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Un immaginario collettivo: la classe operaia in Emilia

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coli nuclei sfilacciati di un’Italia alternativa: avversa a fascismo, borghesia e clero, ma non priva di rudimentali idealità e progettualità nazionali. Evitando di leggere secondo categorie ideologiche la diffusione della cultura stalinista e delle fascina-zioni per un internazionalismo fondato sul primato sovietico, occorre una rifles-sione di più ampio respiro e di lungo periodo sull’assimilazione popolare degli ideali democratici positivisti, che diedero vita alle modernizzanti mitologie del

so-le dell’avvenire e della città futura4. Ben prima di qualunque rivoluzione russa, in numerosi paesi la cultura classista proletaria produsse già alla fine del XIXsecolo gli elementi mitopoietici, le suggestioni etiche e le immagini edificanti di quello che solo decenni dopo fu riconosciuto come “mito sovietico”, con palesi analogie tra un’ormai consolidata prefigurazione laica e progressista del futuro e ciò che dagli anni Trenta la propaganda staliniana sui piani quinquennali descrisse essersi rea-lizzato nel paese dei soviet. Particolarmente indicative a tale proposito risultano numerose battute di un componimento letterario dell’anarchico Pietro Gori, un bozzetto teatrale ambientato nelle campagne toscane sullo scorcio del XIXsecolo, che inizialmente incontrò il massimo successo tra gli operai italiani negli Stati Uni-ti d’America e in seguito divenne il più noto strumento di propaganda nei teatrini proletari in Italia5. Nei villaggi rossi della provincia di Reggio, all’inizio del XX se-colo, era nel repertorio di qualsiasi filodrammatica. Le battute da palcoscenico scritte da questo conferenziere anarchico non erano certo inni rivolti all’URSS, na-ta dopo un quarto di secolo da quando quel testo iniziò a circolare. La popolarità di quei versi poco eleganti fu dovuta esclusivamente a ciò che il pubblico riuscì a immaginarvi, vedendovi l’atto di fondazione di una nuova umanità, che allora mol-ti riconoscevano nell’azione sovversiva internazionale dei lavoratori il 1° Maggio. In quella giornata di mobilitazione e sciopero generale lo scritto di Gori evocava il procedere inesorabile della marcia del quarto Stato, verso una società proletaria libera, che in un luogo ideale del mondo sarebbe già esistita, espandendo la sua lu-ce radiosa:

Devo camminare, camminare, laggiù verso levante. Ho varcato monti e colline; ho attraver-sato fiumi e mari. Ma io ho camminato – senza paura – verso la parte donde si leva il sole. [...] E là verso la parte donde si leva il sole il paese felice. La terra è di tutti come l’aria, la lu-ce. Gli uomini vi sono fratelli. Il lavoro è blasone di nobiltà... per quel popolo. Non ozio, non odio. Unica legge la libertà; unico vincolo l’amore. Per tutti il benessere, per tutti la scienza. La donna non schiava, ma compagna, consolatrice dell’uomo. La miseria ignota. L’uguaglianza garantita dall’armonia dei diritti. Non parassiti, non armati, non guerre. Le madri beate! i vecchi, maestri dell’infanzia. I fanciulli educati al lavoro, all’amore dei pro-pri simili. La gioventù benedetta come la pacifica avanguardia dell’avvenire. [...] È laggiù laggiù verso la parte donde si leva il sole!6

Le stesse battute vengono replicate solennemente in altre parti del testo di propa-ganda rivoluzionaria di Gori7. Risulta importante rilevare qui il contesto di questa

azione teatrale, che vuole essere una rappresentazione della dimostrazione del 1° Maggio nella campagna toscana. In questo traballante drammone, che l’autore non cercò mai di pubblicare o portare sulle scene, ritenendolo privo di valore artistico, ma che – suo malgrado – divenne presto il più noto testo del repertorio teatrale so-cialista in Italia, il tema era elementare e di potente presa nei paesi rossi: il mondo vecchio stava morendo e la borghesia era inutile nel mondo nuovo, verso cui i la-voratori della campagna e della città si stavano dirigendo a fronte alta, in una so-lenne marcia inarrestabile, la stessa evocata nel ritornello dell’Inno del Primo

