dell’Oceano Indiano. Anche Lusaka, oggi capitale dello Zambia, nel 1935, andò a sostituire la vecchia Livingstone, anch’essa di matrice coloniale, perché considerata più centrale rispetto alle esigenze dell’amministrazione coloniale e per i collegamenti commerciali.
La città coloniale nasce e viene ad articolarsi in base ad un processo, decisionale e produttivo, che è e rimane esterno al suo sviluppo autogeno.” (P.ROSSI 2001)
Nella società coloniale la crescita della città non dipendeva dalle forze produttive né dalla presenza delle industrie locali, come invece accade per lo sviluppo delle città europee, dove il processo di industrializzazione è fondamentale per l’urbanizzazione. Da qui si può in un certo senso ricavare una matrice comune di formazione della città coloniale, che nasce cioè come centro politico amministrativo e svolge una funzione di perno fra la metropoli in patria e la colonia. Le città coloniali, infatti, nacquero per soddisfare bisogni amministrativi e commerciali, per far transitare materie prime e prodotti agricoli. Oltre che essere dei perni soprattutto amministrativi e commerciali, le città coloniali erano un sistema di controllo a livello politico del territorio coloniale, un modo per mantenere la dipendenza fra dominatori e indigeni.
La prima forma di questo controllo, è la struttura della città, la sua organizzazione dello spazio urbano. Le città coloniali sono infatti segnate da una forte segregazione urbana, cioè, all’interno di queste, lo spazio è diviso in
62 zone contrapposte, disomogenee con forti disparità
sociali.
La segregazione spaziale si manifesta in diversi modi, uno di questi è la creazione del cosiddetto cordone sanitario per mantenere a distanza gli Africani rispetto a dove risiedevano i coloni bianchi. Si creano quindi due agglomerati urbani, uno europeo e uno africano, quello coloniale e quello indigeno. Si creano sistemi diversi e diseguali di occupazione del territorio, di abitazione e di fruizione dei servizi; la distribuzione della ricchezza all’interno della città avviene seguendo le linee razziali. Le motivazioni della segregazione sono prevalentemente due: la prima è come si è già detto di tipo sanitario, cioè a causa del timore di insalubrità della vita indigena; la seconda è la tendenza coloniale a pensare alle masse di africani come di passaggio, presenti nella città in funzione dell’offerta di lavoro. La segregazione spaziale segna quindi tutti i rapporti che si stabiliscono all’interno della struttura urbana, ponendoli secondo una gerarchia. L’organizzazione dello spazio urbano, è un simbolo del rapporto di dominazione che si stabilisce fra società coloniale e colonizzata. La distanza sociale impone quindi di limitare i contatti con la popolazione indigena e allo stesso tempo di marcare questa situazione all’interno dello sviluppo della struttura urbana. Il palazzo del governo è infatti, per lo più, posto in centro, ancora meglio se in collina, sopraelevato, centro del potere coloniale. Gli alti funzionari scendono in città solo in occasione di incontri ufficiali, in abiti da cerimonia. La città è quindi divisa in comparti, il nucleo del mondo
63 europeo e la popolazione indigena ai margini; le due
comunità si contrappongono cristallizzate entrambe nelle loro ideologie, culture e organizzazioni senza alcuna integrazione. Questa dicotomia permane ancora oggi, è quella che viene chiamata contrapposizione fra città formale e informale.
2.2. L’URBANIZZAZIONE RECENTE: CAUSE ED EFFETTI