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Il verbo al negativo: l’assenza e l’incontro

La formula dell’assenza minacciosa, proveniente dalla sottrazione dell’immagine della Deità, detrazione che i sensi ora riescono a percepire ora sono incapaci di conoscerne il contenuto rivelativo, pervade l’intera raccolta Io non ho mani; e se in principio il paesaggio, sulla scorta di Ungaretti, forgia una descrittività stilizzata: pietre, case, arsura, costituendo il nesso tra natura e cultura, in un successivo, o quasi coevo passaggio, luce, silenzio, pianto mettono in evidenza il tema dell’inconoscibile attraverso l’enucleazione semantica di un sentimento storico (personale e collettivo) della perdita di quello spirito primitivo di allegrezza ed entusiasmo abitanti nell’uomo prima della cacciata:

pochi e fondamentali modelli di ‘assenza’: Ungaretti per primo. In fondo la teoria di Carlo Bo sulla poesia come ‘assenza’ costitutiva, prima ancora che l’autoanalisi storica e generazionale dell’involucro solidale tra critico e poeta, una teoria del testo poetico come tale e del suo presentarsi illuminato d’incanto in tempi bui […] e [assieme] le penetranti parole di Zanzotto sulla ‘assenza’ […] : una ‘assenza’ proiettiva che è l’altro modo di manifestarsi della ‘resistenza’ 51.

È una vera e propria peregrinatio quella turoldiana volta a capire il destino dell’uomo, un itinerario, che, partendo dai sensi (Io non ho

mani) giunge a scoprire con sensi rinnovati nelle successive opere la

luce promanante del Codice. E intanto le carni non si acquietano e la tentazione del nulla si presenta in ogni luogo della mente, in ogni tratto del cammino sulla «spalletta/ delle vie desolate» (Sera di

Ferragosto): il corpo geme nella vendetta di consumarsi nella carne,

e il verbo biblico «arsura» rende plasticamente l’azione sacrificante

51

G. Luzzi, Dall’ermetismo all’utopia: il percorso poetico di David M.Turoldo, in D.M.Turoldo, Lo Scandalo della speranza, Milano, Gei, 1984, p. 14.

al Dio silenzioso che richiede «olocausto» dei sensi. Essi devono partorire l’entusiasmo e bloccare la percezione intellettiva: in questo spazio di «compatimento» il «forse» non retoricamente formulato ma effuso nel giro strofico con valore assertivo dichiara che dalla luce della «Tentazione» (la ragione cede il passo al sogno inteso come locus in cui inizia a vivere l’intimità del mondo in epifanizzanti movenze) si può cogliere la personalita dell’ «ora/ in cui non esistiamo». Il verbo al negativo indica il suo esatto contrario, un “opposto” che si dichiara nel «finalmente» del verso successivo, rendendo conto così dell’operazione sensoriale, uscita a fatica («sensi affaticati») da questo processo di riabilitazione delle sue forme, che si riconciliano, anche se per poco con il mondo e la sua fenomenologia («Restiamo/soli, nel dolce sapore/ dei sensi affaticati»). E la solitudine, effetto del peccato, giunge a costruire il segmento spaziale nel raccoglimento di una memoria purificata in quella «localizzazione spaziale della nostra intimità»52 (di cui parla Bachelard), che apre nel verso turoldiano la gioiosa attesa dell’«inattesa fraternità».

L’attesa è consumata nelle mani di chi compie l’oblazione, di chi purifica nei gesti del perdono il proprio orgoglio per macchiarsi del sangue della salvezza: così il canto registra la povertà dell’esistenza nella miseria della quotidianità: «sul sagrato del Corpus/ Domini c’è un comizio/ di poveri tenuto/ da Padre Atanasio. E nel sottoscala/ un altro muore dimenticato. // Intanto Cristo continua solo/ la Sua strada» (Sagrato); e ancora: «C’è una povera in via Ciovasso, / che non può camminare/ e dorme entro giornali […] // […] un po’ di scatole per guanciale/ e stare/ nel cuore di Milano» (Povera che

dorme entro giornali). L’attenzione verso l’alterità reietta, presente

molto spesso nel verso, è fra i motori principali dell’azione poetico- pastorale: «i poveri sono stati la causa della mia vocazione, i poveri sono il contenuto della mia fede, fonte di ispirazione della mia poesia e della mia predicazione. Sempre inquieto e insoddisfatto; portando continuamente con me il senso della morte»53. Il regno di Dite e l’alterità (l’altro: uomo e Dio) introducono la lotta dell’io poetico con il sacro: un sacro, quello percepito, in combattimento, a sua volta, con se stesso; e i sensi, a loro volta, per reagire all’aprassia e all’agnosia nelle quali sconvolgono l’anima offrono la vista di un uomo in bilico verso l’ignoto. In questa ulteriore afasia della cerebralità, il rimedio poetico giace nella coralità umana, di un soggetto collettivo che mette il verbo al singolare ma che pone la costruzione sintattica in un “periodo” che ancora è attiguo alla memoria plurale: adesso i sensi sono più ancora in contatto non solo con l’idea del volere/non volere, potere/non potere percepire Dio, ma con l’immagine del Dio fattosi carne, della parola che esprime visivamente e materialmente se stessa: «assumendo la nostra carne, il Verbo è divenuto consustanziale con le creature [ed egli attraverso i sensi] ha incessantemente cercato di entrare in contatto con esse»54.