Mag-gio, composto su commissione del giornale “La Giustizia” nel 1893 e perciò cono-sciuto in Italia anche come Inno di Prampolini: «Su compagni, liberi sorgiam! / Su compagni, su la fronte alziam! / Già spunta il sol dell’avvenir (bis) / Di pace e li-bertà / Glorioso il sol risplenderà». Nelle sue rime, Gori mostrava le masse in mar-cia, che neppure i borghesi più fascinati dal loro incedere solenne riuscivano a se-guire. Già nell’Inno del Partito operaio scritto da Filippo Turati nel 1886 – divenu-to popolarissimo alcuni anni dopo, proprio grazie all’esordio delle manifestazioni del 1° Maggio8– tra le numerose esortazioni polemiche per affermare il riscatto del

lavoro era presente appena un fugace accenno a suggestioni sulla società dei

lavo-ratori, liberata dallo sfruttamento: «Lo strumento del lavoro / nelle mani dei re-denti / spenga gli odii e fra le genti / chiami il diritto a trionfar»; ma un decennio dopo – grazie alla crescita del movimento in Italia – Gori era già in grado di mo-strarne immagini ben più elaborate, e soprattutto di trovare un ampio pubblico pronto a farle proprie con grande emozione. Queste immagini evocatrici del mon-do nuovo anticiparono di diversi decenni – in ogni minimo dettaglio – l’autorap-presentazione ufficiale della società sovietica, ampiamente riproposta nel secondo dopoguerra dalla pubblicistica più diffusa tra i militanti comunisti e socialisti ita-liani e in numerose riviste internazionali. Apparvero attorno alle mobilitazioni del 1° Maggio, perché proprio nel loro sistema di simboli il movimento operaio iniziò ad autoriconoscersi come forza distinta e separata dal radicalismo democratico borghese. Nella pianura reggiana, l’autoriconoscimento dei lavoratori nei simboli del collettivismo era già ben radicato alla fine del XIXsecolo e lo fu in modo cre-scente fino al 1922, arrivando a gestire in forma cooperativa la maggior parte delle attività economiche locali, proponendosi per un trentennio come modello di col-lettivismo al resto d’Italia e serbando una memoria orgogliosa di quel periodo. Par-lando a Reggio con immagini religiose che avevano messo in serio imbarazzo il gior-nale di Prampolini – abituato a servirsi di parabole “evangeliche” positiviste, ma avverso ai messianismi – Filippo Turati nel comizio del 1° Maggio 1903 aveva pre-sentato la città in un leggendario alone mistico:

Qui a Reggio è la sorgente del socialismo vero, che si irradiò a tutta la penisola. A Reggio, nel 1893, si gettarono le basi del socialismo italiano, e a Reggio i socialisti tutti dovrebbero recarsi devoti come le turbe cristiane si recano in Palestina a visitare i luoghi dove passò la

vita il loro Cristo; come le turbe dei Mussulmani si recano alla Mecca ad adorare la tomba del Profeta. È da Reggio che la linfa salutare pei lavoratori zampillò; è da Reggio che i mi-gliori dei compagni nostri sparsero per i casali, per le valli, per le contrade il verbo reden-tore9.

