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Teodicea: poesia e negazione, ovvero la follia del mistico

3 1 Amore e morte: la battaglia del risveglio

3.4 Teodicea: poesia e negazione, ovvero la follia del mistico

«Sempre sul ciglio di due abissi/ tu devi camminare e non sapere/ quale seduzione,/ se del Nulla o del Tutto,/ ti abbatterà…» (Ultima

lapide): negli ultimi testi poetici, come quello appena citato, che è il

primo de Il grande male, pubblicato da Mondadori nel 1987, ritorna, o meglio si amplia, in forma “invasiva” e ossessionante il tema del male e del rapporto di questo con Dio, già “annunciato” in molte altre raccolte e nella lirica dedicata a Pasolini, nella quale il dubbio su una diretta dipendenza di un «Nulla» o di un «Tutto» (forse similari fra loro) col creatore, che genererebbe dolore, si abbandonava nella figura del Cristo come “un accenno di risposta”. Questa ricerca di considerare in Dio anche il male, di riflettere su una divinità che non sia altro che Nulla, pura energia muovente dal cosmo e rigenerantesi dalla vita che alimenta, è stata oggetto di speculazione e di poesia a partire dall’Antichità, dove il Dio nascosto è comunque sempre quello della filosofia. In Turoldo, invece, Dio, male, tutto e nulla riprendono le tesi di chi come lui non solo crede aldilà di un’energia, quanto e soprattutto identifica in essa l’atto di bontà per il quale è. Così Tommaso dice che il male è

privatio e «lungi dall’essere originario, è, […], avvertito come

assenza di bene. Dove la nozione prima è quella del bene, più o meno chiaramente conosciuta. […]. Dunque la tristezza o dolore non è una mera privazione, ma ha una dimensione di positività sul piano ontologico […] idoneo cioè ad essere perseguito per raggiungere altri beni»63.

63

U. Galeazzi, Introduzione a T. D’Aquino, Il male e la liberà, trad. it. di U. Galeazzi e R. Savino, Milano, Note di U. Galeazzi, Milano, BUR, 2007, pp. 15 e 46.

Il poeta distribuisce nei versi le caratteristiche di un male tangibile, reiterando in una classificazione sintattica accuratamente predisposta i “locativi” nei quali esso si espande: un alloggio che sarebbe nell’essere e del quale si «crede/ che non vi siano confini» (Stolta ribellione); ma il cantore aggiunge: «il grande male è prima,/ il grande Male è l’ ‘Amore- del- Nulla» (Tutto deve). Ma quale Amore e quale Nulla? Turoldo considera il Nulla nell’accezione

mistica, ossia un mare in cui perdersi, partecipante alla dialettica attività/passività dalla quale l’immagine

del sacro è messa sotto accusa: «tu sei il Contrario,/ l’Oppositore!» (O Tu). La poesia si fa carico, aldilà di fornire messaggi morali e indicazioni etiche, di tradurre il contenuto che riesce a recepire dalla descrizione di un’indagine rielaborante le distanze tra accaduto e accadente: in questo senso la deduzione del concetto di male sulla e nella vita intradivina piega l’assolutezza del dogma non ad un giustificazionismo che si ridurrebbe nel riscatto della nascita da esso prodotta, al fine di generare un aereo, futuro bene, ma dalla concreta visione di una negatività radicale che permea ontologicamente il male, in quanto subito dall’ente. Questa visione sconfigge ogni monismo non solo sulla mancanza di recepire l’assolutezza del tutto e di conseguenza l’implicito limite che farebbe dell’uomo barriera a se stesso per non poter accogliere l’infinità di Dio, ma l’“autopervenimento” da parte dell’ente di identificare nella stessa domanda sul male il “travalicamento” di sé: esso si rende nella privazione da parte del Figlio della sua natura divina, confermando la “sovrapersonalità” del peccato, che si infrange felicemente nella «tua fiducia/ come nella Notte/ il tuo abbandono nel Padre» (Mio

signore). E se Dio, che è «il mio respiro» (Dio sei), fa dire al poeta

cristianesimo, dunque, a fornire la riposta definitiva, che se non attua una soluzione “nel momento” la ingloba dal momento che condensa il tutto nell’ossessione carnale di capire l’origine. Il verso restituisce la comprensione dell’ottica cristiana, che non distrugge il dolore e il male, ma riedificandoli in una esasperata scelta di libertà, il più delle volte incomprensibile, e, tuttavia, fissa sulla qualità e sul colore che il male produce, promulga la singolarità del “genere” bene/male restituendo nella poesia il “caso” dell’accusativo, per il quale l’oggetto è soggetto al plurale («i mali») e il soggetto è il vocativo al singolare («oh sofferenza»), soprattutto quando nell’afflizione degli innocenti non si riesce a riconoscere chi è colui che è vittima (il fanciullo) da colui che è carnefice (la storia della follia, l’uomo insano, Dio barbaro).

