2. Immaginazione ed estetica
2.4 Immaginazione e retorica
Oltre che su argomenti di critica letteraria e di poesia, Shaftesbury, nel Soliloquy, si diffonde anche a proposito di retorica e stile oratorio. A tale riguardo egli da una parte riprende il diffuso precetto secondo il quale uno stile altamente ispirato e la magniloquenza delle espressioni, senza l’applicazione di una misura di disciplina, sfociano con facilità nell’incontinenza espressiva e in forme di ridondanza assai più vicine al comico che al sublime243, dall’altra non riconosce il primato dell’emotività e della liricità nella poesia, viceversa affermato sia da Longino sia da altri critici contemporanei: semmai per Shaftesbury, nello stile, sui “sentimenti di uno spirito infiammato”244 deve prevalere l’aspetto tecnico, il momento precettistico imporsi su quello lirico. Ironizzando sulla “lebbra dell’eloquenza” come pericolo per gli autori moderni, e in modo particolare per gli autori religiosi, con un’immagine tratta dalle Epistole di Orazio (II, 2, v.77) Shaftesbury consiglia agli apprendisti scrittori di ritirarsi fra gli alberi di qualche bosco intricato, o di guadagnare la sommità di un’alta collina, dove avrebbero la possibilità, attraverso il metodo del soliloquio, di spurgare il proprio furor poeticus e placare le proprie immaginazioni, avvalendosi delle condizioni atmosferiche adatte alla “traspirazione
necessaria, specialmente nel caso di un genio poetico”245.
243 L’argomento è del resto presente nel saggio, attribuito a Longino, Del Sublime (Cfr. Sub., II, 3; XXIX, 1; XXX, 2), il quale apparve in Inghilterra nel 1680 nella versione del Pulteney, dal titolo Treatise on
loftiness and elegance of speach. Era, questa, la traduzione inglese della precedente versione francese del
saggio realizzata dal Boileau. 244 Longino, Del Sublime, XXXII, 4. 245 Sol., p. 49.
Per Shaftesbury il sublime si identifica ancora sostanzialmente con un contesto stilistico relativo alle varie arti. Ma se i riferimenti che accostano al sublime gli aspetti stupefacenti della natura sono rari, va detto che uno dei significati caratterizzanti del sublime shaftesburiano – sotto la cifra del vero entusiasmo - è quello che ne fa il tratto specifico delle forme espressive umane – e in special modo la poesia - considerate al loro massimo livello di nobiltà e ispirazione.
Dal punto di vista strettamente retorico, Shaftesbury assimila l’artificio stilistico al concetto di “falso sublime”. Il sublime accettato dal moralista si fonda, almeno sul piano della pratica artistica, su un aspetto intellettualistico opposto alla carica emotiva interiore del sublime lirico, contro gli eccessi del quale il
filosofo inglese è spesso assai critico246. Il confine tra
lo stile sublime e la unpoliteness di pose gonfie e solenni è assai labile: “il meraviglioso, il pomposo, o ciò che generalmente chiamiamo il Sublime” rappresenta la “parte stupefacente” nella prosa e nella poesia. Esso è fondato sulla “varietà delle figure” e la “molteplicità delle metafore”, mentre abbandona “il modo naturale e semplice di esprimersi a favore di ciò che è più estraneo all’umanità e all’uso ordinario”247. Fondato su “Astonishment”, “Horrour and Costernation”, il sublime è uno stile infantile e primitivo che fa leva sulla supestizione e l’ignoranza, puntando all’effetto sensazionale e alla passività del pubblico, anziché alla promozione del suo carattere morale e sociale. Per questo motivo agli atteggiamenti eroici e
246 Con l’espressione false sublime Shaftesbury intende propriamente ciò che la critica letteraria del XVII e XVIII secolo intendeva con l’espressione false wit o wit of words, ossia espedienti puramente retorici quali i giochi di parole o un uso oscuro, eccessivo e alla fine fatuo di similitudini e metafore intese a convogliare oscuri significati metafisici.
grandiosi il saggista oppone il modello dell’Ars poetica oraziana, lo stile omerico, e ancora una volta, in linea generale, il paradigma di perfezione ed eleganza realizzato nella Grecia attica, la lingua semplice e naturale dell’antichità, al tempo in cui il soliloquio era una pratica altamente diffusa presso poeti e filosofi, quando
non solamente il poeta e il filosofo, ma anche lo stesso oratore aveva la consuetudine di ricorrere al nostro metodo. E si può provare che il principe di questa ultima genìa è stato un grande frequentatore dei boschi e delle rive dei fiumi, dove ha consumato abbondantemente il fiato, ha acconsentito alla sua fantasia di evaporare, e ha moderato la veemenza sia dello spirito che della voce248.