Nella terza e ultima parte di Io non ho mani la figura del Dio/Figlio e le interrogazioni del poeta “al senso” del suo dire si appesantiscono di una riflessione che tenta di non lasciare prevalere la fede sulla ragione, ma che vuole condurre la ragione ad essere felice in ciò che crede con i sensi. Così canta in Nostra ragione:

Un male è questa vita

di cui non ci è dato di guarire.

53

D. M.Turoldo, La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza cit., p. 35. 54 A. Gentili, I nostri sensi illumina. Saggio sui cinque sensi spirituali cit., p. 57.

E Dio che non ci dà tregua; la nostra è una tragedia di sole. Improvvisa ti sei destata dal tuo letto di fanciulla

ed ora non sai se quella età era un sogno

o questa che viene impetuosa.

Davanti non hai che il volto di una inesplorata giovinezza. Questa è nostra ragione. Anch’Egli, anch’Egli dev’essere in pena.

La ragione costituisce ora una seconda tappa del poietico, poiché mette in essere la determinazione delle condizioni di possibilità e di creazione del fare, partorito qui da una lucida esamina all’ascolto della Parola e istituisce una semiosi in progress che dal Genesi giunge al Venerdì Santo. Ecco perché il poeta parla nella lirica successiva (Vigilia del protomartire) di mito (nell’accezione greca di racconto): una parabola, quella divina, che dall’origine l’uomo vuole afferrare con «avide mani» e che dalla manifestazione sacrale si immette nel sangue: i sensi sono ri-sedotti dall’«anelito vivo di altre colpe» dell’uomo (Epifania).La sensualità della mente, spinta dall’avvicinarsi dei sensi a comprendere “l’errore” di una libertà derivante da una scelta, quella divina, è regolata da una ragione che può iniziare a capirla solo se si pone in consonanza con la purificazione (i cui procedimenti sono il canto e l’invocazione) della passione del creatore, per cui il poeta eleva al cielo il verso in atto di

“ribellione sensuale”, e da ciò può iniziare a dire un ulteriore passo della peregrinatio:

Tu dovevi essere felice e noi perduti.

Così sei venuto a cercare

i cibi delle Tue creature maledette, a farti

carne di peccato, mentre ti donavi. (Potere tu perdonarci).

Nella litania finale del libro la struttura al negativo si esplica nell’anafora, per ben quattro volte, in un interrogativo che è retoricamente poetico: il perché, motivo fonico assillante, corrisponde all’insistito «mi perdonerai», che chiude ogni strofa, a volere programmaticamente denunciare il suo stato di disagio, che, nella memoria del tempo, i procedimenti linguistici tentano di accordare alla speculazione: il risultato è quello della «solitudine» dell’ultimo verso del componimento finale, che non ha titolo.

L’io è tentato di aderire ai sensi e smentire la fede: le occasioni dell’«irrazionale esistenza», le memorie, pur brucianti, costituiscono il motivo del verbo al negativo, dal quale il cantore, come il salmista, parte per giungere all’ora della laus vitae. Il suo non è, tuttavia, il sintomo del male di vivere montaliano «In verità la fuga pessimistica che Montale fa dal ‘male di vivere’ ha partenza e arrivo che in Turoldo si fanno in una diversa profondità religiosa […]. È il silenzio della preghiera che Turoldo non distingue dalla poesia nella sua forma dell’ invocazione e del canto»55.

55 R. Cicala, Turoldo: poesia dell’attesa tra angoscia e speranza, in D. M. Turoldo,

Poesie sul sagrato, con tre note di L. Erba-G. Piana-R. Cicala e tre incisioni di M.

In Io non ho mani la dinamica tra corpo e linguaggio rappresenta il

punto di partenza del verso posto al presente, e l’assunzione di verbi all’infinito accostati all’ingestione e all’espulsione della memoria prosciuga la lingua dei sensi fino alla negazione della facoltà locutoria, che permette l’introduzione nel verso di una asciutta prosodia funzionale a descrivere i passaggi della mente che tende a Dio in «tortura di desiderio»56 sorretta da una circuizione ben salda, che le figurae sententiae e le ripetizioni di uno stesso vocabolo non contribuiscono a spezzare. Il dire l’asprezza di un nulla pieno e ancora invalicabile introduce il verso in un minimalismo paratattico e in un’esuberanza strofica dalle quali il poeta, nel ritmo della invocazione di un prima e un dopo temporali reiterati, apre la struttura in brevi proposizioni, che coniugano le assenze e le rivolgono come remunerazione (in una metrica che segue spesso l’andamento prosodico) alla solitudine che il poeta ora può toccare.

56

G. Ungaretti, Premessa a D. M. Turoldo, Udii una voce, Milano, Mondadori, 1952, p. XI.

Capitolo II