Quella degli innocenti è un patimento che oltrepassa il dolore recato dalla malattia o dalla stessa guerra e che costituisce la dimensione epifenomenica dell’assurdo, e come Ivan Karamazov “offre” «il suo biglietto d’ingresso»64 ad un Dio vano, Turoldo, con gli interrogativi a Lui rivolti («Signore, non ti dice nulla/questo silenzio», Il silenzio della città, «Dio che non interviene.// Dio perché dormi?...», Allora, e ancora, «Dio non interviene avanti l’assassinio? Perché non uccidete tutti gli omicidi?», Bambini, un

Dio), rivela la separazione/unione, in una penetrante simbolicità (il

Dio/sguardo), dell’origine del male dal suo autore.

La sinestesia si fa strada nel verso e la «luce di cenere» (Ancora

Luce) e la «morte immobile» (ibidem) rendono l’instabilità della vita

nella continua ricerca di un rifugio, e l’essere fenomenico di Dio si dà nella considerazione della realtà nelle sue “specie”, e il poeta rinvia i sensi nel «fittissimo silenzio» (Poi il Silenzio) :

64

F. Dostoievski, I fratelli Karamazov, trad. it. di N. Cicognini e P. Cotta, a cura di I. Ribaldi, Milano, Mondadori, 1994, p. 341.

Poi il silenzio solo il silenzio assoluto silenzio: muto plumbeo fittissimo silenzio! […]. Ma Dio chi è? Non c’è. C’è solo silenzio. E non c’è scampo… (ibidem).

La riproposta al Dio/Nulla/Male affogata nel silenzio è una sfida «senza pari»65, come la definisce Ricoeur, soprattutto nel Novecento dilaniato dalle più atroci morti, a partire e per concludersi (una “conclusione sempre aperta”) nella tragedia di Auschwitz; evento che divora il silenzio, per il quale la cultura del Nulla/vuoto si è imposta sulla cultura della ragione sacra. La stessa speculazione non può che rovesciare su se stessa la teoria che argomenta/non argomenta quell’esilio del pensiero: «Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si restaura dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza»66. Ciò non implica affatto un concetto, quello adorniano, fatalistico, appunto perché la parola “resistenza”, antinomicamente, si amplia dopo la catastrofe nell’opposizione ad un prima privo di

65

P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, trad. it. di I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana, 1993, p. 7.

66

T. W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di C. A. Donolo, Torino, Einaudi, 1970, p. 331.

azione verso un dopo indegno di agire, che è spronato comunque a protestare, ma di fatto non insorge. E alla domanda autoposta, ossia se il male fosse, per chi crede, emanazione esclusiva del Creatore, il poeta si ferma e si sofferma nell’abbandono delle grida di una “deportazione” temporale nell’intenzionalità di un cogito condizionato dal mondo; da ciò la biforcazione del pensiero: da un lato, Dio, e, dall’altro, l’uomo. Tuttavia, il poeta parla sempre e incessantemente di responsabilità svicolata, e per l’uomo e per Dio, da ogni reciproca relazionalità che possa riassorbire in un linguaggio volitivo la costruzione del significato e dell’azione del male. Si direbbe: ad ognuno le proprie responsabilità:

e saresti un Dio su nostra misura?

(E tu saresti…),

e riferendosi all’uomo:

….anche noi grandi come Dio […].

Così saremo certi

di non esaurirci mai (Anche noi grandi).

Nel suo canto si muove la tragedia di un “male ingiusto”, che neanche la fede, o soprattutto essa può rimettere in atti “giustificazionali”, e il poeta, a Mathausen, alla fine di un pellegrinaggio ai campi di concentramento nazisti, prega sul Cristo e

a Dio per lo scempio che ha permesso: «ti chiediamo, Signore, che si

questo è Cristo e quanto Cristo significa: la speranza che tutti siamo uomini!»67. L’interrogativo su quale rimedio possa offrire il verso e quale parola possa sciogliere l’accusa è affidato alla non-conoscenza del veniente; ma essa risulta per il pellegrino insufficiente:

Posso anche concederti di non dirti malvagio, ma stolto sì, e folle e senza rimedio.

(Ciò che deve);

ed è la bestemmia un primo momento della svolta:

allora diremo: pure Cristo ci ha ingannati?

Sarà il nome più bestemmiato il tuo dolcissimo nome, o Cristo di Dio

(Allora diremo).

Una siffatta riflessione non può che trovare un corrispondente “poetico/metafisico” in parte di quella lirica che connota il percorso che dai primi ermetici giunge alla codificazione della poesia ontologica, e non solo, alla quale più volte abbiamo fatto riferimento: una metafisicità cioè descritta nella sua “imposizione del reale”, come quella degli esordi (ma anche del proseguo) di Luzi, che è

67

D. M. Turoldo, Ritorniamo ai giorni del rischio. Maledetto colui che non spera, Milano, Cens, 1985, p. 77.