Il sublime letterario, nell’analisi shaftesburiana dei modi espressivi, occupa il polo inferiore di un modello ermeneutico che inquadra forme stilistiche e criteri formali sotto la specie della continua evoluzione da manifestazioni inappropriate e immature (false Sublime) al superiore ideale di eleganza dispiegato nella raffinatezza.
Le Muse britanniche, in questo fragore di armi, possono certo giacere nella miseria e nella oscurità, particolarmente essendo a tuttora nel loro stato infantile. Fino ad ora sono a malapena arrivate a un qualcosa che abbia forma o personalità. S’inceppano con le parole come in culla; e le loro lingue balbettanti, che non hanno altre scuse se non la loro giovane età e inesperienza, non hanno finora articolato che pietosi giri e giochi di parole. Il nostro drammaturgo Shakespeare, il nostro Fletcher, Johnson, e il nostro poeta epico Milton conservano questo stile. E perfino una razza più recente, a malapena liberata da questa infermità e aspirante a un falso sublime, con la similitudine pletorica e con la metafora incoerente (il cavallo a dondolo e il sonaglio delle Muse), intrattiene la nostra rozza fantasia e il nostro orecchio inesperto che non ha ancora avuto l’agio di formarsi e di diventare pienamente musicale249.
Immagini ed espressioni di crudo realismo, derivanti dal campo dell’anatomia, della fisiologia e della antica patologia degli umori, come quelle che veicolano la condanna shaftesburiana di uno stile grandioso e finto riferendosi alla “lebbra dell’eloquenza” come a “gonfiore”
248 Ibid., p. 49. 249 Ibid., pp. 83-84.
e “schiumoso difetto”, sono evidentemente ispirate da opere di autori antichi e testimoniano una volta di più la sintonia del filosofo con le fonti della classicità. Le Satire di Persio, da cui Shaftesbury cita a più riprese, offrono ad esempio un modello espressivo e un bacino di argute soluzioni letterarie cui il saggista attinge nel formulare la sua condanna della vuota eloquenza e delle
oscure altezze del sublime250.
Riconnettendosi alla polemica scoppiata in ambito razionalistico nel Seicento, Shaftesbury riprende la condanna della falsa retorica, specie di natura religiosa, come espressione di un linguaggio fondato sulle emozioni e indirizzato ai sensi. Shaftesbury analizza e critica infatti l’abuso di immaginazione nel linguaggio magniloquente di cui abbondano i falsi autori della sua epoca, i quali, cadendo negli stessi errori della fase “sublime” della scrittura antica, usano in modo eccessivo la fantasia oratoria, la drammatizzazione, l’effetto sconvolgente per catturare i loro lettori, senza servirsi della ragione. Egli polemizza duramente e a più riprese contro gesti, movenze, stili e pose artistiche affettate ed estranee alla moderazione, alla misura razionale e alla
250 Nel poeta satirico latino il filosofo inglese trova infatti stigmatizzate vacuità di stile e pose declamatorie in esortazioni ironiche come quella di scrivere “tappati in casa […] qualcosa di sublime che i polmoni prodighi di fiato possano esalare” (Satira I), o in espressioni nelle quali sono deplorati i “lamentosi vaniloqui”, che gonfiano inutilmente le pagine come il “mantice ansante” fa con i venti (Satira V). Il ricorrere di Persio alla schiuma, alla saliva, allo “sgravarsi” della partoriente, al ringhiare dei cani rabbiosi e altre immagini di secrezioni e deiezioni corporali, per definire il poetare di autori maldestri, ricorda da vicino le “schiumosità” shaftesburiane, l’“acidità di stomaco”, gli “argomenti religiosi indigesti”, le “indigestioni”, la “collera”, la “bile” e l’uso delle immagini tratte dalle diverse fasi della gravidanza per descrivere gli scrittori di memorie, i “consiglieri sacri” e “parlatori o arringatori nello stesso genere”, i quali non “possono mettere al mondo niente di ben formato e di perfetto”, ma sono anzi colpevoli, dando libero sfogo alle loro meditazioni personali, di “generare in pubblico” (p. 51). L’affermazione della Satira I di Persio: “Ragazzi, il luogo è sacro: pisciate altrove!” evoca ancora il riferimento di Shaftesbury a funzioni organiche nemmeno troppo dissimulate quando, con le espressioni “liberarsi”, “sollievo in privato”, “operazioni corporali” e “prendere la purga in pubblico”, egli descrive la tecnica del soliloquio, necessaria a cassare ogni “flatulenza” del pensiero. Di salute malferma, costretto a dosare le forze nell’attività pubblica, l’asmatico Shaftesbury non poteva esprimere l’efficacia della purificazione spirituale e psicologica del soliloquio con parole più incisive di queste immagini relative alla purificazione corporea.