Secondo l’antropologo Ernesto De Martino fu il mito dello sciopero generale evo-cato da Georges Sorel a porsi «il compito immane di sostituire il languente mito cristiano, e di fare giustizia da una parte delle vaghe positivistiche religioni dell’u-manità e della scienza e dall’altra delle chiacchiere parlamentari del socialismo riformistico»10. Queste suggestioni, però, avrebbero mancato di una dimensione concreta che stabilizzasse una tensione verso la costruzione di un mondo diverso: «il mito dello sciopero generale mancava di “fondazione”, si atteggiava a millena-rismo senza radici e sfumava nell’utopia: mancava dell’equivalente di ciò che fu per la religione cristiana la incarnazione di Cristo, e che oggi, per il socialismo con-temporaneo consapevole di sé, è la Rivoluzione d’Ottobre, in quanto evento inau-gurale integralmente umano, primo germe storico dell’espansione reale del sociali-smo nel mondo»11. De Martino coglieva pienamente il ruolo assunto dalla simbo-logia sovietica nell’immaginario dei lavoratori. Potendo però osservare – dopo la metà del XXsecolo – solo una cerimonialità in buona parte ripetitiva nel 1° Maggio, mancava delle informazioni storiche per valutare come gli scioperi generali inter-nazionali per la giornata lavorativa di 8 ore fossero stati una concreta esperienza ca-pace di rivoluzionare le simbologie sociali: una realtà invece ben presente ai lavo-ratori dell’ultimo decennio del XIXsecolo, che si erano fatti sensibili all’elabora-zione di queste suggestioni. Le teorie di Sorel sullo sciopero generale come evento palingenetico in origine erano tratte probabilmente dall’osservazione concreta di quegli scioperi generali – in varie forme, ma di vasta estensione – che in diversi 1° Maggio avevano realmente cambiato la percezione del conflitto sociale e dato una precisa cultura e identità al movimento operaio. I lavoratori ne avevano tratto le proprie simbologie moderne, staccate da quelle permanenze culturali di lunga du-rata, che erano i culti primaverili del Calendimaggio tra le corporazioni operaie12. Proprio quell’esperienza altamente emozionante per chi vi riponeva speranze o paure – attorno a cui nell’ultimo decennio del XIXsecolo si consolidò la crescita dei movimenti operai in diverse parti del mondo – creò di fatto una simbologia mo-derna del mondo nuovo, che già alla fine del XIXsecolo rese presente nell’immagi-nario operaio la società proletaria erettasi a sistema: ciò che parrà in seguito con-cretizzarsi nell’Unione Sovietica. La propaganda sovietica, a partire dagli anni Ven-ti, non dovrà far altro che dare immagini aggiornate e linguaggi di massa a una vi-sione del mondo in trasformazione che tra i lavoratori si era già affermata almeno un ventennio prima del 1917 e aveva già fondato su solide basi una propria simbo-logia mitopoietica, che in seguito verrà poi riconosciuta come peculiarmente lega-ta a una percezione mitica dell’URSS. La simbologia dello Stato e della società

so-vietici diventò espressione di un’alterità in cui riconoscersi come parte di un mon-do in allestimento, senza borghesi, per chi si sentiva alienato nelle società mon- domina-te dal capitale. In un sisdomina-tema fascista o liberale, l’utilizzo di quei simboli del supe-ramento dello stato presente delle cose permise a molti lavoratori di elaborare un proprio senso di estraneità alle contingenze della società in cui vivevano, senza re-stare separati dal mondo reale. L’immagine di un mondo senza padroni uscì dal tempo destorificato del mito e si iscrisse pienamente nella materialità del tempo sto-rico; anzi, parve ergersi a grande stimolo e modello per determinare radicali cam-biamenti storici. Pure nella provincia reggiana l’orgoglio dei lavoratori per le pro-prie realizzazioni collettivistiche arrivò a rendere omaggio alla superiorità dei sim-boli sovietici, capaci di durare nel tempo, dopo che il movimento operaio emiliano era stato invece ridotto a brandelli e umiliato dal fascismo.

In diverse regioni dell’Europa occidentale, nell’immaginario della classe ope-raia, il paese dei soviet divenne così il modello in atto di un’entità più vasta: di quella ideale patria universale socialista a cui ogni lavoratore di sinistra immagi-nava di appartenere, ritrovandovi la propria tradizione – intesa antropologica-mente più che ideologicaantropologica-mente – e i progetti sul proprio futuro. L’URSSfu il mate-rializzarsi di queste simbologie in una organizzazione societaria e statale; e da al-lora la dirigenza bolscevica russa cercò di interpretare il mito del comunismo con un ruolo invadente da protagonista e depositaria esclusiva delle sue interpretazio-ni ortodosse. Attribuire all’URSSciò che era proprio del comunismo – sia come fe-nomeno soggettivo di trasformazione sociale sia come mito dell’antagonismo rivo-luzionario – fu ovviamente una stridente forzatura, di cui tutta la sinistra interna-zionale dovette subire le contraddizioni; ma permise una elementare azione pro-pedeutica per l’apprendistato della politica, rivolto ad un immaginario sociale che vedeva nella classe lavoratrice il soggetto essenziale delle grandi modernizzazioni razionali nell’organizzare la società e la produzione. Al di là di pochi mutamenti dovuti ai tatticismi d’occasione, la messa in scena dell’URSSforniva alla pedagogia classista, anno per anno, uno stabile universo di valori globali cui attenersi: come scrisse il Partito comunista francese nel suo Almanach 1935 quel paese era