semplicità che dovrebbero regnare nella cultura inglese. Una cultura che, complessivamente, egli ritiene capace di porsi in sintonia con le inclinazioni di un’età antica che l’ellenismo shaftesburiano cristallizza in una classicità ideale in cui il momento apollineo, razionale e logico, prevale sull’aspetto dionisiaco, irrazionale e suggestivo, allorquando anche in Grecia: “L’umore florido e troppo sanguigno dello stile elevato era temperato da qualcosa di natura contraria. Il genio comico veniva applicato come una sostanza caustica su tali esuberanze e funghi del dialetto
rigonfio e del modo di parlare sontuoso”251. Alla profondità
dell’ispirazione e all’elocuzione patetica Shaftesbury oppone dunque la moderazione, all’aspetto psicagogico della parola la discorsività dell’argomentare razionale tipico della prosa, alla fantasia o all’ingegno il buon senso, quando non il senso comune: la tranquillità psicologica deve regnare sia durante il processo della composizione, sia durante quello della fruizione dell’opera d’arte252. Quell’equilibrio tra regola e genio che attorno alla metà del XVIII secolo si spezzerà in favore della soggettività creativa del momento estetico è ancora conservato in Shaftesbury, in una formula che, mentre assume il carattere indispensabile dell’emotività, prescrive poi la regola che le darà ordine e armonia. Sostenendo il prevalere della misura razionale, delle ragioni dell’intelletto su quelle dell’emozione, Shaftesbury, in armonia con la preferenza per la semplicità e il decoro della tradizione critica neoclassica, che vede nella poesia una forma della verità, afferma che la produzione artistica è frutto della piena
251 Ibid., p. 103.
252 Ha pertanto ragione Formigari quando dichiara che non c’è in Shaftesbury “l’idea del genio come eccezione alle regole, e tanto meno l’idea dell’uomo geniale come dotato di facoltà diverse da quelle della comune ragione”, L. Formigari, L’estetica del gusto, cit., p.160.
consapevolezza dell’autore, più che dello spontaneo traboccare della sua emotività253. Ciò non gli impedisce, tuttavia, di lasciare liberamente agire la maniera entusiastica e rapsodica in parte almeno dei suoi scritti, dimostrandosi così – nei confronti di se stesso – meno
intransigente di quanto fosse con le produzioni altrui254.
Ma non in sé è importante la contraddizione, quanto per ciò che essa indica. Parecchie delle formulazioni shaftesburiane in ambito critico sono infatti da leggersi, da una parte, non altro che come mere ingiunzioni tecniche rispondenti a sentite e condivise, quanto convenzionali e scontate, esigenze di adesione al canone artistico contemporaneo, dall’altra come tentativi di prevenire lo sconvolgimento delle coscienze. A evitare infatti la formulazione di una retorica astrattamente razionale vi è in Shaftesbury il riconoscimento della necessità dell’elemento emozionale, purché esso non si presenti come incontenibile da parte di una ragione che – pena la follia – deve imporre la sua norma. La pateticità è accettata purché non eccessiva e morbosa, e quindi nei limiti di uno stato emozionale pur sempre sorretto dalla ragione. Critica dell’immaginazione e critica della eloquenza (specie sacra) si saldano, qui, e hanno come bersaglio il problema dell’entusiasmo fanatico, con le sue radici psicopatologiche individuali e di massa.