«l’indi-spensabile enciclopedia della famiglia operaia, reclamata dalla grande massa dei proletari delle città e delle campagne»13. La memoria dei militanti si è perciò fis-sata a lungo «nel quadro di un sistema di rappresentazioni relativamente perma-nente, bipolare, nel quale i comunisti, la classe operaia e l’URSSsi fondono e s’op-pongono alla destra, alle classi dominanti, al mondo capitalista, in una parola agli

altri»14. Adattare in modo non meccanico l’evoluzione dell’URSSalla propria realtà sociale e ai propri progetti collettivi diventava per la cultura di sinistra emiliana co-struire i propri modelli umani di riferimento su un susseguirsi di figure simboliche aggiornate di volta in volta – dai rivoluzionari bolscevichi in armi ai collettivizza-tori nelle campagne, ai vincicollettivizza-tori del fascismo, ai condutcollettivizza-tori di tratcollettivizza-tori, agli operai

scienziati che dominano la natura e ai cosmonauti – per risaltare questo legame ideale.

Lo scenario binario delineato dall’ideologia leninista rivista dallo stalinismo, che dalla fine degli anni Venti indicava un’assoluta polarizzazione conflittuale tra due classi e due campi d’appartenenza contrapposti, venne corroborata e fin trop-po confermata dagli schieramenti della guerra fredda, e trop-portò a vedere i lavoratori dell’Occidente schierati inevitabilmente con gli Stati a sistema socialista e a orien-tare nella stessa direzione le proprie strategie di sviluppo. Dovendo combattere in-sieme lo sfruttamento e l’imperialismo, la classe operaia non poteva distinguere il proprio destino da quello dell’URSS. In più, dopo la guerra, l’immagine di quei po-teri istituzionali che in Emilia avversavano l’URSSe perseguitavano numerosi parti-giani e i partiti di sinistra venne automaticamente associata al ripresentarsi sotto nuove spoglie di un fascismo intenzionato a costringere ancora i lavoratori alla pas-sività sottomessa. Attraverso le simbologie sovietiche, un orgoglioso senso di di-versità del mondo operaio, popolare e contadino trovò fin dal 1917 delle immagini moderne per esprimersi: un fenomeno che il termine di doppiezza – ora molto in uso tra gli analisti politici e nei dibattiti giornalistici per qualificare la politica del

PCIe del Fronte democratico popolare nel dopoguerra – non riesce a cogliere. Ri-spondendo a una precisa attesa della mentalità popolare classista, questa proiezio-ne ideale a Oriente si stratificò e articolò per almeno quattro decenni in una pro-pria solida tradizione, che venne alimentata dalla propaganda sovietica e poi delle democrazie popolari, coordinata con quella dei partiti comunista e socialista, ma anche rielaborata attivamente nella vita civile di una regione, nell’etica che ispira-va i legami collettivi e nelle stesse fantasie che alimentaispira-vano desideri e propensio-ni di tanti soggetti popolari, sia di gruppi che di singoli individui.

Nell’arco dei quattro decenni tra la prima guerra mondiale e l’epoca della pau-ra per la guerpau-ra atomica, i valori progressisti del mondo libepau-rale attpau-raversarono una profonda crisi di credibilità. A questa crisi i movimenti operai e contadini con-trapposero spesso – non senza efficacia – i valori e le immagini del progresso so-vietico, simbolizzando i conflitti di classe nella contrapposizione bipolare tra mon-di antagonisti inmon-dividuabili nello spazio geografico. In più, durante gli anni Trenta, poi dopo il 1941 con l’invasione dell’URSSda parte degli eserciti dell’Asse e dei loro alleati che avevano conquistato il resto dell’Europa, il paese dei soviet apparve il baluardo estremo e il modello per chi insorgesse contro il nazifascismo. Deposte le armi dopo la Liberazione, le attese di modernizzazione e emancipazione prospet-tate dallo sviluppo di una società collettivistica rafforzarono l’adesione popolare al-le organizzazioni politiche della sinistra; in Emilia il fenomeno fu massiccio e l’esi-stenza di paesi rurali e periferie urbane che si identificavano nei modelli sovietici si manifestò ulteriormente in iniziative apparentemente meno conflittuali, ma la cui posta in gioco era ugualmente il controllo del territorio e l’egemonia su piazze e municipi15. La fedeltà ai valori politici prevalenti nelle comunità locali diventò una