In conclusione, nel campo artistico e della critica letteraria, sul piano delle affermazioni coscienti ed esplicite, bastano gli esempi e le argomentazioni addotte
253 Sul genio, R. Wittkower, Genius: Individualism in Art and Artists, in “Dictionary of History of Ideas”, II, 297-312.
254 A.O. Aldridge, cit., nota come l’atteggiamento teorico di Shaftesbury sia in profonda contraddizione con quanto messo in pratica da lui stesso nella composizione delle proprie opere, soprattutto nei
Moralists: “He writes against enthusiasm and almost deplores the excess of imagination in English
writers, and on the other hand presents for admiration at least one exemple of poetic transport and occasionally falls into rapturous poetic prose”.
per escludere l’esistenza, in Shaftesbury, di una reale problematizzazione della natura e del ruolo dell’immaginazione diversa da una serie di commenti prevedibili e del tutto ordinari improntati a una decisa condanna verso la funzione immaginativa, se lasciata agire al di fuori di ogni bilanciamento e controllo da parte di reason e judgment. Egli semplicemente ripete un insieme di luoghi comuni, riflessi di concezioni assai diffuse, ritrovabili in una infinità di occorrenze all’interno della critica letteraria e poetica di ispirazione razionalistica lungo il XVII secolo255.
Shaftesbury però, rispetto ad altri critici, sembra radicalizzare questo atteggiamento razionalistico e “supecilioso”, al punto da condannare non soltanto la prevalenza di un’immaginazione stravagante e sciolta dal controllo razionale, ma da gettare un’ombra sull’aspetto collaborativo di judgment e imagination, su quella concorde dualità di razionalità e fantasia, elementi separati ma ugualmente importanti nella composizione artistica, che è una costante della trattatistica neoclassica del processo
creativo durante il periodo definito come “Age of Wit”256.
Com’è noto, nel solco di quella misura di armonioso intersecarsi e bilanciarsi di discretion e wit si aprirà intorno alla metà del XVIII secolo il riconoscimento di una reale e irriducibile specificità delle due istanze, preludio all’ormai imminente proclamazione dell’autonomia
255 Per un’ampia gamma di esempi dalla critica letteraria e filosofica neoclassica, da Dennis a Rymer, a Addison a Brown a Cooper, cfr. D. F. Bond, Distrust’ of Imagination in English Neoclassicism, “Philological Quarterly”, XIV, 4, 1935, pp.54-69 e R. Wellek, cit.
256 “Judgment”, scrive Hobbes, “begets the strenght and structure, and Fancy begets the ornaments of a poem”, Spingarn, II, p. 58. Ma cfr. soprattutto W. Temple, “Of Poetry”, Spingarn, III. Sulla relazione tra
wit e judgment nella critica letteraria del XVII e XVIII secolo, cfr. “The Psychology of Wit”, in D. Judson
dell’immaginazione e all’apprezzamento del suo valore e importanza per la creatività artistica.
Ora, Shaftesbury non si spinge mai sino ad affermare la necessità di un divorzio tra fantasia e poesia, o a ritenere che questa debba essere il prodotto della sola ragione. Egli, piuttosto, critica apertamente soltanto coloro che lasciano libero campo agli aspetti “stravaganti” di una ungovern’d Fancy poetica e oratoria. Shaftesbury ammette che l’immaginazione debba fare parte del bagaglio del poeta, se non altro – come affermato nella Lettera sull’entusiasmo – come divina ispirazione, “feeling” o “imagination” di una divina presenza. Una fantasia, però, disciplinata da reason e judgment, istanze di controllo di una facoltà immaginativa bisognosa di un argine razionale entro cui scorrere, perché altrimenti debordante dalle forme del vero naturale, del decoro artistico e della proprietà stilistica. Nell’affermare questo tipo di concezione, Shaftesbury procede all’unisono con tutti o quasi gli spiriti della sua epoca, sposando un’attitudine estetica sostanzialmente conservatrice intesa a confermare il classico bilanciamento tra giudizio e fantasia.
Pure, la posizione shaftesburiana nell’antica questione relativa all’origine della poesia, l’obbedienza alle regole o l’abbandono all’ispirazione, conosce momenti più radicali. Abbiamo visto infatti che nella psicologia shaftesburiana della creazione artistica il rapporto tra fancy e reason è connotato non soltanto dalla stretta, quanto scontata, subordinazione della prima alla seconda. Lì dove il moralista esprime commenti positivi verso il ruolo della fantasia è soltanto per manifestare il proprio assenso a un’immaginazione “austera”, la quale agisce secondo modalità razionali che la apparentano meglio alle
funzionalità logiche di un “act of reason” che a qualità fantastiche. Alla fancy, nel ruolo di facoltà primaria del processo creativo è così preferito il giudizio, in un’ottica però difficilmente assimilabile al consueto compromesso neoclassico tra ragione e fantasia. Il giudizio compare non tanto quale semplice elemento razionale all’interno di una dialettica della creazione che richiede la necessaria presenza di un altro fattore, quello immaginativo. In altre parole, l’opera riuscita sembra
essere concepita quasi senza l’intervento
dell’immaginazione, o grazie a una fancy assimilata, più che subordinata, alle procedure razionali del judgment. In questo modo l’immaginazione si vede negato non solo un ruolo autonomo, di invenzione, o almeno di selezione del materiale poetico, ma un potere di reale compartecipazione con la componente razionale, rimanendole soltanto una posizione di irriscattabile subalternità. Sul piano delle affermazioni formali, più che l’anticipazione di sentimenti preromantici, le idee shaftesburiane sulla poesia e l’arte esprimono la radicalizzazione di posizioni neoclassiche. E’ questo, forse, il coerente approdo di un’opera come il Soliloquy, intrisa di sollecitudine pedagogica e spirito stoico, nella quale l’analisi delle inclinazioni umane prende la forma radicale di una logomachia che ha luogo in forma di messa in scena all’interno dell’anima, e con la quale Shaftesbury vuole mostrare non tanto la natura e la fenomenologia delle passioni, quanto il metodo del loro controllo da parte della ragione. E ciò in vista di un esito formativo del carattere di un “autore” nazionale capace di dare lustro alle lettere e alle arti, educando il proprio pubblico.
Si ha insomma l’impressione che la forte coloritura civico-pedagogica dell’opera, cui non sono estranei motivazioni di politica culturale, quali il tentativo di riformulare l’ideale del gentiluomo e l’affermazione di una idea di moralità pubblica, spinga Shaftesbury a una rigida conservazione della struttura critica neoclassica, e alla parallela adozione di una particolare radicalità nei confronti dell’aspetto immaginativo della creazione artistica: questa radicalità nella dimensione estetica è insomma il riflesso di una sfiducia principalmente etica verso l’immaginazione, contro la quale Shaftesbury reitera in prevalenza la classica ammonizione a non farne una guida per la vita morale. L’atteggiamento di Shaftesbury verso l’immaginazione letteraria non è che lo sviluppo in campo artistico di una condanna che egli formula sul piano “pratico” della morale, dove l’immaginazione è sinonimo di incostanza, ostacolo all’accordo con se stessi e all’acquisizione di una solida unità identitaria, presupposto di ogni armonia interiore, da cui solo può scaturire un giudizio conforme a ragione anziché modellato su passioni e fantasie. Gran parte della critica shaftesburiana all’immaginazione formulata nel Soliloquy appare dunque perfettamente comprensibile se vista sullo sfondo del tema centrale dell’opera stessa, l’integrità spirituale dell’individuo. Ma l’immaginazione rappresenta una minaccia per l’integrità e l’autonomia individuale non meno che per la libertà collettiva: “Non posso concedere che sia libera una vita governata da una passione smodata e da un’immaginazione non controllata, più di quanto possa concedere che sia libero un governo in cui governi il popolo, e non le leggi” (Misc. Refl., V). Nemica dell’indipendenza morale, della razionalità del giudizio,
della semplicità di comportamenti, l’immaginazione incontrollata fa parte di quelle manners corrotte e nemiche della virtù la cui riforma è oggetto di un dibattito che costituisce un capitolo importante della storia moderna, e in particolar modo della storia intellettuale
dell’Inghilterra del XVII e XVIII secolo257.
Il riflettersi sul piano estetico di istanze radicate nell’umanesimo etico e civile shaftesburiano è del resto coerente da una parte con la carica morale e istruttiva che Shaftesbury assegna all’arte, dall’altra con il particolare genere letterario dell’advice nel quale le prescrizioni del saggista trovano forma. La sua rigidità è, in altre parole, tipica dell’idealista moralizzante che si dedica a questioni artistico-letterarie, ma che allo stesso tempo mira a fissare i princìpi dell’etica e a forgiare una fisionomia della virtù; a stabilire i fondamenti teorici e pratici del progresso artistico così come della coscienza civica e dell’azione pubblica258. Per l’arte, del resto, valgono le stesse regole del comportamento sociale; la politeness è un obiettivo estetico e morale, la regola etica coincide con la regola estetica.
Ma forse, proprio perché nel Soliloquy prende chiara fisionomia l’impostazione pedagogica che innerva il suo progetto, ossia la delineazione di una ideologia che esalta la connessione di libertà e cultura, ma anche l’educazione a una socialità che si plasma nello strenuo esercizio della virtù, Shaftesbury si mostra in questo scritto più intransigente e diretto di quanto avvenga altrove. Come