sintesi etica tra l’impegno a essere parte di una trasformazione generale del mondo e la gestione della vita paesana. Una sintesi realizzata dal militante animatore della sociabilità locale: non solo attivo nell’associazionismo partitico, ma anche – attra-verso gli organismi di massa – di circoli ricreativi, culturali, sportivi. L’apparato as-sociativo comunista e socialista educò a un solidarismo popolare laico, in cui pro-gresso e intensa vita comunitaria miravano a fondersi idealmente, incoraggiando grandi speranze e bisogni di mutare condizioni di vita, di accedere al benessere, di uscire dalla marginalità culturale e vedersi riconosciuta una dignità civile, senza però far smarrire ai soggetti coinvolti le proprie radici popolari, sia che fossero ru-rali o urbane. Nei racconti dei vecchi militanti, le rappresentazioni dell’URSSe del-le piccodel-le Russie emiliane rispondono a questa logica. Ma per chi studia l’esistenza dei “contromondi socialisti” dell’area padana – o di tante altre aree europee – ve-dere in queste isole rosse una semplice discesa del mito sovietico, una sua mecca-nica e diretta conseguenza16, porterebbe a confondere cause ed effetti dei fenome-ni, precludendone la corretta comprensione. La luce che viene da Oriente – più vol-te citata dai vol-testimoni invol-tervistati nella mia ricerca – è solo la metafora che traduce un mito già alla fine del XIXsecolo ben radicato nella cultura operaia dell’Occidente capitalistico: quello del proletariato in marcia, «avanguardia portatrice della giusti-zia e del progresso». Dopo il 1917 il mito originario si è intrecciato, in forma sin-cretica, con quello bolscevico; ma senza togliere al secondo la natura di supporto efficace al primo. Nei paesi rossi qui studiati, un passato di identità e tradizioni ci-vili era stato reinvestito continuamente verso il futuro, passando anche attraverso codici ideologici prodotti nell’URSS, ma servendosi di numerosi altri elementi cul-turali, in parte esogeni e in larga parte no.

In Emilia, un’intensa e durevole ricerca collettiva di emancipazione, con le emozioni che aveva mobilitato, diede la spinta per costruire fisicamente degli spa-zi nuovi, soprattutto nei paesi rurali. Sorsero così luoghi di ritrovo che divennero monumenti all’idea di vita collettiva che queste popolazioni si erano formata nella loro recente storia. A volte, la Casa del popolo sorse nella piazza del paese; a volte fu riadattato a questo scopo lo stesso palazzo dei maggiori possidenti del paese, una volta comprato dalle organizzazioni dei lavoratori. In qualche paese, simili com-plessi edilizi, se di dimensioni ragguardevoli, vennero talvolta chiamati – sia a sini-stra che dagli avversari – il Cremlino, a sottolineare la loro alterità rispetto al modo di intendere il governo civile dell’Italia ufficiale. I municipi amministrati dalle sini-stre divennero una succursale di questi palazzi. Ovunque fu rimossa dalla memo-ria collettiva l’umiliazione dell’espropmemo-riazione subita da molti di questi edifici do-po il 1921, quando erano stati utilizzati come Case del Fascio. Si ricordano piutto-sto le difese militanti di questi spazi nel secondo dopoguerra, dove la polizia di Scel-ba ha cercato di sgombrarle, reclamandone la proprietà al demanio o a privati, per togliere a certi paesi o quartieri urbani il centro di riferimento dell’associazionismo rosso17. Molto rilevante culturalmente – ma anche per i suoi effetti in termini

pa-trimoniali – è stato il movimento di riappropriazione di spazi che oltre due decen-ni prima gli squadristi avevano sottratto alle cooperative e alle comudecen-nità. Raffigu-razioni realistiche o favoleggiate del socialismo avevano mobilitato energie impre-vedibili in queste comunità, rendendo disponibile al lavoro volontario una notevo-le quantità di uomini e donne. A questi Stachanov del socialismo immaginario non venne nessun vantaggio professionale o salariale paragonabile a quelli degli

udar-niki nei paesi del socialismo reale; ne ricavarono solo il prestigio bastante a farsi

ri-conoscere una dignità personale a o vedersi affidati compiti di mediazione e rap-presentanza sociale tra la gente del loro ambiente.

Per smontare e analizzare anche i luoghi comuni prodotti da un simile

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